Emarginazione Sociale e Deprivazione in India

di Elisabetta Basile – Professore Ordinario di Economia dello sviluppo

Dipartimento di Economia e Diritto – Università di Roma “La Sapienza” – elisabetta.basile@uniroma1.it

In questo scritto analizzo l’emarginazione sociale e la deprivazione nell’India contemporanea. In particolare, esploro il collegamento fra i processi di emarginazione e lo stato di deprivazione nel paese e il modello di sviluppo che si è affermato dopo la liberalizzazione dell’economia (dagli anni 1980 in poi). Il mio obiettivo è duplice: i) illustrare la dimensione della deprivazione sulla base delle stime sul numero dei poveri e delle altre informazioni disponibili sugli standard di vita e ii) evidenziare i meccanismi che generano e perpetuano emarginazione e deprivazione, segnalando le categorie sociali particolarmente vulnerabili. La tesi che intendo sostenere è che, nonostante l’elevato tasso di crescita economica negli ultimi tre decenni, l’India non ha vinto la sua battaglia contro la povertà: molti strati della popolazione indiana sono esclusi dai progressi raggiunti sul fronte della crescita economica, mentre emarginazione e deprivazione si rafforzano reciprocamente.

Questo testo è organizzato come segue. Nel prossimo paragrafo presento e discuto le informazioni disponibili sulla dimensione della povertà in India. Mi soffermo in particolare sulle controverse stime prodotte dal Governo indiano che confronto con quelle della Banca Mondiale. Nel paragrafo 2 analizzo i collegamenti fra povertà ed emarginazione. Considero innanzitutto la natura multidimensionale della povertà per ragionare sulle caratteristiche personali e sociali che portano alla sistematica marginalizzazione di individui e gruppi. Nel paragrafo 3, ragiono sul modello di sviluppo capitalistico indiano con l’obiettivo di evidenziarne l’influenza sui processi all’origine dell’emarginazione e della deprivazione. Segnalo in particolare l’ampia diffusione di rapporti di impiego informali all’interno dei quali i lavoratori sono deprivati di qualunque forma di assistenza e di protezione sociale, e mi propongo di mostrare come l’informalizzazione dell’economia sia saldamente radicata nelle numerose forme di stratificazione sociale della società indiana che sono all’origine della discriminazione e dell’emarginazione.

  1. Quanti poveri ci sono in India?

La dimensione della povertà in India – in termini di quota di popolazione e di numero di persone in condizioni di deprivazione delle risorse necessarie al soddisfacimento dei bisogni di base – è questione molto controversa. La documentazione è abbondante ma le indicazioni che emergono non sono concordanti e, sebbene si osservi un generalizzato trend decrescente, non è possibile dire con certezza quale sia il numero dei poveri nei diversi anni, se la povertà sia diminuita con lo stesso ritmo e in tutti i periodi nell’India urbana e anche nell’India rurale e in tutti gli Stati indiani, e se, e in quale misura, la riduzione debba essere imputata alle spese pubbliche per sanità e istruzione, molto variabili nel territorio nazionale.

La Planning Commission è l’agenzia del Governo indiano preposta alla stima del numero dei poveri e periodicamente – di regola ogni 5 anni, ma talvolta con una frequenza maggiore – stima la dimensione della povertà sulla base dei dati sui consumi delle famiglie rilevati dalle indagini campionarie condotte dalla National Sample Survey Organisation (d’ora in poi NSSO), un’agenzia che fa capo al Ministero delle Statistiche del Governo indiano. Le stime della dimensione della povertà prodotte dalla Planning Commission dal 1973/4 mostrano una costante diminuzione della quota di popolazione in condizioni di povertà, dal 55% al 37,2% nel 2004/5 (Planning Commission, 2009: Tabella A, p. 17). Tuttavia, queste stime non sono sempre confrontabili per conseguenza dell’utilizzo di metodi diversi di elaborazione dei dati NSSO e per l’uso di linee della povertà costruite sulla base di criteri non omogenei [1].  Inoltre, le stime stesse sono oggetto di forte contestazione da parte degli studiosi e di ampi settori della società civile sulla base della diffusa convinzione che sottostimino il fenomeno al fine di diffondere l’immagine di un paese capace di associare la forte crescita dell’economia a un diffuso miglioramento delle condizioni di vita [2].

Il confronto è stato particolarmente aspro sulle stime costruite sui dati NSSO relativi al 2009/10 che indicano una forte riduzione della povertà: dal 37% della popolazione del 2004/5 al 30% per l’India nel complesso (con livelli del 21% nelle aree urbane e del 34% nelle aree rurali) (Planning Commission, 2012). Questo risultato ha generato due tipi di critiche. La prima, sollevata frequentemente e di carattere molto generale, si riferisce alla scarsa comparabilità delle diverse indagini campionarie della NSSO e alla loro idoneità per l’analisi della povertà (Ghosal, 2012; Abhijit Sen and Himanshu, 2003; Himanshu, 2012), mentre la seconda, di natura molto puntuale, riguarda la linea della povertà. A essere contestato è il metodo di stima messo a punto dalla Commissione Tendulkar (dal nome del coordinatore del gruppo di esperti) incaricata dal Governo nel 2005 di predisporre nuove metodologie per l’analisi della povertà sulla base dei dati NSSO.

Le stime prodotte con il metodo Tendulkar sono condotte sulla base di linee della povertà ampiamente considerate non idonee ad assicurare un livello di consumo mensile pro capite in grado di garantire la sopravvivenza: 579 Rupie nell’India rurale (circa 9 US$ di oggi) e 860 Rupie nell’India urbana (circa 14 US$ di oggi) (Planning Commission, 2014: tabella B1, p. 28). Grazie all’uso di queste linee della povertà, le stime evidenziano forti progressi, soprattutto nelle aree urbane, e forniscono un’immagine molto distorta del paese, che non tiene conto del cambiamento nei modelli di consumo e negli stili di vita e, anche, nelle aspirazioni delle persone. I principali problemi sono costituiti dalla sotto-stima del peso delle spese delle famiglie per beni e servizi non legati all’alimentazione – ad esempio per salute, istruzione, trasporti – e dalla mancata considerazione dei cambiamenti nella dieta alimentare dovuta alla riduzione del peso degli alimenti a forte contenuto calorico in favore di alimenti a maggiore contenuto proteico [3], cambiamenti sostanzialmente imputabili alla crescita del reddito del paese nel suo complesso.

Per far fronte alle critiche ricevute – e in parte anche a causa della ridotta rappresentatività del 2009/10, anno di forte siccità – il Governo indiano decide di ripetere l’indagine sulla povertà nel 2011/12, incaricando un nuovo gruppo di esperti (Commissione Rangarajan) di mettere a punto nuovi metodi di stima della povertà. Le nuove stime – presentate nel giugno del 2014 – tengono conto dei cambiamenti nelle diete e negli stili di vita, definendo nuove tabelle di consumo calorico e aggiornando il paniere dei beni necessari alla sussistenza.

Con il metodo Rangarajan, l’India si scopre più povera. Le nuove stime hanno come riferimento linee di povertà più alte – rispettivamente 972 Rupie mensili per l’India rurale e 1407 Rupie mensili per l’India urbana – e danno luogo a stime più alte della dimensione della povertà: 29% della popolazione totale nel 2011/12 (31% India rurale e 26% India urbana) [4].  Analogamente, con il metodo Rangarajan applicato ai dati NSSO del 2009/10 si ottengono stime più alte per l’India nel suo complesso, l’India rurale e l’India urbana: rispettivamente 38%, 40% e 35% (Planning Commission, 2014: Tabelle 4.4, 4.5, e 4.6, pp. 66-68).

Come si vede, vi è quindi una sostanziale incertezza sulla dimensione reale della povertà in India che deriva dall’uso di metodologie alternative di analisi del fenomeno, le quali generano stime nettamente diverse. La revisione dei metodi di stima è necessaria perché lo stato di povero è condizionato dal cambiamento dell’economia e dai progressi di ogni società in termini di disponibilità di beni e servizi per la vita civile [5].  Tuttavia, come mostra l’intenso dibattito sulla povertà in India, la revisione dei criteri di stima è anche un processo fortemente condizionato dagli interessi politici perché un’alta dimensione della povertà è indubbiamente un elemento che entra con un segno pesantemente negativo nelle valutazioni sulla performance economica di un paese, in particolare per paesi a forte crescita come l’India. Ciò suggerisce una forte prudenza nell’analisi delle stime del Governo indiano.

Si aggiunga anche che l’incertezza sul numero dei poveri in India non è risolta neppure se si considerano le stime della Banca Mondiale [6].  Utilizzando la linea internazionale della povertà a 1,25 $, corrispondenti a 38 $ PPP mensili, sui dati NSSO relativi al 2009/10, la Banca Mondiale conta un numero di poveri pari al 33% della popolazione indiana, di cui il 34% nell’India rurale e il 29% nell’India urbana [7],  un livello intermedio dunque fra le stime prodotte dal Governo indiano con i due metodi Tendulkar e Rangarajan.

Malgrado non sciolga i dubbi su quanti poveri ci siano in India, l’analisi della Banca Mondiale è comunque molto utile perché ci aiuta a contestualizzare il fenomeno della povertà nel paese all’interno dei trend mondiali. Come le stime del Governo, anche le stime della Banca Mondiale testimoniano che la povertà si è molto ridotta in India, passando dal 66% della popolazione nel 1977, al 42% nel 2004/5, al 33% del 2009/2010. Tuttavia, i progressi compiuti dall’India nella lotta contro la povertà appaiono molto limitati se confrontati con i progressi di altri paesi in via di sviluppo ed emergenti, e in particolare con la maggior parte dei paesi asiatici, sia grandi (come la Cina) sia piccoli (Olinto et al., 2013).

Sebbene il numero dei poveri nel mondo si sia ridotto di oltre 700.000 unità negli ultimi tre decenni, la povertà continua ad essere un fenomeno di notevole gravità e oltre un miliardo e 200 milioni di persone nel mondo vivono ancora in condizioni di povertà assoluta (con meno di 1,25 $ al giorno). Il contributo maggiore alla riduzione è stato dato dalla Cina, che è passata da 835 milioni di poveri nel 1981 (pari al 43% dei poveri totali) a 155 milioni di poveri nel 2010 (13%). Al contrario della Cina, in India il numero dei poveri si è ridotto solo di 34 milioni di unità, e nel paese è localizzato il 33% della povertà totale (contro il 22% del 1981). In questo senso, il peso relativo dell’India in termini di povertà è cresciuto ed è oggi comparabile a quello dell’Africa Sub-Sahariana, in cui abita il 34% dei poveri del mondo.

Va inoltre sottolineato inoltre che, sebbene la linea della povertà utilizzata dalla Banca Mondiale sia nettamente superiore a quelle utilizzate dal Governo indiano fino al 2009/10, la soglia di 1,25 $ al giorno consente solo di contare i poveri estremi poiché corrisponde a un livello di consumo appena sufficiente ad assicurare la sussistenza, come peraltro la stessa Banca Mondiale ripetutamente afferma. Al contrario, una linea della povertà più alta a 2 $ al giorno consente di individuare l’insieme delle persone che si trovano in condizioni di forte deprivazione, anche se non a rischio immediato di sopravvivenza. Ebbene, se si misura la dimensione della povertà relativa in India per mezzo di una linea della povertà a 2 $ al giorno – che corrisponde a 60 $ al mese – si può vedere che la quota percentuale dei poveri sul totale della popolazione indiana è passata da 89% nel 1977 a 68% nel 2010. Anche in questo caso la diminuzione è certamente rilevante, ma la dimensione della deprivazione – pari a circa i due terzi del paese – appare ancora un fenomeno molto, molto preoccupante.

  1. Povertà e disuguaglianza

Finora ci siamo occupati di povertà definita sui livelli di reddito e di consumo. Questo tipo di povertà è certamente importante, poiché la mancanza di reddito concorre a spiegare l’esclusione dall’accesso a molti beni e servizi necessari per una vita dignitosa. Ma la povertà economica è solo una delle dimensioni della povertà, e si può essere poveri – ossia esclusi dalla possibilità di avere una vita dignitosa – per cause non direttamente collegate alla mancanza di reddito, ad esempio per conseguenza della cattiva salute, della mancanza di istruzione, della mancanza di potere contrattuale, della bassa qualità del lavoro, della minaccia di violenza. La povertà è cioè un fenomeno multidimensionale, che non si esaurisce nella mancanza di reddito o in un livello basso di consumo ma può essere determinata dalle caratteristiche personali o da quelle del contesto in cui gli individui vivono e lavorano.

L’osservazione che lo stato di povero è il risultato di molteplici forme di deprivazione è alla base del metodo di analisi e di misurazione della povertà multidimensionale sviluppato da Sabine Alkyre nell’ambito della Oxford Poverty & Human Development Initiative (www.ophi.org.uk) [8].  L’applicazione del metodo Alkyre all’India – come è stato fatto nello studio condotto da Alkyre e Seth (2013) – ci serve per completare l’immagine che abbiamo fin qui composto, fornendo indicazioni importanti sulle principali dimensioni della povertà e sui gruppi sociali ad alto rischio di deprivazione.

Lo studio – che si riferisce al periodo 1999-2006 – dimostra che l’India ha fatto progressi anche nella riduzione della povertà multidimensionale, sebbene in questo campo i progressi siano stati minori di quelli registrati nel caso della povertà di reddito e i poveri continuino a subire molte forme di deprivazione che spesso si sovrappongono. Lo studio dimostra anche che la riduzione della povertà multidimensionale è largamente imputabile all’intervento pubblico nelle infrastrutture – strutture abitative e di igiene, elettricità, acqua potabile – e che l’impatto di questi interventi non è stato uniforme per gruppi sociali e individui, con la duplice conseguenza che i più poveri fra i poveri risultano sistematicamente discriminati e il divario fra gruppi sociali cresce anche in una prospettiva di povertà multidimensionale.

Un’analisi puntuale della riduzione della povertà multidimensionale evidenzia che, nonostante vi sia stata una riduzione della povertà multidimensionale sia nelle aree urbane sia nelle aree rurali, la distanza fra i due tipi di aree continua a essere maggiore in termini di povertà multidimensionale piuttosto che in termini di povertà di reddito. Allo stesso modo, non tutti gli Stati registrano gli stessi progressi. Così, mentre la povertà multidimensionale si riduce in tutti gli Stati eccetto che in Aruchanal Pradesh, gli Stati meno poveri hanno sistematicamente ridotto la povertà multidimensionale di più degli Stati più poveri, i quali hanno registrato di regola una riduzione inferiore alla media nazionale. Infine, la riduzione della povertà multidimensionale ha inciso a livelli diversi sui diversi gruppi castali e religiosi e sui diversi tipi di famiglia. Tra i gruppi castali, il gruppo che ha ridotto di meno la povertà multidimensionale è costituito dalle popolazioni tribali (le cosiddette Tribù schedate), le quali vedono aumentare il gap con gli altri gruppi, mentre i gruppi dei fuori casta (i Dalit, ossia le cosiddette Caste schedate) registrano una performance relativamente migliore. Tra i gruppi religiosi, gli Indù e i Sikh registrano una riduzione della povertà multidimensionale molto più significativa dei Cristiani, mentre i Musulmani mostrano una tendenza al peggioramento delle condizioni di vita. Infine, l’analisi riferita alle caratteristiche delle famiglie dimostra che, come era lecito immaginare, la riduzione della povertà multidimensionale è maggiore nelle famiglie che hanno un uomo (e non una donna) come capofamiglia ed è positivamente correlata con il livello di istruzione dei membri della famiglia e inversamente correlata con la dimensione della famiglia. È in queste unità familiari fragili – per le caratteristiche dei membri che le compongono – che sono localizzati i più poveri fra i poveri. In sintesi, l’analisi della performance dei diversi gruppi sociali fornisce un’ulteriore conferma di quanto già sottolineato sopra, ossia che i gruppi sociali più poveri mostrano una tendenza alla riduzione della povertà multidimensionale minore di quelli meno poveri.

Come si vede, l’analisi della povertà multidimensionale sostanzialmente conferma quanto emerge dalle stime sull’evoluzione del fenomeno della povertà economica. Nonostante si osservi una riduzione della povertà in tutte le sue dimensioni, nell’India contemporanea è in atto un processo di marginalizzazione dei più poveri fra i poveri che determina l’esclusione di vasti gruppi sociali dai progressi generati dalla crescita economica. Ne consegue che, anche se la povertà mostra segni evidenti di riduzione nel suo complesso, questa riduzione è accompagnata da una sostenuta crescita della disuguaglianza tra individui e gruppi sociali. Questa disuguaglianza si manifesta sia in termini di distribuzione del reddito sia – e soprattutto – in termini di progressiva esclusione dai benefici prodotti dalla crescita economica nelle varie dimensioni della convivenza civile, dalla salute, all’alloggio, all’istruzione, alla comunicazione.

Si vede dunque come la crescita dell’emarginazione sociale in India avvenga in un contesto caratterizzato dalla presenza di molte forme di stratificazione che affondano le loro radici nella storia e nella cultura del paese. Oltre alla stratificazione della società sulla base della classe e del reddito – ossia sulla base di forme di stratificazione comuni a tutte le economie a capitalismo avanzato – la società indiana è fortemente stratificata per genere, casta, religione ed etnia, e queste forme di stratificazione assumono aspetti che sono specifici dell’India perché espressione delle istituzioni che regolano la vita sociale nel paese. Inoltre, a ognuna di queste forme di stratificazione è associata una specifica forma di disuguaglianza – di genere, di casta, di etnia e di religione – che genera processi di emarginazione che si rinforzano e si alimentano a vicenda (Sen, 2005). Il risultato è una disuguaglianza crescente che ha una natura fortemente multidimensionale.

L’evidenza sulla crescita della disuguaglianza in India è abbondante e solida. Secondo stime recenti (Kapoor, 2013: p. 59), dal 2004/5 al 2009/10 l’indice di Gini [9]  è aumentato sia nell’India urbana sia nell’India rurale, passando, rispettivamente, da 0,35 a 0,37 e da 0,27 a 0,28. Inoltre, la disuguaglianza che prevale in India è una “disuguaglianza cattiva” (Weisskopf, 2011), [10]  che esclude alcune categorie sociali dall’accesso al capitale (fisico e umano), marginalizzando individui potenzialmente produttivi e riducendo l’efficienza del sistema economico.

L’ultimo rapporto del Centre for Equity Studies di New Delhi (2014) documenta efficacemente che lo sviluppo economico dell’India è accompagnato da una sistematica esclusione di molti ceti sociali – ossia che l’India è una “terra di esclusione”, come afferma acutamente Jayati Ghosh (2014). Il rapporto illustra l’esclusione sociale in India da quattro diverse prospettive: l’istruzione scolastica, la qualità delle abitazioni, le condizioni di lavoro e l’amministrazione della giustizia (in particolare in relazione alla legislazione anti-terrorismo). In esso, viene evidenziata la persistenza di forti discriminazioni nell’accesso alle strutture scolastiche nei confronti dei bambini delle comunità dei Dalit, dei Tribali e dei Musulmani. Anche le caratteristiche delle abitazioni sono correlate al gruppo sociale. Così la discriminazione riguarda, di nuovo, soprattutto i Dalit e i Tribali, mentre vengono riscontrate forme di auto-segregazione dei Musulmani in zone periferiche nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni da parte degli Indù. Il rapporto documenta anche una sistematica sovra-rappresentazione di Dalit, Tribali e Musulmani nelle prigioni in attesa di giudizio per reati di terrorismo.

Ma certamente l’ambito in cui la discriminazione dei gruppi sociali marginalizzati è maggiore è il lavoro. Sebbene oltre 94% dei lavoratori in India sia occupato nel settore informale – ossia sia costituito da una manodopera non registrata e senza protezione e assistenza sociale – si osservano forti discriminazioni che operano lungo linee definite dalla gerarchia castale, religiosa ed etnica. Così, i Dalit e i Tribali sono le categorie sociali prevalentemente occupate nei lavori precari e di basso livello, e i Musulmani sono sotto-rappresentati rispetto agli Indù nei posti di lavoro a maggiore protezione. Categorie sociali discriminate in modo trasversale sono ovviamente le donne sia nel mercato del lavoro sia nell’istruzione – anche se l’India sostiene di avere raggiunto l’istruzione universale a livello di scuola elementare. Anche le persone che hanno forme di invalidità sono sistematicamente discriminate nel mercato del lavoro. Infine, una forte discriminazione si osserva nei confronti dei lavoratori delle campagne che sono sistematicamente sotto-remunerati nei confronti dei lavoratori delle città.

Dal rapporto del Centre for Equity Studies emerge l’immagine di un paese attraversato da diversi tipi di disuguaglianze che si intrecciano e si rafforzano l’una con l’altra. Così, le disuguaglianze nel controllo sulle risorse e sul reddito si intrecciano con quelle relative all’accesso all’istruzione, alla nutrizione, alle strutture sanitarie e di igiene, e queste molteplici forme di disuguaglianza sono sostenute e rafforzate dalle disuguaglianze personali, che spaziano dalle caratteristiche fisiche e di genere a quelle culturali di religione, casta ed etnia. L’esito è un processo di esclusione cumulata che emargina gli individui a molti livelli, attribuendo all’India il carattere di società fortemente gerarchica e discriminante. Ne consegue che le donne e gli individui appartenenti alle caste basse e alle minoranze religiose sono discriminati per le loro caratteristiche personali che ne limitano anche l’accesso alle opportunità sociali ed economiche: queste categorie di individui diventano così vittime di un processo di emarginazione complesso, molto difficile da combattere.

La crescita della disuguaglianza in un contesto di forte e diffusa povertà è molto preoccupante. Non solo perché, evidentemente, la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse e nell’accesso alle opportunità solleva un forte problema di equità sociale, rendendo disponibili i vantaggi della crescita economica a un numero sempre minore di individui. Ma anche perché la presenza di disuguaglianza – e di disuguaglianza crescente e “cattiva”, come nel caso dell’India – rende sempre più difficile la riduzione della povertà dal momento che rallenta la crescita e, dunque, anche la produzione di risorse potenzialmente utilizzabili per la lotta contro la povertà (Kapoor, 2013). In questo senso, la coesistenza di povertà e di crescente disuguaglianza crea una trappola dalla quale si può uscire solamente con politiche mirate.

  1. La strada bassa del capitalismo

L’evidenza empirica e l’analisi socio-economica disponibile dimostrano in modo ampio come l’emarginazione e la deprivazione che si osservano in India siano intimamente connesse al modello di sviluppo che ha preso forma nella fase della liberalizzazione e globalizzazione dell’economia indiana. In particolare, è stato dimostrato che il modello di sviluppo economico che ha prevalso in India dopo le grandi riforme di apertura dell’economia non è in grado di creare occupazione in quantità e qualità adeguate alle esigenze della società indiana.

L’economia indiana presenta un marcato dualismo. Il segmento maggiore (in termini di occupati anche se non in termini di fatturato) è costituito dall’economia delle piccole città e delle campagne, in cui dominano piccole e piccolissime imprese – molto frequentemente a base familiare – che competono sui mercati locali e nazionali sulla base del solo contenimento dei costi di produzione (in particolare del lavoro), senza introdurre innovazioni capaci di aumentare l’efficienza produttiva. In questo segmento, le imprese assorbono una quota rilevante di manodopera, ma hanno una potenzialità molto ridotta di creare nuova occupazione proprio a causa dell’arretratezza tecnologica e della loro dimensione ridotta (Basile, 2013). L’altro segmento importante è costituito dalle grandi imprese – in misura crescente controllate da capitale non indiano – specializzate in produzioni a bassa intensità di lavoro, prevalentemente nel settore informatico e delle comunicazioni, nella raffinazione del petrolio, nella produzione di beni capitali e di servizi avanzati in generale. Come Alessandrini (2009) efficacemente dimostra, questo segmento è a forte intensità di capitale, e dunque produce pochi posti di lavoro. Inoltre, per conseguenza della ristrutturazione indotta dalla crescente esposizione internazionale, in questo segmento dell’economia indiana si è venuta a determinare una perdita di posti di lavoro nelle unità produttive inefficienti e un rafforzamento dell’intensità di capitale nelle imprese più competitive nello sforzo di accrescere gli spazi di mercato (Ghosh, 2006).

Il primo segmento – che comprende alcune delle attività più “tradizionali”, come la tessitura e l’artigianato in generale – è stato oggetto di interventi politici a livello locale e centrale, in particolare  nel periodo precedente la liberalizzazione dell’economia; viceversa il secondo segmento è divenuto centrale nel periodo successivo. Con una significativa continuità – a partire dalle prime misure di apertura dell’economia indiana adottate dal governo di Indira Gandhi negli anni 1980 fino alle politiche che il governo di Narendra Modi sta mettendo in atto – tutti i governi indiani hanno realizzato interventi a favore delle imprese e finalizzati all’allargamento del mercato, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle grandi imprese per mezzo della costruzione di grandi infrastrutture capaci di modernizzare il paese e di creare vantaggi competitivi per il settore industriale avanzato.

Anche la bassa qualità dei (pochi) posti di lavoro creati concorre a spiegare i processi di emarginazione e deprivazione commentati nel paragrafo precedente. Questa bassa qualità deve essere imputata sostanzialmente alla crescente informalizzazione dell’economia indiana.

Come già ricordato, oltre il 94% delle forze di lavoro è occupato in imprese non registrate a fini fiscali, nelle quali i lavoratori sono privi di tutele e di protezione. Come mostrano i dati del NSSO elaborati dalla National Commission on Employment in the Unorganised Sector (NCEUS, 2007), i lavoratori assunti all’interno di contratti di lavoro informali operano in condizioni di lavoro molto precarie: sono privi di sicurezza sul lavoro, con la conseguenza che gli incidenti e le malattie professionali sono frequenti; sono privi di sicurezza del lavoro: molto spesso non hanno contratti di lavoro scritti, possono essere licenziati senza alcun preavviso e ricevono salari che sono in generale poco superiori alla linea della povertà; sono privi di assistenza sociale e non usufruiscono di ferie, riposi settimanali, congedi per parto o per malattia. Nella sostanza, vivono in condizioni di lavoro che l’International Labour Organization definisce “non dignitose” (ILO, 2012).

L’informalizzazione è un problema che riguarda entrambi i segmenti dell’economia, in un continuum che parte dalle piccole e piccolissime imprese nelle città e nelle campagne, in cui la quasi totalità dei lavoratori opera all’interno di contratti di lavoro informale, fino alle grandi imprese, in cui intere fasi del processo produttivo sono decentrate ad altre imprese che operano attraverso rapporti di impiego informale, spesso organizzati da vari tipi di mediatori.

Data la dimensione del fenomeno, la qualità dell’occupazione informale non è omogenea, e i posti di lavoro informali differiscono sia per i livelli salariali, sia per i livelli di capacità professionali dei lavoratori, sia per il tipo di responsabilità che viene loro affidata. Vi è una forte evidenza empirica (NCEUS, 2007) che anche all’interno dell’economia informale operano processi di emarginazione che segregano alcune categorie di lavoratori sulla base delle caratteristiche personali e culturali. Così, gli individui con caratteristiche personali e culturali ritenute “deboli” vengono progressivamente marginalizzati in attività completamente prive di protezione, che non richiedono particolari competenze e che ricevono remunerazioni basse. La letteratura documenta ampiamente questo fenomeno, evidenziando come i processi di emarginazione e segregazione riguardino principalmente i Dalit e i Tribali, e trasversalmente le donne (Harriss-White, 2003; Basile 2013), fornendo un’ulteriore conferma del fatto che, anche nell’economia informale, i processi di emarginazione e di deprivazione poggiano sulle stratificazioni sociali prodotte dalla cultura e nella storia dell’India.

Come si vede, il modello di sviluppo dell’India dopo l’apertura internazionale emargina ed esclude. L’organizzazione dell’economia assorbe le specificità culturali che l’India ha ereditato sul suo passato coloniale e post-coloniale – soprattutto il sistema castale e la pluralità delle religioni e delle etnie – sfruttando le molteplici stratificazioni sociali che da esse derivano. La penetrazione del capitalismo e l’apertura dell’economia non eliminano le specificità culturali “tradizionali”, ma le assimilano, trasformandole e adattandole ai nuovi rapporti di produzione. Così le specificità culturali dell’India diventano degli strumenti di segmentazione della società: sono funzionali alla crescita capitalistica e, contemporaneamente, producono i processi di emarginazione e la deprivazione che osserviamo nell’India contemporanea. Esse guidano il paese per la strada bassa del capitalismo, lungo la quale l’organizzazione sociale del paese costituisce il principale ostacolo al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, creando così le condizioni per la perpetuazione di povertà ed emarginazione.

In mancanza di forti correzioni di direzione e di politiche mirate per uno sviluppo inclusivo, l’India continuerà a percorrere la strada bassa del capitalismo. Come gli scarsi risultati ottenuti nel raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) dimostrano – e il confronto con i risultati di altri paesi in condizioni economiche peggiori conferma – il paese è già molto avanzato lungo questa strada.

Secondo il Rapporto delle Nazioni Unite sugli OSM (UN, 2014), la zona che ha avuto i progressi minori nel mondo è l’Asia del Sud, e all’interno di questa area l’India è senza dubbio il paese con il ritardo maggiore. Con l’unica eccezione dell’obiettivo 2 (l’istruzione primaria universale), che potrebbe essere raggiunto, è quasi certo che l’India con tutta probabilità mancherà i principali obiettivi. L’obiettivo 1 (sradicare la fame e la povertà e se garantire condizioni di lavoro dignitoso per tutti) non sarà raggiunto: a un anno dalla scadenza degli OSM, l’India ospita ancora 1/3 dei bambini malnutriti del mondo, 1/3 dei poveri del mondo, e registra un’amplissima diffusione di rapporti di lavoro vulnerabili. L’obiettivo 3 (promuovere la parità dei sessi) si scontra con l’evidenza dell’emarginazione sistematica delle donne che abbiamo commentato sopra. L’obiettivo 5 (migliorare la salute materna) non sarà raggiunto perché la mortalità delle donne nel parto continua a essere significativamente più alta del livello fissato dalle Nazioni Unite. Anche l’obiettivo 7 (garantire la sostenibilità ambientale) sarà mancato dal momento che i 2/3 della popolazione non hanno accesso a gabinetti, mentre oltre il 17% della popolazione indiana vive in slums, e il numero delle famiglie in questa situazione abitativa ha avuto aumento significativo negli ultimi 10 anni.

Dal 1990 l’India ha fatto progressi solo in termini di reddito pro-capite, mentre la maggior parte degli indicatori di sviluppo umano sono peggiorati. Il confronto con gli altri paesi in via di sviluppo ed emergenti – sia in Asia sia in altre aree geografiche – è illuminante. Come mostrano Drèze e Sen (2013), tra i paesi con una performance migliore dell’India vi sono paesi ricchi ma anche molti paesi poveri. Così, si collocano in una posizione migliore rispetto all’India sia la Cina, che come abbiamo visto ha molto ridotto il numero di poveri, sia il Vietnam che, pur registrando un livello di reddito pro capite più basso, ha un risultato migliore per tutti gli indicatori non economici. Anche il Nepal, che ha ridotto la povertà di oltre il 4% all’anno tra il 2006 e il 2011 e che era sotto l’India per tutti gli indicatori, adesso la ha raggiunta e superata in alcuni casi (con un reddito pro capite che è 1/3 di quello dell’India); allo stesso modo il Bangladesh, che ha ridotto la povertà del 3,2% all’anno negli ultimi 15 anni, ha superato l’India per la speranza di vita (69 anni contro 65).

Pur con un reddito pro-capite più alto del 50%, la performance dell’India presenta molte somiglianze con quella dell’Africa Sub-Sahariana. L’alfabetizzazione delle donne è pressoché uguale (rispettivamente 50% e 55%), mentre la quota dei bambini sotto peso in India è nettamente più alta che per l’Africa Sub-Sahariana (oltre il 40% contro il 25%).

Infine, il confronto con gli altri paesi BRICS [1]  è penoso per l’India. Tutti hanno raggiunto risultati molto importanti in termini di sviluppo umano eccetto l’India. L’unico elemento che attenua il senso di frustrazione del paese è che il reddito pro capite indiano è la metà di quello della media dei BRICS.

L’evidenza empirica che abbiamo commentato indica che è difficile prevedere se (e quando) l’India potrà raggiungere uno sviluppo equilibrato ed equo. Le trappole che impediscono all’India l’uscita dalla povertà sono molte e molto potenti. La disuguaglianza è certamente un aspetto che spiega molto della situazione attuale – in particolare la disuguaglianza determinata dalle stratificazioni che attraversano la società indiana e che sono radicate nella cultura e nella storia del paese, come il sistema castale e la pluralità religiosa ed etnica. Come abbiamo visto, le stratificazioni sociali rendono possibile e amplificano la portata dell’informalizzazione dell’economia che, a sua volta, consente la formazione di rapporti di lavoro iniqui in cui i lavoratori delle caste basse, delle minoranze etniche e religiose e le donne sono segregati senza tutela e senza protezione. L’uscita da queste trappole non è facile perché richiede il superamento di molti aspetti della cultura indiana e di molte istituzioni in cui essa si manifesta. Ma ci sono pochi dubbi che se non uscirà da queste trappole l’India resterà imprigionata in una spirale di povertà ed emarginazione che le impedirà di fare il grande balzo per il raggiungimento di un adeguato livello di sviluppo umano. E questo anche se la sua economia potrà registrare un tasso di crescita a due cifre.

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[1] La linea della povertà è il livello di reddito (e di consumo corrispondente) al di sotto del quale un individuo o una famiglia possono essere definiti poveri. Due sono le linee della povertà che vengono utilizzate nell’analisi socio-economica: la linea della povertà assoluta (che è calcolata sulla base di un livello di consumo corrispondente al paniere minimo di beni necessari alla sussistenza) e la linea della povertà relativa (che è calcolata sulla base di un livello di consumo corrispondente a una quota del reddito medio). Per i confronti internazionali, viene impiegata la linea internazionale della povertà calcolata dalla Banca Mondiale sulla base delle linee della povertà nazionali – con riferimento al paniere di beni necessari alla sussistenza – convertite in dollari. La Banca Mondiale rivede periodicamente il valore della linea internazionale della povertà sulla base dei cambiamenti osservati negli stili di vita e del potere di acquisto del reddito nei singoli paesi. Sulla base della revisione 2005, la linea internazionale della povertà (che identifica la povertà in termini assoluti) è stata fissata a 1,25 $ per persona al giorno. Va precisato che la soglia di 1,25 $ è misurata ai prezzi internazionali 2005 ed è aggiustata alla valuta locale di ogni singolo paese usando un fattore di conversione definito dalla Banca Mondiale sulla base della parità del potere di acquisto (la linea della povertà è quindi espressa in dollari PPP). Per dettagli, si vedano i siti web: www.istat.it e www.worldbank.org/en/topic/poverty/overview.

[2] Resoconti del dibattito sono proposti da molti documenti della Planning Commission. Si veda in particolare Planning Commission (2014).

[3] Il cambiamento delle diete in India è ampiamente documentato. Tuttavia, il fenomeno è interpretato in modo spesso contrastante. Ad esempio Utsa Patnaik (2013) dimostra, sulla base di dati NSSO, che il consumo di cereali pro-capite si è ridotto da 177 kg a 155 kg. Secondo Patnaik, questa riduzione testimonia un aumento della povertà, viceversa, Deaton e Drèze (2009) affermano che un ridotto consumo di alimenti a forte contenuto calorico non è necessariamente un indicatore di povertà, ma in alcune situazioni può essere considerato un indicatore di cambiamento del modello di consumo associato alla crescita dell’economia.

[4] Se fosse stato applicato il metodo Tendulkar ai dati del 2011/12 il numero stimato di poveri sarebbe stato molto minore, pari al 21,9% della popolazione indiana (con il 25,7% nell’India rurale e il 13,7% nell’India urbana) (Planning Commission, 2014: Tabella B4, p. 31).

[5] La povertà è un fenomeno sociale ed è prodotto dalla convivenza civile. Da ciò consegue che i livelli minimi di soddisfacimento dei bisogni di base – che entrano nella definizione dello stato di povero – si modificano nel tempo e nello spazio in relazione ai diversi aspetti della vita sociale, dall’alimentazione, all’istruzione, alla salute, ai trasporti.

[6] Tutte le stime della povertà in India di fonte Banca Mondiale presentate in questo testo sono state ottenute con Povcalnet – lo strumento per la misurazione online della povertà sviluppato dal Gruppo di ricerca sullo sviluppo della Banca Mondiale – utilizzando il Povcalnet database. Per dettagli si veda il sito www.worldbank.org.

[7] Con il metodo Povcalnet è anche possibile ottenere alcune stime provvisorie della povertà in India sulla base dei dati 2011/2012 (resi noti solo nel giugno 2014). Queste stime indicano che, in quest’ultimo anno, il 24,4% della popolazione era sotto la linea della povertà nell’India rurale e il 21,9% nell’India urbana. Non è invece possibile stimare la dimensione della povertà per l’India nel suo complesso.

[8] Poggiandosi sull’analisi teorica della povertà sviluppata dall’economista premio Nobel Amartya K. Sen, il metodo Alkyre prende in considerazione l’insieme di deprivazioni che colpiscono un individuo o una famiglia che vivono in condizioni di povertà, identificando lo stato di povero con riferimento a specifiche soglie minime definite per ogni dimensione della povertà (alloggio, istruzione, nutrizione ecc.) e aggregando queste informazioni in un unico indice composito (Alkyre e Foster, 2011).

[9] L’indice di Gini è una delle misure più comuni della disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Assume valori fra 0 (condizione di completa uguaglianza) e 1 (condizione di completa disuguaglianza) e cresce al crescere della concentrazione della ricchezza.

[10] Vi è chi ritiene – per esempio Chaudhuri, S. e Ravallion, 2006 – che esista anche una forma “buona””di disuguaglianza che ha un impatto positivo sulla crescita poiché l’osservazione delle differenze nelle condizioni di vita stimola l’iniziativa individuale e spinge al dinamismo economico.

[11] L’acronimo BRICS comprende Brasile, India, Russia Cina, e Sud Africa.