Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa “brutta”! No: l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti […] – è un impegno di umanità e di santità!

G. La Pira – La nostra vocazione sociale

Gli avvenimenti politici degli ultimi anni e la situazione etico-sociale attuale sembrano invitarci a stare lontano dalla partecipazione attiva alla vita politica e ad estraniarci dalla qualità della democrazia. Noi invece affermiamo il rifiuto dell’ “antipolitica” e ci sentiamo invitati piuttosto ad una riflessione più profonda fino ad interrogarci sul significato stesso della politica, a domandarci se la crisi che stiamo attraversando è solo conseguenza di una congiuntura economica e quindi sociale, o se ha origini più radicate e più lontane. Probabilmente infatti abbiamo perso di vista il senso principale di quello che spinge l’uomo a dedicarsi alla Cosa Pubblica. In quanto cristiani inoltre siamo chiamati ad un impegno forte e costante, inteso come forma più alta di carità, e ad un profondo esercizio di laicità: l’invito ad un amore e ad una giustizia nuova che ci viene proposta nel Vangelo non possono rimanere fini intimistici, ma devono pervadere l’attività pubblica di ogni cristiano che, come delinea il professor La Pira, ponga l’uomo non come mezzo ma come fine dello Stato, il quale è garante dei diritti essenziali della persona e delle comunità che ne fanno parte.
La politica non può che mirare alla realizzazione della persona attraverso il raggiungimento del bene comune, prima vera necessità a cui si ordinano tutte le altre; in questo senso la politica è la categoria cui si ordinano tutte le altre attività umane. “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio, sortirne da soli è avarizia, sortirne tutti insieme è politica” disse don Milani ad uno dei suoi ragazzi, evidenziando quanto fosse rilevante il bene di tutti per poter parlare effettivamente di politica.
In questi termini risultano fondamentali la formazione, e quelle che per il tedesco Max Weber sono le “tre qualità sommamente decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza” (Max Weber – La politica come professione, 1919): parliamo di virtù proprie della personalità e allo stesso tempo di un percorso – di studi e soprattutto di vita – che fornisca le fondamenta necessarie per affrontare gli ostacoli che gli si porranno davanti mantenendo l’ordine delle priorità. Forse sono proprio gli attributi che oggi non riscontriamo in molte delle personalità del nostro panorama istituzionale, spesso dediti al culto dell’immagine, alla promozione di una ininterrotta campagna elettorale e alla ricerca di soluzioni attraverso slogan e tweet, con cui pretendono di sostituire quel dialogo che è la prima fonte di una formazione nata dal confronto.
Il problema appare prima di tutto culturale: negli ultimi decenni la questione educativa e formativa non è stata sentita come una necessità impellente, una conditio sine qua non dell’agire. Assistiamo sempre più spesso a scelte che – più che di un attento studio e programmazione – sono figlie di un dilagante spontaneismo, senza nessun sicuro fondamento. Questo si riflette poi nell’esigenza, ormai non più avvertita, di una formazione specifica a quelle che sono le categorie proprie dell’impegno politico: riconoscere le reali necessità delle persone, immaginare le possibili soluzioni e padroneggiare gli strumenti per cercare di raggiungerle. Mentre nei decenni passati i grandi partiti di massa ponevano un’attenzione particolare alla formazione delle future classi dirigenti, negli ultimi anni questo aspetto centrale è andato perso, a favore di logiche di mero consenso al leader di turno. Il momento storico in cui si interrompe la formazione infatti porta con sé il declino della  politica, con il conseguente blocco del ricambio generazionale.
Non si tratta e non può trattarsi di un nostalgico ricordo dei bei tempi che furono (e nonostante tutte le riserve sul concreto sviluppo del sistema dei partiti), o il rimpianto di alcune grandi personalità della nostra scena socio-politica della seconda metà del Novecento. Questi grandi maestri, da De Gasperi a Dossetti, da Lelio Basso a Calamandrei, sicuramente sono stati molto importanti e sono ancora esempi validi di condotta politica. Ma non basta, occorre – nella costanza dei principi – trovare nuovi paradigmi e strumenti per affrontare questo nostro tempo così diverso dal passato e così complesso: ce lo ricorda lo stesso Maritain che “ogni tempo ha il suo ideale storico”, e un ideale storico vissuto nel passato non è più riproponibile nel futuro. Dobbiamo nutrirci del passato, essere discepoli dei nostri padri e porre buone radici in esso, ma solo al fine di essere in grado di discernere e immaginare soluzioni future ed essere nuovi apostoli. Apostolo infatti è l’inviato, colui che è proiettato verso l’avvenire ed opera con un orizzonte temporale molto ampio. Così anche l’uomo politico necessita di lungimiranza, discernimento e spirito di servizio nei confronti della collettività per cui opera, qualità determinanti per poter agire e agire bene.
Torna ancora in primo piano la formazione, il metodo educativo che permette di riscoprire questi valori anche in un momento di difficoltà come quello che stiamo affrontando oggi. Tutto infatti riparte dall’uomo, riparte da quei principi primi che hanno spinto gli individui a costituirsi società civile, a mettersi in relazione. Proprio nella relazione infatti l’uomo si fa comunità e tende ad uscire dall’escludente chiusura del singolo e dei suoi interessi, per la quale si tenderebbe ad una “anarchia dell’individualismo” (Emmanuel Mounier – Il Personalismo): la relazione e l’apertura verso l’altro da sé portano infatti l’uomo – sempre considerato nella sua irripetibile singolarità e nella sua essenza di persona – verso una dimensione di pluralità e reciproco servizio che va a costituire il fondamento stesso della società. Si viene a delineare quello che Mounier definiva “personalismo comunitario”, che egli stesso diceva implicare “una società che assicura a ogni persona, realmente e non per delega collettiva, il suo posto di autonomia e di responsabilità attiva nell’organismo collettivo, e che non rifiuta ad alcuno, anche se dissente sul sistema in atto, i diritti elementari della persona. La democrazia – continua il filosofo francese – coerentemente con il significato della parola, non è il regime anonimo del numero, o anche la sanzione dell’unanimità, ma il regno della responsabilità vivente, nel diritto vivente. Se l’io è avvolto dal noi fin dall’origine, bisogna ricostruire da cima a fondo le relazioni umane” (Il Personalismo – Emmanuel Mounier).
Ma cos’è e qual è il fine per cui è necessaria la formazione? Il rischio da sempre avvertito e sperimentato, oggi più di ieri, è quello di creare automi che ripetano parole d’ordine. Invece la formazione – nel senso più alto e bello del termine – deve mirare proprio al contrario: deve essere un vero e proprio esercizio di libertà; solo così si può fare politica, a tutti i livelli. Ce lo ha ricordato di recente lo stesso papa Francesco: “Anzitutto: siate persone libere! Che cosa voglio dire? Forse si pensa che libertà sia fare tutto ciò che si vuole; oppure avventurarsi in esperienze-limite per provare l’ebbrezza e vincere la noia. Questa non è libertà. Libertà vuol dire saper riflettere su quello che facciamo, saper valutare ciò che è bene e ciò che è male, quelli che sono i comportamenti che fanno crescere, vuol dire scegliere sempre il bene. Noi siamo liberi per il bene. E in questo non abbiate paura di andare controcorrente, anche se non è facile! […] Coinvolgersi nella politica è un obbligo per un cristiano. Noi cristiani non possiamo «giocare da Pilato», lavarci le mani: non possiamo. Dobbiamo coinvolgerci nella politica, perché la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune. E i laici cristiani devono lavorare in politica. […] Lavorare per il bene comune, è un dovere di un cristiano! E tante volte la strada per lavorare è la politica” (dal discorso del Santo Padre Francesco agli studenti delle scuole gesuite – venerdì 7 giugno 2013).
Da persone formate alla libertà vera sentiamo il dovere, la responsabilità, di partecipare in modo politico alla vita della comunità, una comunità che è sempre più diversa e variegata! All’agire politico come forma di carità non sono chiamati solo i cristiani, ma tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che vogliono – nel rispetto della reciproca libertà – trovare soluzioni comuni per dare risposta alle necessità di tutti. La politica infatti non guarda al bene del singolo, ma nemmeno a quello di una piccola comunità omogenea (cristiani e musulmani, omosessuali ed eterosessuali, italiani ed extracomunitari etc.), ma di tutti: di tutti nelle loro differenze e dunque nelle loro differenti esigenze e aspirazioni, alla ricerca di un compromesso comune che tuteli tutte le parti in causa e mantenga intatto il valore e la dignità della persona umana. Questo “compromesso” (se così vogliamo chiamarlo) non deve essere inteso come mercificazione o svendita dei propri valori, ma è un vero e proprio dono reciproco con il fratello, soprattutto con quello che sentiamo più diverso e distante (“Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso” Lc 6, 32). Torna così ad essere l’uomo il fine della politica. Il cristiano è chiamato all’impegno nella società per ristabilire l’ordine delle priorità secondo il valore della persona, ponendola al centro della scena sociale, per perseguire – in assoluta libertà di coscienza – il bene comune alla luce degli insegnamenti di Cristo.
Al di là delle divisioni di partito e di posizioni ideologiche, il messaggio del Vangelo va a costituire il sostrato della formazione e dell’educazione comune che si pone come unici scopi la giustizia e la libertà, i quali portano in primo piano il valore sociale della Parola. Soltanto così la fede, andando oltre alla dimensione interiore dedita alla contemplazione metafisica, “rinunciando alla tentazione del Tabor” (G. La Pira – La nostra vocazione sociale), può inserirsi efficacemente nella realtà terrena e renderla feconda (“voi siete il sale della terra” Mt 5,13): questo può ritenersi il compito primo del laico, “impegno di umanità e santità” attraverso cui questi tende a vivere la politica, con le parole di Paolo VI, come “la più alta forma di carità”. In questi termini l’impegno si rende addirittura necessario: “Come si può essere consapevoli della propria vocazione cristiana che associa, in Cristo, ciascuno con tutti, e non sentire i problemi sociali in funzione di questa solidarietà fraterna? Posso dire di essere cosciente della mia inserzione nel Corpo mistico di Cristo e non sentire poi la necessità di operare perché la cristianità si costruisca secondo una struttura sociale nella quale la fraternità umana si concreti in istituzioni economiche, giuridiche, politiche e culturali storicamente adeguate?” (G. La Pira – Premesse della politica). Le parole del Professore ci chiamano a gran voce, ci convocano ad operare al fine di uscire dallo “sbandamento” in cui ci troviamo e ci invitano a ripartire dalla centralità della persona e dalle relazioni che costruiscono la comunità, a tornare a costruire sulla roccia, per formarci nei nostri compiti e porre lo sguardo più lontano possibile.
Editoriale di “Prospettive”
a cura dell’Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira” di Firenze