La pace è sempre stato uno dei temi più cari per Giorgio La Pira. Questa sua vocazione è fatta propria dall’Opera attraverso la preghiera, la speranza e l’essere operatore di pace. Tutto questo si concretizza anche attraverso il Campo Internazionale, “esperimento” che cerca di portare semi di pace a persone che vivono in parti del modo in conflitto, dove questa sembra dimenticata.

Cimone, tre giorni di primavera. Il sabato sera siamo tutti in chiesa, in silenzio, davanti al Santissimo. Le parole della Pacem in terris, la prima enciclica diretta a tutti gli uomini di buona volontà, ci accompagnano in questa Adorazione dedicata alla pace: “La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio” (Pacem in terris §1). L’Adorazione si conclude mostrando una cartina del mondo. Tanti piccoli pezzettini di cartoncino rosso, posti in alcune aree della mappa, ci indicano luoghi dove la pace non c’è, dove la guerra va avanti da anni, spesso nella più grande indifferenza da parte di tutti. Un pezzettino rosso che rappresenta milioni di persone che anelano alla pace, ma che non riescono a raggiungerla. Gli occhi scorrono sul quel rosso che macchia il mondo e mi chiedo cosa posso fare in prima persona perché tutto questo possa cambiare. Come posso portare la pace nel mondo se spesso non riesco a portarla neanche intorno a me, nella mia vita di ogni giorno, alle persone che mi sono vicine?

La risposta alla domanda è suggerita dall’Adorazione stessa: la preghiera. Nella in Pacem in terris c’è una spinta alla preghiera perché la pace possa realizzarsi: “Affinché l’umana società sia uno specchio il più fedele possibile del regno di Dio, è necessario l’aiuto dall’alto.” (§90).  Non a caso Giorgio La Pira, prima di partire per i suoi numerosi viaggi in terre di conflitto, chiedeva alle suore di clausura di accompagnarlo e sostenerlo con la preghiera, convinto che fosse lo strumento più potente per avvicinare le nazioni: “Abbiamo, cioè, oggi come ieri, cercato di costruire un ponte di preghiera e di riflessione storica e politica fra le rive avverse che separano ancor tanto gravemente i popoli fratelli (la famiglia di Abramo!) del Medio Oriente” (da Note di Cultura n. 36, febbraio 1968). Non solo La Pira pregava e chiedeva di pregare per la pace: era lui stesso un operatore di pace, come ha dimostrato durante i suoi viaggi e ogni volta che a Firenze incontrava e riuniva i rappresentanti degli Stati e delle diverse confessioni religiose. In riferimento alle Beatitudini, La Pira sottolineava che Gesù dice “beati gli operatori di pace” (Mt 5, 9) e non semplicemente “coloro che amano la pace”: è semplice amare la pace, molto più difficile è impegnarsi concretamente per promuoverla e realizzarla.

Le domande iniziali su come poter fare qualcosa per la pace trovano poi una risposta pensando a come l’Opera ha raccolto la vocazione indicata dal Professore: il Campo Internazionale. Quei dieci giorni vissuti all’ombra della pineta della Vela, che a volte rischiamo di dare quasi per scontati come si fa con le abitudini o con ciò che ci sembra non abbia grande importanza, sono come un esperimento di pace. Un esperimento che si fa portando un centinaio di persone, di cui la maggior parte sono italiani, insieme a russi, israeliani, palestinesi e africani, in un villaggio sulla costa toscana e consentendo loro di vivere insieme, condividere spazi, tempo, idee ed emozioni. Una condivisione non banale per chi, nella vita di tutti giorni, non ha modo o magari non vuole neanche incontrare chi considera un suo nemico, come succede per gli israeliani e i palestinesi; o chi, pur vivendo nello stesso paese, ha un’origine sociale totalmente diversa, come i giovani russi.

È nella condivisione, nell’incontro che si sperimenta la pace: è naturale, spontanea quando si sta bene insieme, quando si gioca la sera, si ride a tavola o si chiacchiera sulla spiaggia. È pace allo stesso modo, anche se apparentemente non sembra, quando inizia una discussione, quando ci si scontra su visioni opposte, quando nasce un conflitto ma si riesce a superarlo ascoltandosi e con l’aiuto di chi è vicino. Non sempre gli esperimenti riescono. A volte si ha l’impressione che il campo non abbia fatto “vivere” la pace a qualcuno dei partecipanti, che la situazione vissuta ogni giorno porti a guardare cinicamente ogni tentativo di cambiare qualcosa. Davanti ad ogni esperimento (che sembra) fallito non resta che tenersi stretti alla speranza. Alla speranza che i semi di pace gettati al campo, prima o dopo, germoglino, alla speranza che si possa comunque sperimentare la pace in altri modi.

Ogni anno, quando iniziamo questo esperimento, sappiamo che non modificheremo equilibri politici e che non porteremo a firme di trattati. Non è questo il nostro scopo. Essere operatori di pace al Campo Internazionale vuol dire prima di tutto dare la possibilità di riuscire a riconoscere l’altro come persona, una persona come me, con le sue paure e le sue ragioni, spesso diverse e a volte inaspettatamente uguali alle mie. Una persona con un nome e una storia, non un nemico informe senza volto. Vuol dire provare a realizzare la speranza contenuta nella Pacem in terris: “È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni” (§67).

L’enciclica, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà, esprime un invito specifico a tutti quanti, ai laici cristiani per primi, ad impegnarsi per il raggiungimento della pace. Il contributo che ognuno può dare per la pace richiede quindi di pregare, sperare e operare, proprio come l’invocazione della Preghiera per la pace (preghiera che, cantata durante la Messa al Campo Internazionale, dove sulle panche sono seduti vicini Oriente e Occidente, fa venire i brividi). Giorgio La Pira pensava in grande, la sua speranza lo portava a immaginare e ad operare per un futuro di pace tra i popoli che appariva contrario ad ogni evidenza: “Possiamo e dobbiamo dirlo: noi abbiamo trovato in tutti un desiderio sincero e vivo di pace: ciò che divide è soltanto il «muro della diffidenza»; bisogna abbattere questo muro, ecco tutto: e se questo muro cade, la pace è fatta! Ci vogliono atti che aprano le porte alla fiducia ed alla speranza! Noi riportiamo, malgrado le apparenze contrarie, questa precisa impressione dal nostro viaggio e dai nostri colloqui: ‘che la pace è ad un metro’” (da Note di Cultura n. 36, febbraio 1968 – dal viaggio del ’67). L’Opera, raccogliendo e cercando di portare avanti questa eredità, dà la possibilità di farlo anche a noi: partecipare al Campo Internazionale ci chiama ad essere operatori di pace e, soprattutto, ci dà la speranza di poter vedere un po’ meno “rosse” alcune delle macchie sulla cartina del mondo.

Valentina Brocchi