Spes contra Spem 2015

Intervento di
Grazia Giovannoni
Firenze, 3 ottobre 2015

La repubblica di S. Procolo e la sua centralità
di Grazia Giovannoni

“San Procolo” è una  chiesetta romanica del 1200, rimodernata nel 1700, che era stata sede di una antica confraternita. E’ di poco fuori dalla seconda cerchia di mura (eretta nel 1100), vicina tuttavia alla sede del “Proconsolo”, il Priore dell’Arte dei Giudici e Notai. Fu questa chiesetta, da lungo tempo chiusa al culto, ad offrire il “domicilio spirituale” tanto cercato dal Professore per accogliere i mendicanti, quelli che dormono abitualmente o all’aperto o nei dormitori pubblici, la povera gente girovaga che non ha né letto, né pane, né famiglia” (citazione da uno scritto di Giorgio La Pira del 1943). Era l’anno 1934 e le conseguenze della lunga crisi dei primi anni ’30 del secolo scorso incidevano crudamente nel tessuto sociale con l’emarginazione dei più indifesi. Proprio su questi “invisibili” alla maggior parte degli sguardi  si fissò l’attenzione di un gruppo di giovani della Conferenza di S. Vincenzo , a casa di don Bensi, curato di S. Michelino Visdomini, antica chiesa che guarda da vicino la Cupola del Duomo. Come offrire anche a loro assistenza, come trarli dall’esclusione sociale, perfino come portarli in una chiesa dove mai avrebbero osato entrare con le loro scarpe rotte e i loro pochi “cenci” addosso giorno e notte? Giorgio La Pira e gli altri giovani si coinvolsero subito nell’ansia pastorale di don Bensi; prima di tutto bisognava cercarli dove si nascondevano e si smarrivano, al dormitorio pubblico, presso i conventi dove andavano alla ricerca di un po’ d’aiuto. Li cercarono, li chiamarono a San Procolo per la Messa domenicale delle 8.30, che don Brignole, un sacerdote ricco di misericordia, del vicino Oratorio di san Filippo Neri, fu felice di celebrare. Ma prepararono anche del pane e del buon affettato da distribuire alla fine per dare un sollievo alla fame e anche un segno di tangibile condivisione fraterna dopo la condivisione dell’Eucarestia. Non vennero in molti, circa una trentina, e soltanto uomini, ma la domenica seguente tornarono tutti. La Messa dei poveri non era rimasta un santo e buon proposito; nella chiesetta di San Procolo era un fatto. Non era e non divenne mai soltanto l’occasione di beneficenza in una “Messa per i poveri”: fin da quei primi giorni fu la Messa “dei” poveri, la Messa che “apparteneva a loro”, di cui erano e rimasero sempre i protagonisti. Tre anni dopo alla Messa  degli uomini seguì, alle 10, la Messa delle donne.

Sono entrata nella chiesetta di San Procolo nell’autunno del 1942. Don Bensi, che non era solo il curato di San Michelino, ma anche l’insegnante di religione in due storici licei fiorentini, aveva parlato in classe di questa Messa che voleva essere segno visibile della radicale fraternità dei cristiani come fratelli di Gesù e figli di Dio. La Messa era in latino e il sacerdote dava le spalle ai partecipanti, ma in quella chiesetta, che raccoglieva tante persone che difficilmente avrei incontrato altrove, era aperta, accompagnata e conclusa da canti popolari facili a capirsi. Le voci si univano facilmente e gioiosamente, la preghiera riusciva immediatamente ad essere comune, calda e sentita. Qualche domenica dopo, un gentile signore – che era Giampaolo Meucci – mi invitò a fermarmi e mi accompagnò nella sacrestia, dove mi accolsero Renzo Poggi ed Enzo Sarti, quasi divertiti del nuovo ingresso di una liceale. Il Professore – allora neanche quarantenne – venne poco dopo, ancora tutto raccolto come se continuasse la presenza di Gesù fra noi, mi accolse con il suo sguardo luminoso dietro le lenti degli occhiali. Tutte le domeniche, dopo le Messe, si ripetevano gli incontri in sacrestia. Si commentava insieme l’affluenza, sempre maggiore, dei poveri, la partecipazione di tutti; si ringraziava la Madonna – cassiera di San Procolo – perché l’offerta del pane non veniva mai meno. Il Professore diceva poche parole, ma la voce ferma esprimeva la sua convinzione di fede in Cristo Risorto che porta il Regno di Dio nel cuore e nella storia degli uomini, privilegiando gli ultimi della Terra. Il Vangelo di Matteo (“…ero affamato e m’avete dato da mangiare… avevo sete e mi avete dato da bere…”) era citato spesso e ci confermava nell’accoglienza. (Quante volte il Professore ci ricordava: “…su questo saremo giudicati!”). Ci sentivamo privilegiati per  essere stati chiamati a servire i poveri. Cominciammo ad andare a trovarli a casa, quando ce lo chiedevano, a conoscerli fra le loro povere cose, a rompere il silenzio della loro solitudine. La maggior parte di loro abitava allora in due storici quartieri di Firenze, S. Croce e S. Frediano.

La sacrestia di San Procolo continuò ad essere centro di incontro anche quando la Messa per gli uomini, sempre più affollata, passò alla vicina Badia Fiorentina. Continuammo a ritrovarci in sacrestia il sabato pomeriggio per dire insieme il Rosario, per organizzare le visite, per fare qualche chiacchierata fra noi e con il Professore. La Badia, segno della rinascita di Firenze negli anni 1000, ci fece sentire nel cuore della città, fra le pietre antiche del Bargello e la Torre della Castagna. Con il prolungarsi della guerra il costo della vita era sempre più pesante e l’affluenza dei poveri cresceva; cresceva anche il passaparola fra i ragazzi e le ragazze, sopratutto universitari e delle scuole superiori. Per quanto ora possa credersi impossibile, “andare a Messa” la domenica nelle chiese del centro era segno di buone e rassicuranti abitudini borghesi, particolarmente per le ragazze: ed era anche avere un punto d’incontro fra conoscenti. Così, uno dei maggiori argomenti per persuadere gli amici a venire alla Messa della Badia era… “Vieni!…non è come la Messa in…”. Il Professore era silenziosamente compiaciuto di vedere giovani facce nuove e accoglieva ognuno sorridendo. Cresceva la vivacità delle voci nelle riunioni e anche sul sagrato di Badia perché la frequenza delle visite aveva portato una maggior confidenza da amici fra noi e i poveri; ci chiamavano, continuavamo qualche chiacchierata, ci affidavano la “letterina” per chiedere la visita a casa. Si avvicinavano con franca spontaneità al Professore, lo salutavano, gli davano la mano; soprattutto le donne gli davano anche consigli; “…Si metta la sciarpa, tira vento freddo…”. Lui conosceva le difficili storie di molti dalle conversazioni del sabato ed era pronto e attento all’ascolto. Sul sagrato si sentivano sommessamente anche bei nomi fiorentini che ricordavano le antiche arti e la storia; non ci si sarebbe sbagliati pensando che chi li portava aveva a che fare con la “Cassa” custodita dalla Madonna.

Si consolidava così la “Repubblica di San Procolo”, senza iscrizioni, senza gerarchie, con grande libertà di partecipazione. Il Professore la descrive con queste parole: “…fra gli amici che vengono a San Procolo la libertà è massima, è una piccola repubblica dove nessuno è presidente perché lo sono tutti, una famiglia dove regna soltanto l’affetto e l’operosità”. D’altronde, la stima della libertà nasceva dalla dignità dell’uomo che il Figlio Incarnato aveva dimostrato fino alla gloria della Resurrezione. Questa libertà era carissima al Professore che apertamente l’ha spesso rivendicata: “Io difendo tutta la mia libertà, io sono anarchico” (se pensiamo all’etimologia della parola; potremmo  tradurre anche “sono senza padrone!”)… “a Dio solo soggetto!…”.

Ci aspettavano i tempi atroci della guerra; gli ultimi mesi del ’43 e il ’44. Vivevamo il dolore della città sotto l’occupazione tedesca, ma anche la resistenza alla violenza disumana, la volontà di riscatto, l’impegno per un futuro nuovo. E’ nota la rete per salvare gli Ebrei dalla deportazione, animata dall’allora nostro Arcivescovo, il Cardinale Elia Dalla Costa, che trovò, a rischio della vita, molti collaboratori in S. Procolo. Crescevano la miseria e la fame. Di ritorno da dolorose  esperienze di guerra, venne fra noi Luciano Niccolai che ci portò subito l’esempio della sua dedizione al servizio dei poveri e la sua calda amicizia; lui, di blasonata e ricca famiglia “è passato dalla cruna dell’ago”. Nella “repubblica di San Procolo” non è stato il solo.

 Tutti sanno quanto sia costata la liberazione di Firenze nell’Agosto del ’44. Ma si fece forte la speranza, vivo e diffuso l’impegno civile per ricostruire una società libera e solidale. In questo nuovo clima di fiduciose aspettative, la “Repubblica di San Procolo” fu subito chiamata a collaborare. Infatti il Professore ebbe l’incarico di Presidente dell’Ente Comunale di Assistenza (ce lo ricorda la attuale via Giorgio La Pira, che parte dall’angolo con via della Dogana, sede dell’Ente, per sboccare poi in piazza San Marco dove abitava il Professore nel convento dei Padri Domenicani). Noi tutti eravamo già preparati per le visite. Avemmo la possibilità di dare sussidi agli indigenti, di distribuire i generi alimentari mandati in soccorso dagli Alleati: pasta, latte, burro, cioccolata, un aiuto prezioso per mitigare gli effetti della diffusa denutrizione.

La Repubblica di S. Procolo cresceva ancora e si estendeva. Ai  poveri nostri amici di un decennio si univano i profughi dalle zone dove la guerra era stata combattuta più a lungo e più duramente, come a Cassino. A san Frediano, oltrarno, erano state prese iniziative di aiuto ai bambini di strada e alle ragazze. Nella città che tornava a vivere la Messa alla Badia era un segno di speranza. Venivano molti giovani; vedevano… e restavano.  Le generazioni degli anni ’20 erano state fortemente coinvolte e poi dilaniate dalla guerra e dagli eventi che seguirono l’8 settembre del ’43. Nell’avventura della giovinezza dovevamo scegliere non per chi e per cosa vivere, ma per chi e per cosa morire. (…Ho ancora nelle orecchie l’eco degli spari che uccisero allo stadio di Campo di Marte dei ragazzi di  diciott’anni renitenti alla leva). La proposta di fraternità solidale, viva nelle diverse voci unite nei canti e nella chiacchiere sul sagrato persuadeva a credere in nuovi orizzonti sociali. Su questa fraternità aveva a lungo riflettuto il Professore scrivendone a Renzo Poggi da Roma nel tempo del suo allontanamento da Firenze negli ultimi mesi del ’43 fino al ritorno poco dopo la Liberazione: “…Vedi, caro Renzo, dove dovremmo pervenire? Rifare della chiesa il centro di una profonda rinascita sociale, fare rinascere in chiesa, nell’orazione comune e nella partecipazione comune al sacrificio del Signore, questo senso dell’unità fraterna, organica fra gli uomini” (la lettera è datata 6 febbraio 1944).

Fin dai primi tempi, la “Repubblica di San Procolo” era stata in contatto con altre opere e istituzioni con cui era condiviso il servizio ai poveri, come la Misericordia, ricca di settecento anni di storia, il Dormitorio pubblico “Montedomini”, l’istituzione che ospitava i vecchi in indigenza. Il rapporto più stretto si era stabilito con la “Madonnina del Grappa”, l’Opera di don Facibeni, fondata prima per accogliere gli orfani delle prima guerra mondiale, estesa poi a bambini e ragazzi senza genitori o provenienti da famiglie in gravi difficoltà. L’Opera tuttora non solo li ospita, ma li accompagna e sostiene fino alla formazione e all’occupazione al lavoro o al proseguimento degli studi superiori e universitari. Anche la Cassa dell’Opera era affidata alla Madonna e all’inesausta fede nella Provvidenza del fondatore, a cui il Professore è stato sempre unito in un’amicizia davvero fraterna (si diceva che qualche volta le buste preparate per la Cassa di San Procolo passavano nelle mani di don Facibeni angosciato dai debiti!). La parrocchia di don Facibeni era ed è a Rifredi, nella zona industriale di Firenze; dalla frequenza con l’Opera conoscevamo le situazioni e i gravi disagi degli operai. Con il diffondersi delle iniziative e con l’aumento delle presenze di tutti, la Messa della Badia aveva esteso le sue radici nella Chiesa fiorentina: venivano a celebrarla sacerdoti da tutta la diocesi. Particolarmente caro era per noi l’incontro mensile in Arcivescovado con il Cardinale Elia Dalla Costa che ci confortava con la sua paterna presenza e ci arricchiva con le sue profonde citazioni, letture, meditazioni delle Sacre Scritture, eravamo felici anche per la giornata di Esercizi Spirituali che, ugualmente una volta al mese, ci offriva il rettore del Seminario Minore, don Enrico Bartoletti, poi segretario della C.E.I. con Paolo VI, papa Montini, amico da decenni sia di don Bensi sia del Professore. La Badia era frequentata anche da illustri “anonimi” credenti e non, protagonisti della ripresa culturale a Firenze, innestata nelle grandi innovazioni del Novecento; letterati, editori, grafici, pittori, architetti, giuristi. Due nomi per tutti: l’architetto Giovanni Michelucci e il giurista e costituente Piero Calamandrei.

La fine della guerra, l’impegno per la ricostruzione delle istituzioni democratiche e il dibattito vivace nei partiti sia ricostituiti sia nuovi ci impegnavano negli incontri in sacrestia e nei discorsi che proseguivano in strada a riflettere sui poveri e la società solidale che volevamo. Il Professore si coinvolse profondamente, ancor più negli anni in cui fu chiamato alla Costituente e al Governo: l’esito delle esperienze nella “Repubblica di San Procolo” e dei suoi studi saranno gli scritti “Attesa della povera gente” e “Difesa della povera gente” in “Cronache sociali” del 1950. Diceva spesso: “Ci si può sbagliare parecchio nelle scelte (siamo tutti peccatori, nel significato etimologico della parola) ma, se si sceglie di servire i poveri, non ci si sbaglia quasi mai”. Mettere la prevenzione e la risoluzione delle situazioni di miseria e di emarginazione al primo posto fra gli obiettivi diventa l’ago magnetico che indica l’orientamento di ogni civiltà. E’ la costruzione di una convivenza umana solidale, è la politica che solo in questo senso è seconda soltanto alla preghiera. Per questo il Professore, lui che per sé cercava la contemplazione e gli studi, rispose alla chiamata all’impegno politico nella Costituente, nel Governo, poi come Sindaco di Firenze, facendosi “servitore di tutti” (Marco, 10, 35-45).

Che cos’è stato San Procolo per il Professore? È stato la sua famiglia d’adozione, di fratelli e sorelle, in cui i poveri erano i primogeniti; è stato la famiglia a cui raccontare le prospettive e gli scopi dell’impegno, i problemi da affrontare, le difficoltà da superare; la famiglia che lo confortava e lo sosteneva, soprattutto con la preghiera che chiedeva sempre, alla fine della Messa nella sua conversazione di saluto, e nel cui aiuto confidava. Fino dal 1945, quando i potenti della Terra stabilivano i nuovi assetti  mondiali, il Professore ci diceva che “i tre  grandi” erano i bambini pastori a cui, a Fatima, la Madonna aveva rivelato gli orizzonti di pace per tutte le nazioni. Ci convincemmo tutti, anche per la terribile esperienza della potenza distruttrice della bomba atomica in Giappone, che la pace era la vocazione planetaria dei nostri tempi. E’ ormai noto a tutti quanto il Professore sia stato operatore di pace, dovunque impegnato ad “abbattere i muri e costruire i ponti”.

Lasciate perciò che, ringraziandovi per l’ascolto, vi saluti con il grande messaggio di speranza universale della “famiglia di Abramo”: SHALOM PACE SALAM.