È opinione largamente diffusa e continuamente riproposta che, per uscire dalla crisi, l’Italia ha bisogno di “crescere”. Non sono sicuro che la parola sia stata scelta bene, anche se il contenuto può essere  accettato se con “crescita” si intende: la diminuzione della disoccupazione; la riduzione della precarietà nella caratterizzazione dei contratti di lavoro; il consolidamento del sistema delle imprese, con la individuazione e la realizzazione di una adeguata collocazione nella divisione internazionale del lavoro nell’attuale assetto della globalizzazione e nei suoi progressivi aggiustamenti; e, ultimo ma non meno importante, la partecipazione dell’Italia – quale Paese fondatore e membro autorevole dell’Unione Europea – alla ripresa del cammino dell’Europa verso una più forte unità politica.

Ma la realizzazione di questi obiettivi – e in particolare quanto è collegato alla individuazione di che cosa e come le imprese italiane possono produrre per partecipare con successo alla competizione internazionale – richiede notevoli cambiamenti strutturali, mentre la parola “crescita” è stata tradizionalmente associata all’idea di un sistema che si espande mantenendo sostanzialmente invariata la sua struttura produttiva.

Inoltre, parlare di crescita espone alle obiezioni di chi, con buone ragioni, si preoccupa del problema della sostenibilità: le risorse disponibili nel nostro mondo limitato non consentono infatti una espansione indefinita e molti sono i segni che annunciano come questo limite si faccia già sentire. Anche senza aderire del tutto alle tesi della “decrescita” (auspicabilmente) felice, molti si chiedono se puntare genericamente sulla crescita non contrasti con questo genere di difficoltà.

D’altra parte, se è statisticamente verificato che la realizzazione degli obiettivi di cui sopra si accompagna spesso con un aumento del PIL – e, quando si parla di “crescita”, in definitiva si intende proprio questo – una tale correlazione non è necessaria, e neppure sufficiente (l’aumento del PIL non garantisce una diminuzione  della disoccupazione e ancora meno una diminuzione della precarietà). Inoltre, utilizzare le variazioni del PIL per stimare le entrate fiscali e quindi l’andamento dell’avanzo primario nei conti della Pubblica Amministrazione, e ancora di più quello del rapporto deficit/PIL, costituisce una semplificazione utile, ma non esclude relazioni più complesse, che utilizzino indicatori diversi e più disaggregati.

Se poi la crescita del PIL deve servire a rassicurare circa un andamento della domanda interna capace di assorbire una maggiore produzione realizzata dalle imprese, resta quanto meno da tener conto di come il reddito si distribuisca: non sono pochi gli economisti che ritengono che tra le cause della attuale crisi vi sia anche la minor domanda di beni sviluppatasi a causa di un aumento nella disuguaglianza della distribuzione del reddito.

Se mettiamo insieme le questioni di cui sopra – la disoccupazione, il ruolo da assegnare alla domanda interna, la disuguaglianza, la necessità di ridisegnare la struttura della nostra produzione in modo da confrontarsi efficacemente con la competizione internazionale in entrata e in uscita e, infine, il problema della sostenibilità – credo che il problema si presenti troppo complicato per esprimerlo solo in termini di “crescita”. Ancora un volta, Giorgio La Pira ci può suggerire una buona idea di metodo per affrontarlo in modo più adeguato.

Ne L’Attesa della povera gente (par. VIII), La Pira parla della necessità di “pianificare” gli interventi, e invita a non aver paura di questa parola: “Non bisogna lasciarsi impressionare dalle parole: «pianificare» significa mettere ordine, orientare verso uno scopo. (…) il Vangelo soccorre: chi vuol costruire saldamente una casa e chi vuol fare efficacemente una guerra (qui: guerra efficace alla disoccupazione ed alla miseria) deve «pianificare» la propria azione affinché essa dia un risultato felice (Lc XIV, 28)”. Quando, nell’aprile del 1950, scriveva così, La Pira aveva bisogno di rassicurare chi leggeva di non voler proporre dei piani quinquennali di tipo sovietico. Oggi non c’è bisogno di precisare che si deve trattare di pianificazione «indicativa»: così la si definiva negli anni Sessanta, per sottolineare che la pianificazione proponeva alla società e all’economia nazionale un percorso possibile, del quale erano verificate le compatibilità e all’interno del quale potevano svilupparsi con qualche maggiore sicurezza le decisioni degli organismi pubblici e privati, in particolare delle imprese. Credo tuttavia che, pur con queste precisazioni, anche oggi la parola possa suscitare preoccupazioni; eppure, io sono dell’opinione che proprio la complessità del problema che ci sta davanti e le potenziali contraddizioni che contiene rendano opportuna una procedura di questo tipo.

Inutile sottolineare il peso che oggi presentano non solo l’incertezza per molti aspetti della situazione che sfuggono alle possibilità di controllo della politica, ma anche i condizionamenti che la partecipazione all’Unione Europea (e ad Eurolandia in particolare) e il contesto di globalizzazione pongono a tutti i soggetti economici, stati compresi. Ma, sull’altro versante, non vanno trascurati gli effetti che la predisposizione di un piano – specialmente se realizzata con procedure partecipative – può determinare in direzione di un recupero di consapevolezza di tutte le componenti della comunità nazionale verso l’idea di un bene comune da realizzare insieme.

Piero Tani, economista  (Fondazione La Pira, Giugno 2012).

 

Commento di Nicola Oliva, consigliere comunale a Prato, e successiva replica di Piero Tani (entrambe Dicembre 2012) 

La prima reazione fu di grande delusione alla lettura de “Il concetto di crescita tra obiettivi e obiezioni” del Prof. Piero Tani pubblicata sul sito della Fondazione La Pira. Adesso, a distanza di mesi, credo sia bene tornarci su per discutere sulla fondatezza delle ipotesi che reggono certe affermazioni che ormai si danno per comunemente accettate e prese per vere. In premessa, intendo subito presentare la mia tesi: ci troviamo dinanzi ad un deliberato attacco della finanza speculativa diretto contro i popoli, le democrazie, gli Stati nazionali, il Lavoro ed il concetto stesso di sviluppo. Non c’è giorno che il piano inclinato non porti cattive ‘nuove’ sul come e quanto tagliare la sanità, le pensioni, la scuola. Non v’è alternativa, ci viene ripetuto ogni volta.

Coerentemente, Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, sta inviando urbi et orbi messaggi minacciosi; è del febbraio scorso l’intervista al Wall Street Journal in cui afferma che il modello di stato sociale europeo è ormai superato, trattandosi di un lusso che non ci possiamo più permettere. La bellezza della testimonianza di Giorgio La Pira merita di esser diffusa e fatta conoscere in questo tempo di forte ingiustizia sociale, ma occorre allontanare da noi il rischio di travisare e alterare del tutto il messaggio lapiriano.

Crescita

Memore delle parole di Paolo VI «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», non comprendo il sofisma sul termine “crescita”. Davvero il Prof. Tani, che ha insegnato alla Facoltà di Economia di Firenze, non ha chiara la differenza profonda che passa tra un’economia al servizio dello sviluppo dei popoli ed un’economia che alimenta bolle finanziarie ed è pronta a far pagare il conto dei salvataggi bancari ai cittadini una volta che quelle bolle scoppiano? Eppure lo stesso Tani si dichiara apertamente a favore di un’economia orientata a finanziare infrastrutture moderne e d’avanguardia così da generare ricchezza reale e diffusa. Come può Tani confondere il modello di sviluppo reale (come per l’Italia del dopoguerra) con la crescita illusoria del Pil frutto della finanziarizzazione dell’economia? Nell’Europa del dirigismo al contrario si è fissato un principio davvero capriccioso: si privilegia la pianificazione delle bolle speculative – la Bce interviene con forti iniezioni di denaro a tassi irrisori per salvare il settore finanziario – ma si praticano condizioni di credito assai poco convenienti agli Stati e alle imprese produttive private. La questione centrale verte sul ruolo del credito, in Europa siamo guidati da banche centrali indipendenti e da banche private, ma il sistema è tecnicamente collassato; l’alternativa è un sistema autenticamente creditizio, che affida allo Stato il ruolo di indicare lo sviluppo per il conseguimento del bene comune.

Europa e superamento della pace di Westfalia

Questa osservazione mi porta a contestare un secondo punto del ragionamento del Prof. Tani, ed è relativo alla piena adesione che oggi La Pira avrebbe dato all’idea degli Stati Uniti d’Europa. Quanto sta avvenendo in questi anni indica la precisa volontà di scardinare il sistema degli stati sovrani per ricondurli sotto l’ombrello di uno Stato europeo che è disposto a infliggere ai propri cittadini ogni tipo di sofferenza, forzando politiche di deflazione, riducendo la spesa pubblica e trasferendo il potere a livello sovranazionale. Pare che ci stiano riuscendo se, di nuovo lui, Mario Draghi, nelle settimane passate, intervistato da Der Spiegel ha ammesso che gli Stati “non hanno capito di aver già perso la sovranità da molto tempo perché sono pesantemente indebitati e questo li rende dipendenti dal buon volere dei mercati”.

Per completare il disegno politico, necessitano di eliminare alcuni ostacoli: la rimozione dello Stato nazionale è il loro principale obiettivo. Con opera menzognera hanno fatto passare il sillogismo stato nazionale = egoismo, che stride fortemente con la prospettiva cristiana di La Pira, che già nella rivista Principi delineò in modo chiaro. Chi nei secoli scorsi sognava forme oligarchiche di organizzazione sociale (come l’Europa unita) ha interesse a condurre una campagna di disinformazione che contrasta con la verità storica: gli stati democratici e “davvero” liberi non hanno mai avuto interesse ad entrare in guerra. In breve, in Europa la fazione liberista invoca il superamento del Trattato di Westfalia del 1648 che pose fine alla cosiddetta guerra dei trent’anni.

La ragione è evidente: la pace di Westfalia sancisce il principio cardine del bene comune: la pace tra le nazioni sovrane deve tener conto dell’interesse altrui. In altre parole, con Westfalia si preferì la cooperazione alla competizione, quest’ultima sì che porta invece a guerre, distruzione e povertà; l’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI rappresenta un testo chiave nel delineare il rischio rappresentato dall’assenza di regole che finisce con l’assoggettare la politica ai capricci delle forze economiche per giungere, infine, a mettere in guerra (finanziaria, politica, sociale) gli stati, gli uni contro gli altri, per l’avidità di alcuni. E noi, domando, non siamo forse gli spettatori passivi di questo processo in corso?

Simili e coerenti riflessioni le ritroviamo sviluppate nel Codice di Camaldoli, si tratta infatti di un autentico Manifesto antiLiberista che dovrebbero rileggere in tanti, a cominciare dai mondialisti-cosmopoliti cattolici nostalgici del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, che fu assai critico nei confronti di Enrico Mattei, Alcide De Gasperi e del Sindaco Santo. In termini attuali, chi chiede il superamento di Westfalia ripropone lo scontro tra repubblica e impero. Ecco la ragione per cui i liberisti/cosmopoliti/mondialisti sono per il superamento della pace di Westfalia: costoro capiscono che lo stato nazionale è di ostacolo all’affermazione della visione imperiale che è propria di una società globalizzata, con mercati aperti e flussi di merci, di persone, di denari che girano liberamente senza patria, senza dover render conto ad alcuno.

La concezione imperiale è nemica di Westfalia, ma non deve sorprenderci: quest’Europa si regge su fondamenta liberiste. Mi sorprende invece che oggigiorno una gran maggioranza di cittadini sia disposta a stracciare la nostra amata Carta Costituzionale immolandola sull’altare della divinità dei mercati aperti che non danno fiducia agli Stati sovrani.

Decrescita e sostenibilità

E’ esplicito il rimando alle teorie del reverendo anglicano Thomas Malthus, di Bertrand Russell, di Aurelio Peccei e del Club di Roma. La teoria della decrescita, profondamente antiumana e anticristiana, estremizza il principio entropico del regno inorganico per costruire una gabbia per l’umanità, condannata alla progressiva distruzione. Non è infrequente imbattersi nell’utilizzo del concetto di ‘bomba demografica’ al fine di legittimare il controllo delle nascite per la riduzione ‘dolce’ della popolazione mondiale: che cos’è se non anticristiana e antiumana una tale ideologia? La Pira a questo pessimismo cosmico avrebbe opposto la fiducia nelle capacità dell’umanità ed avrebbe invitato a guardare al corso della storia della Chiesa e dei popoli nel mondo. J. F. Kennedy e La Pira, a differenza di questi (falsi) profeti (di sventura), con un approccio totalmente contrario, che potremmo definire umanistico e progressista, immaginavano una Alleanza planetaria per la colonizzazione dei pianeti del sistema solare. Al confronto con i tristi ragionieri monetaristi formalisti e cartesiani, la loro figura svetta splendidamente.

C’è da rabbrividire al leggere che cosa propongono i nemici dell’umanità: “Cercando un nuovo nemico contro cui unirci, pensammo che l’inquinamento, la minaccia dell’effetto serra, della scarsità d’acqua, delle carestie potessero bastare… Ma nel definire i nostri nemici cademmo nella trappola di scambiare i sintomi per il male. Sono tutti pericoli causati dall’intervento umano… Il vero nemico, allora, è l’umanità stessa”. Club di Roma, The First Global Revolution, 1991.

Sistemi creditizi sovrani in netta opposizione ai sistemi monetari

La decrescita (in)felice è figlia del nichilismo, espressione del pessimismo verso la natura creativa dell’umanità. Essa si salda con le ragioni dei difensori dei sistemi monetari: desiderano limitare le risorse per controllare lo sviluppo e indirizzarlo a loro piacimento; tengono in vita un sistema finanziario degenerato ma non muovono un dito per giungere in soccorso di famiglie, imprese produttive e stati. E’ una forma di colonialismo più spinto e più raffinato. Non confidando nella ricerca scientifica che consente di migliorare la tecnica per consumare meno e meglio i beni di questo mondo, negano ogni possibilità di sviluppo possibile. Attenti al proprio ombelico, indirizzano ogni sforzo per limitare lo sviluppo altrui e derubano il futuro di interi popoli e intere generazioni.

Per contrasto ecco le parole di La Pira, che rispose così ad un giornalista che lo accusava di fare troppe spese per il Comune di Firenze, dimostrando di aver compreso il significato della leva del credito produttivo: “Una sciocchezza, io sono responsabile di una sola cosa, di non aver fatto per la mia città i debiti che le altre città hanno fatto per il loro incremento. Sono un imbecille!”. Come non notare in quelle sue parole l’analogia con la parabola evangelica della moltiplicazione dei pani e dei pesci? In conclusione, la tradizione lapiriana va sostenuta, va fatta conoscere per renderla popolare. E’ un invito alla Fondazione La Pira a spendersi senza risparmiarsi per venire incontro alle attese della povera gente. A Prato siete i benvenuti per un ciclo di incontri e iniziative.

 

Replica di Piero Tani

Mi dispiace aver suscitato delusione. E devo ringraziare il dottor Oliva per aver argomentato le ragioni di questa delusione. Questo mi aiuta a riflettere sulle mie idee, a precisare meglio quello che intendevo dire (credo infatti che su alcuni punti ci sia stato fraintendimento), a prendere atto della presenza di opinioni diverse dalle mie, cercando di difendere meglio queste ultime; le quali, peraltro, sono opinioni personali, che non coinvolgono la Fondazione Giorgio La Pira. Dico subito che non riesco a concordare con la tesi che apre l’intervento di Nicola Oliva. Sicuramente oggi siamo di fronte ad attività speculative e vi sono agenti sufficientemente forti da condizionare i mercati a loro favore; ma non riesco a credere che questa speculazione sia organizzata da un’unica centrale con l’obiettivo di abbattere “i popoli, le democrazie, gli Stati nazionali, il Lavoro ed il concetto stesso di sviluppo”.

Discutere sull’idea di crescita non mi pare inutile. Intanto crescita non è sviluppo. Crescita non è neppure la fase di ripresa di un ciclo economico. Oggi poi si identifica crescita con aumento del PIL, laddove questo evento si può verificare senza che aumenti l’occupazione, senza che la distribuzione si faccia più equa, senza che si riduca la precarietà. In questo senso esprimevo l’idea che l’obiettivo giusto oggi non è tanto genericamente la crescita, ma piuttosto “la diminuzione della disoccupazione; la riduzione della precarietà nella caratterizzazione dei contratti di lavoro”; eccetera. Non capisco dunque da cosa Nicola Oliva deduca che confondo “il modello di sviluppo reale con la crescita illusoria del Pil frutto della finanziarizzazione dell’economia”. È proprio perché la crescita, misurata dall’aumento del Pil, può essere illusoria rispetto ai veri problemi che ho contestato l’opinione diffusa che per uscire dalla crisi, occorre e basta che l’Italia “cresca”.

Quanto all’Europa, non mi pare di aver scritto che “oggi La Pira avrebbe dato piena adesione all’idea degli Stati Uniti d’Europa”. Cerco di non congetturare su opinioni che persone ora defunte avrebbero sui fatti di oggi. Ho scritto invece dei “condizionamenti che la partecipazione all’Unione Europea (e ad Eurolandia in particolare) e il contesto di globalizzazione pongono a tutti i soggetti economici, stati compresi”. Di questo sono infatti consapevole e non mi pare cosa buona: ma mi auguro che venga superata da un avanzamento dell’Europa verso una più piena unificazione politica – cioè verso una stato Europa – e non dall’abbandono dell’Europa (e/o dell’euro) da parte dell’Italia. È vero che uno stato nazionale non necessariamente persegue politiche egoistiche; tuttavia, oggi mi pare che gli stati europei manifestino posizioni di egoismo nazionalista che potrebbero costringerci anche a rinunciare all’unificazione europea. Non riesco però a vedere questo evento come un fatto positivo, né da un punto di vista economico né da un punto di vista politico. La proposta di un accordo internazionale che riprenda in epoca moderna lo spirito del Trattato di Westfalia è affascinante, ma non capisco perché non possa riguardare un’Europa stato federale come uno dei suoi attori. Non si può negare che, dopo l’avvio del processo di unificazione, nello spazio della Comunità europea non si sono più verificati conflitti armati. D’altra parte, nella logica del chiudersi entro le proprie frontiere, resta il problema su dove fissiamo queste frontiere: Italia, macroregioni, regioni, province, comuni,…

Parlando di crescita, a me sembra che sia giusto tener conto delle preoccupazioni di chi ritiene che la crescita incontri sempre più gravi problemi dal punto di vista della disponibilità di risorse. Può darsi che queste preoccupazioni siano infondate (a me non pare proprio, e basterebbe la questione ambientale a segnalarlo), ma in ogni caso la “speranza cristiana” non c’entra. Non si può confondere la speranza con l’ottimismo, con la spensieratezza, con una fiducia illimitata nelle possibilità promesse dalla scienza. Di Kennedy e di La Pira ricordo proposte più belle che l'”Alleanza planetaria per la colonizzazione dei pianeti del sistema solare”. Inoltre non sono affatto convinto che la preoccupazione per un futuro incerto da un punto di vista delle risorse disponibili sia strumento “dei difensori dei sistemi monetari”, di quanti “desiderano limitare le risorse per controllare lo sviluppo e indirizzarlo a loro piacimento”. A me pare piuttosto il contrario, e cioè che l’ottimismo e il “negazionismo” rispetto a questi problemi – molto diffusi tra economisti e politici main stream – muovano dal desiderio che non si cambi l’attuale funzionamento del sistema economico globale, che non si introducano pericolose regole, che non si facciano “piani” che vincolano la libera iniziativa e il funzionamento automatico dei mercati. Io non aderisco alle posizioni di Latouche e più in generale alle tesi della decrescita, perché mi pare che se si parla di “decrescita” si resta nella stessa logica della “crescita”, privilegiando cioè la “quantità” (e con misurazioni anche illusorie) rispetto all’esigenza di cambiare in modo più strutturale le variabili principali della nostra economia.

Nell’intervento del dottor Oliva ci sono cose su cui concordo, anche se le esprimerei in termini diversi (ognuno ha la sua sensibilità e la differenza di età conta): credo anche io che il ruolo del credito sia una questione centrale; che lo Stato debba “indicare lo sviluppo per il conseguimento del bene comune” (io parlavo in questo senso della esigenza di una pianificazione); che le posizioni antiliberiste del Codice di Camaldoli offrano utili insegnamenti per l’oggi. Può darsi che la delusione sia nata dal fatto che io non ho trattato problemi che Nicola Oliva ritiene molto più importanti. Ma non si può parlare sempre di tutto. L’obiettivo del mio piccolo articolo era tutto nel sostenere l’esigenza di una qualche forma di “piano” per verificare la compatibilità delle politiche intese ad affrontare i differenti – e a volte contrastanti – problemi che ci troviamo di fronte.

di Piero Brunori (contributo per Rivista Incontri, Ottobre 2012)

Giorgio La Pira veniva accusato – specialmente nel periodo della requisizione delle ville, e di altre discusse iniziative come Sindaco di Firenze – di fare confusione fra carità e giustizia. Ricordo una battuta che circolava anche negli ambienti benpensanti delle parrocchie: “La Pira è un uomo fuori del comune, e  quindi non dovrebbe stare a capo del Comune”. Come dire che quella che pure era una virtù personale, faceva danni se trasportata all’interno di una struttura istituzionale.

Ma il pensiero di La Pira era ben lontano da simili confusioni. Se ripercorriamo le vicende del suo impegno politico, vediamo come egli mise progressivamente a fuoco l’importanza decisiva da attribuire alla giustizia in una “architettura cristiana dello Stato”. Nello scritto del 1945 avente questo titolo, l’ispirazione cristiana è riferita principalmente al rispetto della “natura” e dei diritti dell’uomo, ed alla configurazione istituzionale della società. Poi l’impegno di La Pira si tradusse nella partecipazione alla Costituente, nell’assunzione del Sottogretariato al Lavoro, nell’elezione a Sindaco; ed allora il tema della giustizia prese il sopravvento.

Nel 1951 si tenne un convegno dell’Unione Giuristi Cattolici sul tema “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”, a cui parteciparono i massimi giuristi dell’epoca, con relazioni di Dossetti, Moro, Amorth e La Pira. Quest’ultimo, incaricato della relazione conclusiva dal titolo “Cristianesimo e Stato”, abbandonò il testo predisposto e parlò a braccio, con spontaneità e passione, mettendosi “da un punto di vista assolutamente pratico”; e suscitando così un vivace dibattito che lo vide contrapposto ai personaggi più autorevoli, come Carnelutti e Santoro Passarelli.

La Pira riportava la sua esperienza di sindaco di una grande città nel dopoguerra. A Firenze – diceva – ci sono cinquecento sfratti e nemmeno una stanza disponibile; nelle liste di collocamento sono iscritti almeno quattromila disoccupati; l’otto per cento della popolazione ha il “libretto di miserabilità”. Poi – aggiungeva – “la sera vado a letto. Come?”. E descriveva il suo cambiamento interiore: abituato a preghiere accurate e ad un esame di coscienza sul proprio comportamento personale, “adesso sono diventato di una coscienza più dura…”. “La sera – continuava – affiora nel mio esame di coscienza questa popolazione che aspetta di avere la casa, di avere un lavoro dal quale dipende la sua vita fisica e spirituale, o di avere la streptomicina… Questo esame di coscienza si sposta da me agli altri”. “Mi sono accorto – proseguiva – che si trattava di una patologia del sistema nazionale e internazionale, un grande fatto che ha una sua logica, una struttura, una sua terapia. E quindi la sera non posso fare a meno di certe riflessioni… Torno a guardare lo spettacolo durante il giorno e poi penso al giudizio finale”.

Infatti, l’interrogativo “che cosa hai fatto di fronte all’affamato, all’ammalato, al pellegrino?” acquista una valenza più ampia per chi si trova di fronte ai drammatici problemi di tanta gente, con responsabilità politiche o civili di diverso livello. Del resto, sono gli stessi cittadini a ricordarlo a chiunque abbia queste responsabilità. La Pira immaginava un dialogo con un disoccupato: “Lei è un Sindaco?” “Sì” “Deputato?” “Sì” “Anche sottosegretario” “Sì” “E allora, perché non si spara se non è capace di darmi lavoro!”.

Dare giustizia, dunque, diventa non solo una virtù, ma un obbligo giuridico, a fronte del quale esiste una vera e propria pretesa di chi ha il corrispettivo diritto. Dunque non si tratta unicamente di adeguare il proprio comportamento personale, ma di creare una “architettura” dello stato che tenga conto, non soltanto delle libertà individuali o comunitarie, e della configurazione istituzionale della nazione (come poteva apparire nel 1945), ma anche e soprattutto delle esigenze sociali.

“Ora lo Stato, questa architettura giuridica che è lo Stato, non si proporziona più alla realtà sociale, secondo quello che il Vangelo direttamente o indirettamente detta. Vi sono cose nuove: l’occupazione, la casa, i bisogni familiari, il pane. Per tutti: non c’è niente da fare, sono cose nuove, e a queste cose nuove bisogna proporzionare un abito nuovo”. Ma, avvertiva La Pira, questa esigenza riguarda tutta la comunità umana, dovunque esistano persone umane da rispettare: “Questa è la dimensione mondiale del problema… Cristianesimo e stato: il cristianesimo che abbraccia il mondo intero, nessuna creatura esclusa”.

Appare di grande interesse vedere come l’obbligo morale della carità, sentito da La Pira fin dalla giovinezza – l’esperienza della Messa del povero di San Procolo risaliva agli anni trenta – venga sviluppato, sulla base dell’esperienza del dopoguerra, nell’obbligo giuridico della giustizia. L’imperativo è sempre lo stesso: è quello sottinteso negli interrogativi del giudizio finale. Ma la risposta, che è chiamato a dare chiunque abbia occasione e possibilità di affrontare i problemi collettivi, diventa diversa e più ampia. Si tratta di intervenire concretamente sulla “architettura” dello Stato, e poi su quella della comunità internazionale, perché le “pretese” di ciascun affamato, ammalato o pellegrino ricevano risposte quanto più possibile adeguate e complete.

Ecco perché la giustizia fuoriesce dal “foro interno” per esigere azioni politiche e istituzionali. E perché la giustizia induca “fame e sete”, ossia azione effettiva, tenace ed appassionata.

Non si tratta di una illusione integralista di creare il paradiso in terra, ma della ineludibile necessità di porsi di fronte a urgenze sempre più drammatiche a cui nessuno può ormai sottrarsi. Una realtà, dunque, che non riguarda solo i cristiani o chi sia dotato di una determinata sensibilità morale, ma la società intera, e la sua “architettura”, fondata su principi condivisi di rispetto della persona umana, e concretizzata in regole, provvedimenti e decisioni. Se quindi egli requisiva le ville vuote, o bloccava i licenziamenti del Pignone, o premeva sui governanti per la pace nel Vietnam, non esercitava semplicemente la carità, bensì adempiva al suo dovere di politico e amministratore di cercare di adeguare le strutture nazionali o internazionali alle esigenze intrinseche della giustizia.

Una analisi esauriente del pensiero di La Pira a proposito della giustizia richiederebbe naturalmente la disamina di una grande quantità di scritti, di interventi, di atti politici ed amministrativi, a livello cittadino, nazionale e mondiale. Non è escluso che una tale analisi sia già stata tentata, o sia oggetto di studi in corso o di futura pubblicazione. Ma è sembrato utile soffermarsi su questo primo aspetto: sottolineare cioè come l’impegno della giustizia, pur non identificandosi con la manifestazione della carità verso il prossimo, nasca dalle medesime esigenze morali, e tuttavia diventi attuale ed urgente di fronte alle problematiche poste dalla realtà sociale; e come, quindi, coinvolga tutta la realtà istituzionale indipendentemente dalla qualificazione ideologica dei suoi attori.

Non si tratta di sottolineature nuove, e forse si può pensare che non valga la pena soffermarsi ancora una volta su di esse. Ma, guardano il panorama internazionale di questi tempi, non ci si può sottrarre all’impressione che, viceversa, il mondo sia attraversato da tendenze del tutto opposte.

Recentemente è stata riportata dalla stampa di ogni paese una frase pronunciata – non privatamente – dalla persona che aspirava al ruolo più potente del mondo: My job is not to worry about those people. Si tratta del candidato alla casa Bianca Mitt Romney, che esprimeva così la convinzione che il suo compito non sia quello di occuparsi di “quella gente”, ovvero del 47% della popolazione statunitense che, a suo dire, non paga tasse e conta sugli aiuti pubblici.

Questa frase appare l’opposto speculare di quello che, secondo La Pira, caratterizza l’atteggiamento del cristiano (o comunque dell’uomo di buona volontà) che si trovi in vario modo impegnato in politica o nella società civile. Egli, come si è visto, riteneva che il suo compito, cioè la sua funzione, il suo obbligo giuridico, fosse quello di dare casa, lavoro, cure mediche a chi ne sia privo. Un obbligo non eludibile; se non ci riesce, gli diceva – paradossalmente – l’ipotetico disoccupato, si spari (ossia, smetta di fare il sindaco, o qualunque altra mansione pubblica).

Viceversa, in questa esternazione riferibile a chi conta di assumersi le massime responsabilità del pianeta, il discorso viene rovesciato: chi è senza risorse – those people – si pone automaticamente fuori dalla sfera di interesse del governante, il quale assume un job, cioè una missione, limitata agli interessi degli individui economicamente rilevanti. Il fatto che quella persona non sia estranea agli ambienti ufficialmente cristiani (mentre il suo vice è addirittura qualificato dalla sua appartenenza cattolica) convince senza dubbio della necessità di riscoprire la testimonianza di chi ha cercato di trovare nel Vangelo le ragioni del suo impegno politico o civile. E così trovare anche le radici della virtù civile della giustizia.

Ernesto Balducci è morto vent’anni fa. Scomparso in seguito ad un incidente stradale l’anno di Maastricht e di Tangentopoli, ha appena fatto in tempo ad affacciarsi nei “roaring Nineties”, l’inizio del tormentato inizio del processo di globalizzazione, nel quale ancora siamo profondamente immersi. Sono solo vent’anni, ma al tempo stesso rappresentano un arco di tempo, che ci sembra infinitamente lungo per gli straordinari cambiamenti impressi dall’incedere del tempo.

Forse ha un po’ di sapore retorico, ma per quanti l’hanno seguito in vita e ancora ritrovano nei suoi scritti una bussola per l’incerto presente, viene spontaneo provare ad immaginarlo anticipatore, o meno, della novità globale. Senza attribuirgli capacità predittive, sta di fatto che un’operazione del genere, dall’esito per nulla scontato, ha il suo fascino. Quanto meno ci spinge a fermarci e riflettere sulla lontananza siderale che ci separa da quel mondo, operazione che comunque può risultare salutare. L’obiettivo ultimo, diciamo più modestamente, può risiedere semplicemente nel verificare l’attualità del suo pensiero come strumento analitico per la comprensione delle tumultuose trasformazioni, di cui siamo spettatori; ma si trasforma anche in un esercizio di riflessione e di consapevolezza per noi che questi venti anni li abbiamo vissuti. Tutto questo senza ricorrere a una specie di gioco del riconoscimento di quanto sopravvive nel suo pensiero. Di certo neppure Balducci era in grado di disegnare i caratteri inediti, tanto per mutuarne un aggettivo a lui caro, di una tale straordinaria accelerazione della storia, che in vent’anni ha fatto del dato economico un vincolo interpretativo della realtà assai più opprimente di quanto non fosse. Non poteva neppure leggere nelle nuove acquisizioni tecnologiche, già allora sconvolgenti, il mutamento del ruolo della tecnologia, da fornitrice di strumenti, atti a migliorare le nostre condizioni di vita e di lavoro, ad elemento capace di rimodellare le vite, offrendoci livelli inusitati di informazione e di interconnessione.

Ma quello che balza più prepotentemente agli occhi, leggendo specialmente i lavori dell’ultima fase della sua vita, cioè della cosiddetta svolta antropologica, è la perdurante contrapposizione fra l’uomo portatore del verbo e degli interessi capitalistico-occidentali e l’umanità sfruttata, approccio che oggi lascia il posto a nuove realtà, che stanno ormai travolgendo quella civiltà, con cui Balducci aveva costantemente dialogato. Pur continuando a riconoscerci nel costante richiamo alle ineguaglianze e alle sofferenze di quello che allora veniva chiamato Terzo Mondo, lettura metodologica che le vicende globali non hanno affatto reso obsoleta – le distorsioni prodotte dall’economia non sono inferiori rispetto a quelle di vent’anni fa –, fatichiamo però a riproporre quegli schemi per interpretare la realtà odierna. Quell’uomo che Balducci vedeva ergersi altezzosamente di fronte alle masse povere del mondo, oggi si trova sempre più messo nell’angolo e schiacciato “dalla globalizzazione degli altri”, cioè quelle centinaia di milioni di essere umani che, con la loro crescita tumultuosa, stanno portando a compimento una svolta epocale. Un esito del genere era meno che pensabile ancora vent’anni fa, quando Balducci percepiva la nuova dimensione che si stava imponendo, senza però intuirne fino in fondo gli sviluppi.

Ma una cosa importante Balducci l’aveva capita: che non stava scritto nella storia che la guida del mondo sarebbe rimasta necessariamente sempre nelle stesse mani, che non era un dato immutabile la prevalenza della nostra civiltà. Già allora ci spingeva a pensare questo con la sua parola. Del resto che la società occidentale stesse tramontando, Balducci l’aveva nitidamente dimostrato. Oggi tutto questo lo viviamo direttamente anche sotto il profilo del progressivo peggioramento delle nostre condizioni economiche e di fronte all’emergere di altri popoli, che in parte ripercorrono la stessa nostra strada e in parte affermano valori nuovi, che frequentemente stentiamo a comprendere e accettare. La lezione balducciana ci permette di dare un senso alla transizione storica e al cambiamento in corso, piuttosto che ridurli a mera contingenza comodamente superabile.

Ci svela il senso della nuova direzione, che ha preso repentinamente il mondo; ci troviamo, in definitiva, su quella parabola, che nei suoi scritti disegnava con nettezza. In lui sono rintracciabili i disagi e le incertezze, che la nuova epoca gli trasmetteva, rispetto ad un’interpretazione sempre più ardua del nuovo ordine mondiale e di come questo si calasse e prendesse forma nelle coscienze dei singoli. Senza cedere alla prospettiva etica antropologico-planetaria, Balducci ci consegnava la certezza che comunque il soggetto della storia resta l’umanità intera in perenne stato di cambiamento e di cui occorre saper leggere i fermenti. Anche grazie a lui possiamo guardare con criticità al fenomeno della globalizzazione, mantenendo ben ferme quelle coordinate che stanno dentro nel suo insegnamento.

Andrea Giuntini

 

Il conferimento del premio Nobel per la Pace all’Unione Europea ci offre l’occasione per riflettere sul ruolo svolto dai popoli e dai governi di questo continente per la costruzione della pace. E lo facciamo a partire dai due testi lapiriani che vi proponiamo qui a seguire. Se da un lato colpisce la chiara visione che La Pira aveva delle conseguenze che il processo di distensione avrebbe avuto sul futuro europeo, dall’altra non possiamo che constatare che ancora lungo è il cammino da percorrere per legittimare pienamente il prestigioso premio. Si tratta di superare completamente la logica di potenza: cioè la logica dell’esportazione della democrazia e della pace mediante i bombardamenti, ma anche quella basata sul commercio delle armi e sulla tutela delle sfere di influenza; e si tratta anche – e forse è questa la premessa – di abbandonare la violenza “bene educata” delle aggressioni dei mercati, la logica del profitto di pochi in favore di una ben più lungimirante logica della ordinata crescita di molti. Parafrasando Clausewitz, possiamo dire che la pace è cosa troppo seria per lasciarla fare solo alle istituzioni e alle cancellerie, come l’economia è cosa troppo seria per lasciarla fare solo alle banche e alle agenzie di rating.

 

La via della pace è costituita da quello che noi abbiamo chiamato il “sentiero di Isaia”, ossia la via del disarmo iniziata a Mosca il 5 agosto 1963 col trattato nucleare (“il punto di Archimede”, disse Kennedy, capace di sollevare il pianeta verso la pace definitiva!): quel cammino deve essere proseguito! Deve essere il cammino nel quale sono avviate tutte le nazioni: un disarmo che si realizza in modo crescente, tanto verticalmente che orizzontalmente. Tanto, cioè, in rapporto alle esplosioni e all’esistenza medesima delle bombe atomiche, quanto in rapporto alla geografia sempre più estesa del disarmo, ossia in rapporto all’ordinata crescita, all’ordinato ampliamento delle zone denuclearizzate: “isole di pace” che diverranno gradualmente interi continenti sino ad estendersi a tutto il pianeta! Europa gradualmente denuclearizzata? Diventata, gradualmente, ordinatamente, una grande “isola di pace”? Il “continente della pace”? E’ questo un sogno, una fantasia, un’ingenuità politica? O non è, invece, all’opposto, la sola realtà valida, il destino vero, la grandezza autentica biblica, cristiana, civile, del nostro continente? La geografia della grazia e della civiltà, la geografia delle cattedrali, che caratterizza in modo tanto marcato lo spazio europeo (e, perciò, mediterraneo: si pensi a Gerusalemme!) non potrebbe coincidere con la geografia del disarmo e della pace? Si sa, la tesi è ardita: ma quale tesi storica non è, strutturalmente, un rischio ed una sfida? Si vis pacem para pacem!

Dal discorso alla Tavola Rotonda Est-Ovest – Belgrado 1965

 

L’Europa, tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, diventa la leva di Archimede destinata a sollevare verso il monte dell’unità e della giustizia il mondo intero. Ritorno all’Europa? Sì, in un certo senso, in quanto si tratta di un servizio di liberazione, di giustizia, di pace per i popoli di tutti i continenti! Da qui il superamento dei blocchi e il disarmo si estenderanno a tutti i continenti; da qui l’onda del negoziato e della pace investirà i popoli di tutta la terra! Qui troveranno il loro pernio, il loro punto di convergenza e di unità gli equilibri nuovi, storici, politici, culturali, scientifici e spirituali, del mondo! 

Dal discorso al Congresso della Federazione Mondiale delle Città Unite – Sofia 1972

Alcune brevi considerazioni a margine dell’interessante e ampiamente condiviso articolo dell’amico Luigino Bruni su “Avvenire” dell’8 luglio, intitolato “Il modello italiano”. In particolare, vorremmo intervenire su due sollecitazioni di Bruni, una di chiara impronta teorica ed una più orientata alle scelte di policy. Bruni introduce il suo articolo con le seguenti parole: “Il presidente Monti ha affermato di condividere con la Germania la visione di una ‘economia sociale di mercato altamente competitiva’, facendo così eco ad altre voci che in Italia stanno evocando e invocando quella suggestiva espressione”. Dal momento che da anni come Centro Studi Tocqueville-Acton ci spendiamo nella proposizione di tale modello economico, non neghiamo di esserci sentiti chiamati in causa.

Condividiamo con Bruni l’esigenza di un chiarimento teorico e crediamo che lo si debba fare ricorrendo ai padri fondatori di tale modello. In primo luogo, appellarsi ad “un’economia sociale di mercato altamente competitiva” non ha nulla di retorico ovvero di politicamente corretto. Significa rifarsi esplicitamente all’opera di uno dei più importanti tandem della vita politica ed economica europea del Secondo Dopoguerra: Ludwig Erhard e Aldred Müller Armack. Il contributo principale del prof. Müller Armack è stato di aver operato per l’implementazione di un sistema politico liberale, incentrato sulla libera concorrenza, intesa come compito sociale al servizio della persona umana. Dal canto suo, Erhard considera “l’economia sociale” lo scopo che si consegue tramite il mercato, ossia, tramite le sue istituzioni: politiche, economiche e culturali. Su questa base, la prospettiva dell’economia sociale di mercato si struttura nei seguenti tre punti: 1) impedire al potere politico di essere una sorgente arbitraria di disordine; 2) sopprimere ogni struttura monopolitistica; 3) fare prevalere in ogni caso libertà e concorrenza. Dunque, non si tratta di importare dalla Germania un modello estraneo alla nostra tradizione civile; tutt’altro, quel modello può vivere solo in una realtà sociale dinamica e policentrica, come appunto la nostra poliarchica società civile.

In questa sede possiamo soltanto far notare che i critici, e con essi anche l’amico Bruni, hanno spesso confuso l’espressione “economia sociale di mercato” con “economia di mercato sociale”. Bruni utilizza l’espressione capovolta per rappresentare un’economia di mercato che sia autenticamente civile. Ebbene, dal momento che i concetti di “mercato”, di “competizione”, di “impresa” e di “Stato”, nella prospettiva dell’economia sociale di mercato, affondano nella tradizione del pensiero sociale della Chiesa e fanno proprio il principio di sussidiarietà, riteniamo che la dimensione “civile” sia già nel suo DNA, senza alcun bisogno di ulteriori complicazioni nominalistiche. Non è un caso che un interprete autentico della vita civile italiana: don Luigi Sturzo, abbia eletto un padre dell’economia sociale di mercato come Wilhelm Röpke suo riferimento teorico.

L’economia sociale di mercato scommette sulla capacità dei processi di libero mercato, al centro dei quali troviamo l’impresa libera e responsabile, di perseguire finalità di interesse sociale, non contrapponendo i concetti di “sociale” e di “mercato” e infine non identifica “sociale” con “statale”. Il “sociale” riguarda in primo luogo l’ambito della società civile, articolata secondo il principio di sussidiarietà; in tal senso, l’economia sociale di mercato esprime il contesto teorico nel quale opera l'”economia civile”. Si considerino a tal proposito i contributi di Röpke sul concetto di sussidiarietà, di piccola impresa, fino alla teorizzazione del distretto industriale. La politica sociale non è quindi né un’attività di correzione né una semplice appendice dell’economia di mercato – nell’uno e nell’altro caso, in effetti, avrebbe senso parlare di “economia di mercato sociale”, dove l’aggettivo qualificativo avrebbe la funzione di addolcire le asprezze del sostantivo. Al contrario, nella prospettiva dell’economia sociale di mercato, la politica sociale è una parte costitutiva equipollente e integrale del concetto di economia di mercato, intesa come economia civile, al centro della quale opera l’impresa: piccola, media, grande, cooperativa e non profit che dir si voglia. In definitiva, non si tratta di puntuali interventi nel mercato “su base sociale”, quanto soprattutto dell’accesso senza privilegi al mercato – proprio allora si può attendere dalla “libera iniziativa” anche il “progresso sociale”. Ed è questo il ruolo fondamentale e insostituibile dello Stato.

Infine, Bruni scrive: “Ecco perché Mario Monti e gli altri amanti della suggestiva espressione economia sociale di mercato debbono dirci, con le scelte di politica economica e con la modulazione dei tagli, come si pongono nei confronti dell’economia italiana di oggi”. In attesa che risponda Monti, ci permettiamo di indicare un percorso: quello della sussidiarietà e della poliarchia. Un percorso già affrontato nel nostro articolo su “Avvenire” dello scorso 9 giugno, laddove abbiamo proposto la suggestione di una spending review ispirata alla sussidiarietà, intendendo con tale espressione lo sforzo di guardare al settore pubblico, prima ancora che come erogatore di servizi pubblici, come autorevole produttore di norme e controllore della loro corretta applicazione, al fine di permettere il perseguimento dell’interesse generale attraverso (e non a dispetto) della libera iniziativa dei singoli e dei corpi intermedi. Un’implementazione, in termini di public policy, di quella visione dei rapporti Stato-mercato e Stato-società tipica dell’economia sociale di mercato ed oggi più che mai opportuna per risolvere i nodi gordiani della nostra spesa pubblica. Auspicare per il nostro Paese la ricetta della “economia sociale di mercato altamente competitiva” significa perciò, nello stesso tempo, auspicare una politica economica che, riconoscendo i pregi e i difetti del nostro sistema produttivo e del nostro modello imprenditoriale, sappia fornirgli gli strumenti per affrontare i nuovi paradigmi economici e le sfide della globalizzazione, a partire dal problema della frammentazione del processo produttivo e dell’emersione delle nuove potenze economiche. In questo senso, coloro che propongono l’economia sociale di mercato non possono che auspicare – soprattutto in questa fase – “uno Stato forte per un mercato libero e un’impresa dinamica”. Ci riferiamo, naturalmente, alla necessità di uno Stato autorevole, fortemente presente nella vita economica e sociale del Paese non come imprenditore né come mero erogatore di spesa, bensì come soggetto capace di definire un quadro istituzionale e giuridico in grado di promuovere la concorrenza e la competitività del sistema imprenditoriale, di sgravare le imprese da una serie di compiti impropri che spesso ne minano alla radice la competitività internazionale, di intervenire nel settore del welfare, in chiave sussidiaria, solo laddove la libera iniziativa dei privati e del terzo settore non sia in grado assicurare risposte adeguate ai bisogni delle persone. In definitiva, l’economia sociale di mercato storicamente si sviluppa ispirata dal principio di sussidiarietà del moderno Magistero sociale della Chiesa e potrà continuare a dare buoni frutti solo se si mostrerà fedele a tale legato.

Flavio Felice e Fabio G. Angelini 

Articolo tratto da Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche – Associazione di cultura, ricerca e formazione ispirata ai principi dell’economia di mercato e della dottrina sociale della Chiesa – website: www.tocqueville-acton.org; e-mail: info@tocqueville-acton.org . Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Avvenire del 13 luglio 2012.

 

Pubblichiamo la riflessione del professor Luigino Bruni, edita da Avvenire l’8 Luglio 2012 in merito al tema dibattuto in questo periodo storico su entità e senso di “economia sociale di mercato competitiva”.

Il presidente Monti ha affermato di condividere con la Germania la visione di una «economia sociale di mercato altamente competitiva», facendo così eco ad altre voci che in Italia stanno evocando e invocando quella suggestiva espressione. Un’economia che sia sociale, di mercato e, per di più, altamente competitiva non può che accontentare tutti: quelli che amano il mercato, quelli che sottolineano le esigenze sociali e solidariste, e anche coloro che vedono il mercato come il regno dell’efficienza, del merito e della competizione. Occorre però essere diffidenti nei confronti di tesi e slogan che vogliono accontentare tutti, perché, soprattutto la politica, è l’arte delle scelte tra alternative con costi e benefici diversi. L’economia sociale di mercato è una espressione che ha una precisa identità nazionale: è un modello economico-politico, proposto e in parte applicato da scienziati sociali tedeschi, tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso. Quando allora la invochiamo per l’Italia e per l’Europa di oggi dobbiamo fare lo sforzo, teorico e culturale, di specificare che cosa si ha in mente con mercato e con sociale.

Innanzitutto, nel parlare di economia sociale di mercato non dobbiamo dimenticare che almeno un secolo prima degli autori tedeschi, in Europa e in Italia, è emersa e si è strutturata un’importante tradizione di pensiero e di prassi economica che ha utilizzato l’espressione economia sociale per esprimere una visione di mercato diversa da quello che stava diventando il capitalismo. Un’espressione che ritroviamo soprattutto nei Paesi latini, sebbene in Italia fosse preferita la dicitura economia civile, poiché l’aggettivo civile richiama da noi la civitas romana, la cultura cittadina, l’umanesimo civile, e l’incivilimento. Per questa antica tradizione, l’economia era sì di mercato, ma – e qui sta il punto – di mercato non capitalistico, perché il suo modello di riferimento era normalmente quello cooperativo-comunitario. E questa economia sociale ha sempre avuto un rapporto complicato, e in parte conflittuale, con l’ideologia liberale e capitalistica. In altre parole, la tradizione dell’economia sociale e quella liberal-capitalistica sono espressione di due umanesimi diversi: per l’economia sociale tradizionale, il mercato è buono e civile quando è in sé espressione di socialità, quando è mutualistico e comunitario; per l’economia liberal-capitalistica il mercato è ambito eticamente neutrale, e il sociale è tipico della sfera privata e filantropica. Ma c’è di più.

La tradizione classica di economia sociale – o civile – legge l’economia come un ambito retto dalle stesse leggi che regolano l’intera vita sociale, e non, come invece fa la tradizione liberal- capitalistica, come un luogo separato e con proprie leggi e diverse (business is business, gli affari sono affari). Per l’economia sociale-civile italiana l’impresa e il mercato non sono luoghi separati dal resto della civitas: l’economia è civile perché l’economia è vita civile. Le cooperative, ma anche le piccole e medie imprese dei distretti industriali, le casse rurali, le aziende a conduzione familiare e l’impresa sociale sono la nostra economia sociale di mercato, dove l’economia e la vita sociale sono intrecciati profondamente tra di loro. Questa tradizione italiana ancora oggi è la stragrande maggioranza dell’economia del Paese: le imprese con meno di 10 dipendenti sono in Italia il 95% del totale, occupando il 46% dei lavoratori, e se aggiungiamo il 21% che lavora in imprese tra 11 e 50 addetti, l’8% impiegato nelle cooperative e il 15% nella pubblica amministrazione, ci accorgiamo subito di che cosa sia fatto il capitalismo italiano. La nostra tradizione economica dovrebbe allora essere chiamata economia di mercato sociale (o civile), perché il mercato è inerentemente sociale, e non qualcosa che arriva dall’esterno a limitare o a correggere; ed è sociale con tutte le ambivalenze che ogni sociale porta con sé. È il nostro un modello dove l’impresa si fa carico di problemi sociali e familiari che non trovano posto in un modello di business is business. Ancora oggi, tra i dipendenti di queste nostre imprese ci sono alcune persone (a volte molte) che non dovrebbero esserci sulla base del puro calcolo economico costi-benefici, ma che vi restano perché l’imprenditore porta nell’impresa anche e soprattutto brani di vita civile, amici, persone in difficoltà.

Costi, ma anche investimenti che hanno rafforzato le stesse imprese, soprattutto nei tempi di crisi, perché le rendono accessibili a energie e risorse esterne all’impresa. Il modello italiano ha assieme un ‘di più’ e un ‘di meno’, ma dove i ‘di più’ sono stati dominanti fino ad anni recenti, portando l’Italia ad autentici miracoli economici e civili. Fino alla radicale svolta finanziaria del capitalismo, l’economia italiana è cresciuta grazie a un’alleanza tra questa tradizione familiare-comunitaria e quella più capitalistica (le poche grandi imprese), con un ruolo centrale dello Stato. Oggi le cose sono diverse, e anche all’interno del nostro modello economico si vive il conflitto tra una economia finanziarizzata capitalista e l’antica tradizione sociale-civile. Ecco perché Mario Monti e gli altri amanti della suggestiva espressione economia sociale di mercato debbono dirci, con le scelte di politica economica e con la modulazione dei tagli, come si pongono nei confronti dell’economia italiana di oggi, se vogliono puntare e rafforzare la sua anima di mercato sociale o quella finanziaria-capitalista. Chi vuole davvero una economia che sia di mercato e sociale, dovrebbe semplicemente aiutare – o non ostacolare – le piccole e medie imprese, le aziende famigliari (e le famiglie in generale), la cooperazione, il Terzo Settore, i distretti industriali, le banche di territorio, gli artigiani: solo questa è la ‘nostra’ economia, non ce ne sono altre in vista. Non è indispensabile guardare alla Germania, basta guardare meglio il Paese reale, per ritrovare una straordinaria economia di mercato sociale, che in questi ultimi decenni non è stata più ‘vista’ e capita, ma spesso è stata offesa. È un’economia vitale, che non aspetta altro che di ripartire, attingendo alla nostra storia e ai nostri valori, che sono anche valori economici.

Luigino Bruni

Fulvio De Giorgi

La sfida della laicità da Giorgio La Pira a Vittorio Peri

 

Una riflessione compiutamente storica, non agiografica né apologetica, una riflessione che direi ‘compiutamente laica’ sulle figure di Giorgio La Pira e di Vittorio Peri deve metodologicamente comprendere e studiare tali figure nel loro contesto storico e, più precisamente, in relazione ai movimenti profondi del momento storico che toccò a loro di vivere. In questo senso, il punto di partenza è il pontificato di Pio XI, durante il quale – tra il 1924 e il 1926 – si ebbe la ‘svolta religiosa’ e il maturarsi della vocazione laicale di La Pira [1].

D’altra parte, il papa Pio XI, con il suo pontificato – dal 1922 al 1939 –, non poteva non risentire del clima culturale, spirituale, psicologico e delle dinamiche sociali di fondo che caratterizzavano il periodo successivo alla Grande Guerra e, più in generale, gli anni compresi tra i due conflitti mondiali. Si trattò dell’età dei totalitarismi così che, per molti aspetti, accentuando le posizioni intransigenti, già da tempo presenti al suo interno, e marginalizzando, invece, quelle conciliatoriste, ci fu – anche per la Chiesa Cattolica – un’età totalitaria che comprese, appunto, i pontificati di Pio XI e di Pio XII e che fu chiusa, forse definitivamente, dal Concilio Vaticano II.

Non è questa la sede per ricostruire a tutto tondo aspetti significativi e caratteristiche storiche di quella che possiamo chiamare la “Chiesa totalitaria” [2], affiancata allo Stato totalitario. Si può tuttavia ricordare che ci fu una più accentuata centralizzazione romana – accompagnata da una esaltazione del ministero petrino, quasi un ‘culto della personalità’ del papa – e, insieme, uno slancio attivistico impresso a tutta la Chiesa e, in particolare, al laicato: con le organizzazioni di massa dell’Azione Cattolica, con la precisazione del concetto di ‘apostolato dei laici’, con l’orizzonte teologico-spirituale della regalità di Cristo, intesa come regalità sociale su tutto l’uomo, su tutta l’umanità, su tutti gli aspetti della società. Il modello militante e massimalista che padre Agostino Gemelli, Armida Barelli, Francesco Olgiati avevano promosso a Milano fu allora esteso a tutta l’Italia (e, tendenzialmente, a tutto l’orbe cattolico).

Una cifra esteriore, ma emblematica, di questa tensione totalitaria, che allora caratterizzò quasi tutti gli ambiti ecclesiali, fu il ricorso vastissimo alla metafora militare per indicare i vari aspetti della Chiesa e della sua azione. Omelie e lettere pastorali, articoli della stampa cattolica e motti episcopali, canti e sussidi catechistici rigurgitavano, fino al parossismo, di crociate e di combattimenti, di nemici e di armature, di ‘soldati di Cristo’, di ‘sante battaglie’ e di ‘falangi di Cristo redentore’ [3].

La regalità di Cristo e il culto di Cristo Re, introdotto da Pio XI, furono la modalità spirituale, liturgica e pastorale per dare un saldo fondamento, personale e comunitario, a questo variegato movimento di uomini e di donne, giovani e meno giovani, lanciati nel mondo con uno spirito di conquista. Peraltro l’idea della “pace di Cristo nel Regno di Cristo”, programma sintetico del pontificato di Ratti, cercava di condurre ad unità sia l’indirizzo pastorale anti-modernista di Pio X (instaurare omnia in Christo) sia l’indirizzo anti-integralista e, soprattutto, pacificatore e conciliatore di Benedetto XV. Certo le diversità di sensibilità, di prospettive culturali e di visioni pastorali non scomparvero. Ma, per tutto il pontificato di Pio XI, furono strettamente subordinate all’indirizzo generale e perciò, almeno esteriormente, unificate.

Su due significative conseguenze storiche di questi processi mette conto, in questa sede, fissare l’attenzione. Innanzi tutto vi fu l’attivizzazione di massa di laiche e laici cattolici, resi, attraverso l’Azione Cattolica, partecipi di quello che veniva chiamato ‘apostolato gerarchico’, con un’implicita alternativa al totalitarismo fascista e alle sue organizzazioni di massa: il laicato veniva, dunque, fortemente valorizzato, sul piano pastorale e teologico, e, insieme, legato strettamente alla guida della gerarchia. In secondo luogo, si sviluppava una nuova spiritualità dei laici ed un’ascetica laicale di tipo nuovo che portavano ad una inedita consapevolezza della ‘vocazione laicale’. Nacquero allora nuovi sodalizi che univano tale coscienza laicale matura con la ricerca di uno stato di vita simile a quello dei religiosi: nel 1947 Pio XII li avrebbe chiamati “istituti secolari”.

Le ricerche storiche di Vittorio Peri hanno fatto vedere come dalla prospettiva della regalità di Cristo, dalle indicazioni del pontificato di Pio XI negli anni ’30 e dall’azione di padre Gemelli si venne precisando e radicando in alcuni laici cattolici italiani, che sarebbero stati dei protagonisti della successiva storia nazionale, una caratteristica vocazione spirituale, alla quale essi rimasero poi sempre fedeli, pur prendendo strade diverse [4]. Com’è noto, padre Gemelli fondò due sodalizi laicali – le Missionarie della Regalità di Cristo e i Missionari della Regalità di Cristo – che dovevano vivere i consigli evangelici nel secolo, con un particolare impegno per l’Azione Cattolica e per l’Università Cattolica e con una spiritualità centrata sulla regalità di Cristo.

Del sodalizio maschile fecero parte, tra gli altri, Padovani, Fanfani, La Pira, Dossetti, Lazzati, Franceschini, Gedda, Carretto. Nel 1938 ci fu una crisi, dovuta prevalentemente a motivi interni, come la documentazione disponibile e gli studi di Peri fanno vedere. E tuttavia si può  congetturare che forse spingevano pure verso una svolta motivi di portata storica più generale: è difficile, cioè, immaginare che l’incupirsi della situazione culturale e politica europea, il legarsi del fascismo italiano al nazismo tedesco (già chiaramente ammonito da Pio XI con la Mit Brennender Sorge), la stessa introduzione in Italia delle leggi razziali potessero rimanere senza eco nelle coscienze cristiane di tali laici, come peraltro si sarebbe presto visto; mentre è facile pensare che tali eventuali preoccupazioni o riflessioni critiche potessero, inizialmente, restare riservate o forse perfino inespresse.

Dalla crisi del 1938 presero l’avvio strade nuove rispetto al sodalizio gemelliano. Nel 1939, poi, la morte di Pio XI e l’elezione di Pio XII e, insieme, lo scoppio della seconda guerra mondiale, con le sue conseguenze di ampio raggio (per l’Italia, tra l’altro, non solo con la sconfitta ma anche con le sofferenze di un conflitto combattuto, nelle sue fasi finali, sul suolo nazionale, acuito dalla tragicità della guerra civile) segnarono definitivamente una profonda svolta storica.

Il dopoguerra infatti, da una parte, vide Pio XII continuare nella via pastorale del totalitarismo ecclesiale e dell’Azione Cattolica di massa, avviata dal suo predecessore, ma dall’altra vide pure un contesto complessivo nuovo, non più totalitario e fascista ma libero e pluralista ed anche, sia pure lentamente e con contraddizioni, democratico. In tale contesto si conobbe meglio cos’era stata la Shoa; si affermarono sempre più i valori dell’umanesimo laico – ma non anticristiano – delle Nazioni Unite prima e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo poi; in un mondo ormai avviato alla divisione in due blocchi, si posero le basi – con gli accordi di Bretton Woods – per un nuovo ordine mondiale di governo dell’economia di mercato; si svilupparono in paesi dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia e la Germania, forti partiti democratico cristiani che concorsero alla stesura di nuove costituzioni democratiche. Tali epocali processi storici, che fanno parlare del Novecento come di un ‘secolo spezzato’ [5], segnato cioè dalla profonda svolta periodizzante del 1945, non potevano non avere influenze anche sulla compagine ecclesiale, cominciando ad erodere i fondamenti di quella ‘Chiesa totalitaria’ avviata da Pio XI e continuata da Pio XII. Riemersero allora, sempre più chiaramente, prospettive pastorali differenti, nonché sensibilità spirituali e culturali anche molto diverse. Ci furono peraltro ricerche teologiche innovative, specialmente in Francia, che toccarono anche – basti solo pensare a Congar – la teologia del laicato.

In questo contesto storico, dunque, cominciò a palesarsi quella che possiamo chiamare la sfida della laicità. Questa espressione mi pare significativa in due sensi. Da una parte, infatti, segnala la cruciale questione del ‘laicato’ come questione interna della Chiesa cattolica: ‘sfida della laicità’ allude allora agli interrogativi che una più matura consapevolezza dei laici, nel loro apostolato, poneva alla Chiesa nel suo complesso e, in particolare, al discernimento della gerarchia; significa occasione e chance per un approfondimento dell’autoconsapevolezza ecclesiologica; significa, infine, provocazione positiva al rinnovamento strutturale per fare posto a nuove forme di ministerialità. Ma, d’altra parte, con ‘sfida della laicità’ si allude pure ad una dinamica più vasta e ad extra: non solo della Chiesa verso il mondo, ma del mondo verso la Chiesa. Si tratta allora della sfida cruciale che la ragione laica, la scienza e la tecnica, innervando sempre più il mondo contemporaneo, portavano al pensiero religioso. Erano, dunque, processi storici di grande portata, che, in una certa misura, giungono fino a noi [6]. La mia, dunque, sarà una ricostruzione di taglio storico, ma con la convinzione di una permanente attualità di tali riflessioni: la ‘sfida della laicità’ si pone, infatti, anche oggi, quasi negli stessi termini, alla Chiesa del XXI secolo e nel contesto della globalizzazione.

Mi è parso opportuno, inoltre, studiare alcuni, significativi aspetti della ‘sfida della laicità’, visti paradigmaticamente attraverso il prisma delle due figure del laicato cattolico italiano, già ricordate e tra loro collegate: Giorgio La Pira e Vittorio Peri. La Pira rappresenta infatti la fase iniziale, diciamo pre-conciliare, di tale sfida, mentre in Peri si riflettono gli approfondimenti post-conciliari, peraltro visti spesso anche in continuità creativa con l’esperienza dello stesso La Pira, da Peri conosciuto e amato e, poi, studiato con filologica accuratezza [7].

La Pira, come ho già detto, sviluppò una prima, decisiva autoconsapevolezza religiosa della propria vocazione laicale nell’istituto fondato da padre Gemelli, dove incontrò anche, tra gli altri, Dossetti e Lazzati. Dopo la crisi del 1938, La Pira rimase nell’istituto gemelliano [8] mentre Dossetti e Lazzati ne uscirono. Lazzati fondò poi, anche nel solco dell’influenza spirituale del card. Schuster, un altro istituto secolare, a cui aderì anche Dossetti, il quale poi lo abbandonò per seguire la propria vocazione monastica, fondando la Piccola Famiglia dell’Annunziata. Durante gli ultimi anni della guerra, La Pira, Lazzati e Dossetti testimoniarono la “carità politica” (di cui aveva parlato Pio XI), con percorsi diversi, ma tutti caratterizzati da un antifascismo esplicito e militante. Peraltro, come, giustamente, ha fatto notare Peri, l’originaria, comune matrice giovanile, sedimentatasi durante il pontificato di papa Ratti, restò in realtà il fondamento profondo delle vicende esistenziali di La Pira [9], di Lazzati e di Dossetti, pur nello svolgersi peculiare dei loro cammini e delle loro differenti scelte [10].

Inoltre, com’è ben noto, nel secondo dopoguerra, La Pira, Dossetti e Lazzati si sarebbero trovati ancora fianco a fianco alla Costituente e in quella componente di sinistra della Democrazia Cristiana che diede vita alla rivista “Cronache Sociali” e che fu allora chiamata ‘dossettiana’. Tuttavia se, sul piano politico e, oggi, della storia politica, è stato ed è legittimo parlare di ‘dossettismo’, sul piano invece della storia dei movimenti spirituali e di cultura religiosa dovremmo, a mio parere, parlare piuttosto di ‘lapirismo’: fu allora infatti l’impostazione spirituale ed ecclesiologica di La Pira, che includeva i decisivi riferimenti a Maritain [11] ma pure a De Lubac, a Chenu ma pure a Thils, a S. Tommaso ma pure a S. Agostino, a risultare fondamentale e di più vasta influenza, comprendendo al suo interno anche i presupposti spirituali del dossettismo politico.

La Pira, del resto, meglio di Dossetti, di Lazzati e di altri, rappresentò allora uno sviluppo omogeneo delle posizioni decantatesi durante il pontificato di Pio XI e di Pio XII, maturando un progressivo approfondimento, in forma evolutiva e senza strappi o rotture traumatiche, verso paradigmi nuovi che prepararono la via al rinnovamento conciliare. Questo è anche, a mio avviso, uno degli aspetti più importanti, sul piano storico generale. La figura di La Pira ci consente cioè di tracciare un percorso di continuità tra pre-concilio, Concilio e post-concilio, evitando le due estremizzazioni contrapposte di chi vede nel Concilio stesso una svolta innovativa positiva dal passo addirittura millenario nella storia della Chiesa (quasi che lo Spirito santo ritornasse a soffiare e a parlare dopo secoli di silenzio) e di chi invece considera il Concilio come l’origine di tutti i problemi della Chiesa contemporanea (come se tra Concilio e Spirito santo non ci fosse alcun rapporto). In realtà i problemi di fondo erano già emersi prima del Concilio e osservatori acuti, come La Pira e come altri, li avevano ben percepiti. Tali osservatori proposero perciò una via di rinnovamento radicale ma non una rottura nella continuità profonda, piuttosto un ricollegarsi alla grande Tradizione superando gli angusti e ormai sterili tradizionalismi: una primavera ecclesiale, dunque, che mettesse fine all’inverno della Chiesa totalitaria.

La Pira non scrisse espressamente sulla laicità e sul laicato: anche se, meditando sull’esperienza di Vico Necchi e, soprattutto, di Piergiorgio Frassati, espresse convinzioni profonde che riflettevano il suo stesso personale modo di vivere la vocazione laicale. Ma mi vorrei soffermare, in questa sede, su un testo che mi pare, per più versi, esemplare, anche per la sua permanente attualità: è il commento che La Pira scrisse, sui numeri di ottobre e novembre 1947 di “Cronache Sociali” [12], alla lettera pastorale per la Quaresima 1947 dell’Arcivescovo di Parigi, card. Suhard [13]. In quel testo egli utilizzò alcune parole-chiave, che sarebbero state decisive nel successivo magistero di Giovanni XXIII (penso a “aggiornamento” e “interdipendenza”) e di Paolo VI (penso a “dialogo” e a “umanesimo mondiale”), e rimandò ad alcune immagini che sarebbero ritornate con il Concilio (penso a “primavera della Chiesa”). Ma questi accenti nuovi erano armonicamente intrecciati ai temi più consueti dei pontificati di Pio XI e di Pio XII, nella continuità della prospettiva della ‘conquista’: del primo, in particolare, si sottolineava la tematica della regalità di Cristo, la sintesi di anti-modernismo e di anti-integralismo, lo slancio (riprendendo, in forma rinnovata, le indicazioni di papa Sarto) di “instauratio di tutta la realtà in Cristo”; del secondo invece si riprendeva, con particolare enfasi, l’ecclesiologia della Chiesa come Corpo mistico. E tuttavia anche questi evidenti ed espliciti tratti di adesione al magistero pontificio coevo trovavano in La Pira vibrazioni originali, in particolare nella sua concezione di un cristocentrismo storico e cosmico, che integrava il rispetto dell’autonomia delle realtà temporali e la capacità realistica di discernere e assimilare il buono di ogni posizione filosofica e umana, propri di S. Tommaso [14], con la “ricapitolazione in Cristo” di S. Paolo e di S. Agostino: il tomismo [15] come metodo e l’agostinismo come sistema (in una ‘linea’ ideale che da Bossuet passava per Vito Fornari e culminava in Blondel); la cultura religiosa e civile domenicano-savonaroliana [16] e la spiritualità [17] e la teologia francescano-bonaventuriana (in una linea che nella regalità di Cristo faceva sintesi della mistica cherubica dell’Epifania e della mistica serafica dell’araldo del gran Re [18]). Il cristocentrismo si sviluppava, peraltro, non in un ecclesiocentrismo, non in un trionfalismo della Chiesa, ma in due parallele dimensioni, ricomprese nel “Cristo totale”: da una parte il cosmo e dall’altra la Chiesa, vista secondo una ecclesiologia misterica e teandrica.

Novità, meno evidenti ma più incisive, e continuità erano, dunque, ricomprese in un orizzonte personale, tipicamente lapiriano. La cifra fondamentale era quella del paradosso cristiano: era proprio questa spiritualità e questa linea culturale, come punto focale e apicale di una costellazione teologica e di un vissuto testimoniale, che consentivano di conferire un senso complessivo nuovo e diverso a spunti e ad accenti che altrimenti potevano scadere nella ‘sconfitta della laicità’, nella marginalizzazione del laicato, in un complessivo depauperamento ecclesiologico. Affermava, dunque, La Pira: “Non bisogna mai dimenticare che il cristianesimo è un «paradosso», un sistema «di paradossi»: perché se è vero che esso è nel tempo non è meno vero che esso è nell’eterno”. E il paradosso cristiano comprendeva anche la realtà della Chiesa, altrimenti incomprensibile: “La Chiesa è, dunque, un mistero di fede: senza gli occhi della fede non è possibile traversare il suo corpo giuridico, visibile, istituzionale e percepire la sua realtà soprannaturale. Da qui gli errori che si commettono nel giudicarla: sembra in agonia ed invece è viva e se ne prepara la primavera! La conclusione, dunque è questa: la Chiesa ha una natura «teandrica»: […] è indefettibile e subisce delle crisi: è e diviene: […] si è adattata a tutte le civiltà ed a tutte le culture lievitandole tutte, ma senza mai legarsi ad alcuna: e quando queste civiltà e queste culture sono crollate, la Chiesa non è crollata con esse”.

Da questa impostazione ‘paradossale’ derivava una transvalutazione dello spirito di crociata e di conquista, che diventava “missione di lievitazione e di conquista”: cioè la ‘conquista’ era letta, secondo un’immagine e una prospettiva evangelica, come azione del lievito nella pasta. Evidentemente un’impostazione di questo tipo si discostava in modo deciso dagli indirizzi allora prevalenti nell’apostolato dei laici e inaugurava o, almeno, suggeriva un atteggiamento nuovo.

A differenza di altre personalità del mondo cattolico che erano anch’esse a disagio rispetto alla mobilitazione di massa di Gedda e padre Lombardi, ma che erano o sacerdoti (come don Primo Mazzolari) o religiosi (come padre Giulio Bevilacqua), La Pira, con la sua maturità laicale, non manifestava critiche ma cercava, quasi si direbbe, di prendere per mano le posizioni più chiuse e astiosamente polemiche verso la civiltà moderna e di accompagnarle, gradualmente e con persuasiva mitezza, verso il coraggio dell’apertura cordiale e dialogante. Così, dunque, faceva anch’egli ricorso al linguaggio militante e alle metafore militari ma per realizzare, passo passo, un vero e profondo disarmo degli animi, delle mentalità e, dunque, delle prospettive di apostolato. Lo scontro si risolveva in un reciproco integrarsi: con una particolare importanza, dunque, per quello che potremmo chiamare ‘principio di integrazione’, premessa e fondamento del ‘principio di laicità’.

Affermava il professore dell’Ateneo fiorentino:

La civiltà moderna e la società moderna da un lato, la Chiesa dall’altro: i due protagonisti del grande dramma storico sono, per dir così schierati l’uno di fronte all’altro.

Per il combattimento finale? Sia pure: ma è un combattimento sui generis: un incontro, anziché uno scontro: un incontro fatto per arricchire reciprocamente e per integrare reciprocamente: è bene ripetere il grande principio di orientazione: il mondo ha bisogno della Chiesa e la Chiesa ha bisogno del Mondo. […]

Il «mondo» è lì, schierato, per dir così, davanti alla Chiesa: conquistarlo significa, per il cristianesimo, penetrarlo dall’interno, operare in esso come opera il lievito sulla pasta, operando delle integrazioni, delle purificazioni, delle elevazioni: non veni solvere sed adimplere. […]

Quale la teologia, tale la strategia della conquista: il mondo che si schiera davanti alla Chiesa non è un «nemico» da abbattere: è un «amico» da amare: un «malato» da guarire: amare il mondo, rispettare il mondo, redimere il mondo perché in esso si articola il Corpo di Cristo.

Quello che La Pira chiamava “principio di orientazione”, cioè la reciproca integrazione tra Chiesa e Mondo, suggeriva, dunque, la più corretta messa a fuoco della laicità, della sfida ad essa connessa, nonché delle scelte da compiere per “la fioritura tutta nuova dell’apostolato dei laici associati all’azione della gerarchia”.

Ma proprio per questo, allora, occorreva evitare i due impedimenti all’integrazione: l’impedimento di chi più che l’integrazione suggeriva un semplice dissolvimento della Chiesa nel Mondo moderno e l’impedimento di chi considerava il Mondo moderno come irrimediabilmente anti-cristiano e assegnava alla Chiesa il compito di combatterlo per accelerarne l’ineluttabile caduta.

Alla radice di questi due impedimenti, che erano in realtà due zavorre pastorali che appesantivano e impacciavano l’azione della Chiesa, stavano due errori ecclesiologici: l’errore, che La Pira chiamava “modernista”, di chi nega di fatto il volto divino della Chiesa e persegue un radicale pragmatismo, un’umanizzazione completa del cristianesimo; e l’errore, che La Pira chiamava “integralista”, di chi nega di fatto il volto umano della Chiesa. Implicitamente La Pira suggeriva che, nella Chiesa contemporanea, il rischio principale viene dall’integralismo. Mentre, infatti, gli bastava un accenno al “modernismo”, dal quale peraltro distingueva l'”ammodernamento” tecnico e il metodo dell’adattamento, si soffermava invece ampiamente sull’integralismo: non faceva riferimenti espliciti, ma chiaramente alludeva a certe espressioni dell’Azione Cattolica geddiana, ai toni da crociata di padre Lombardi, al tradizionalismo sclerotizzato degli ambienti che la storiografia avrebbe indicato come “partito romano”.

A proposito, dunque, di questo “triplice integralismo”, La Pira svolgeva riflessioni che mette conto citare con ampiezza, anche per la loro intramontabile verità:

Disconoscimento del volto umano della Chiesa: ecco l’integralismo, nei suoi tre aspetti: 1) dottrinale, 2) tattico, 3) morale.

È una specie di arteriosclerosi questo «fissismo» integralista: una incapacità a crescere, a restare giovane, a sensibilizzarsi con la giovinezza sempre rinnovata dei secoli. Ed infatti, cosa è l’integralismo dottrinale? È la somma di due carenze: pigrizia mentale, da un lato, incapacità assimilatrice dall’altro […]: la verità si arricchisce, si incrementa, per l’apporto che ad essa danno anche coloro che la frammentano o la combattono: essa si feconda con l’apporto di tutti. […]

Non v’è sistema errato che non contenga frammenti preziosi di vero, che non porti qualche incremento all’edificio totale della verità. Si pensi a tutta la storia complessa e drammatica del pensiero moderno: da Cartesio a Rousseau, da Kant ad Hegel ed a Marx. Tutto da rigettare? Nessun profitto, nessun apporto per la crescita della verità?

Una risposta siffatta non è davvero conforme alla visione genuinamente cattolica della realtà. La visione davvero cattolica è aperta, ha comprensioni profonde, non è manichea. […] Trarre profitto da questa verità parziale, da questo bene parziale: lasciarsi fecondare da qualsiasi germe di verità da chiunque seminato: chi non è contro di me è con me!

Orbene: all’integralismo dottrinale manca la capacità di assimilare questi germi di vita nuova: è rinserrato in un torrione invecchiato che esso scambia per «roccaforte tomista» e si preclude, chiuso come è ad ogni luce interiore, quelle vaste prolificazioni di cui la verità è sempre ricca nel corso dei secoli. […]

Ecco ciò che non capisce l’integralismo dottrinale: crede di essere un difensore agguerrito della Chiesa e non vede che le sue armature son troppo vecchie per essere proporzionate alle strategie sempre nuove e sempre più approfondite del combattimento umano nel quale la Chiesa è sempre impegnata nel corso dei secoli.

Integralismo tattico? Altro fondamentale errore di metodo! Combattere «gli avversari» con le stesse armi con le quali essi muovono all’assalto del cristianesimo. Ecco la tesi troppo semplicistica di questo integralismo frettoloso: ricorda la fretta degli apostoli quando erano con Gesù ed erano ancora inesperti del mistero profondo della redenzione e dell’amore.

Ed il rimprovero di Gesù è vivo ancora: non bisogna, per troppa fretta, estirpare il grano credendolo zizzania! La conquista apostolica ha metodi assolutamente originali, i metodi che Gesù ha usato, quelli che sull’esempio di Lui hanno usato ed usano i santi. […]

Niente fretta, dunque, e niente crociate affrettate: l’amore è paziente, è benigno, tutto crede, tutto spera: perdere oggi può essere la condizione essenziale per la conquista di domani!

Integralismo morale? Errore metodologico non meno pericoloso anche questo: è una forma di quietismo, di giansenismo: consiste in un ancoraggio pigro e accigliato allo scoglio della preghiera e della interiorità. […]

Ma un’orazione che si chiudesse in se stessa, che sdegnosamente chiudesse gli occhi alle «impurità» del mondo potrebbe davvero essere chiamata un frutto dell’amore? Costituirebbe una prova di amicizia? Avrebbe un palpito ed un significato di redenzione? San Paolo diceva: vorrei essere anatema pei miei fratelli!

Proprio in questa analisi acuta, puntuale e mai superata dell’integralismo, La Pira giungeva al punto culminante della sua riflessione. Essa esprimeva al meglio la sfida della laicità nella sua forma pre-conciliare o, forse, proto-conciliare. Il Concilio Vaticano II, aperto da papa Roncalli con uno spirito che, per più versi, poteva dirsi lapiriano, sviluppò poi un magistero che raccolse e valorizzò nel modo più compiuto tale sfida.

Conclusosi nel 1965 il Concilio, Vittorio Peri pubblicava, nel 1966, per l’editore Sales di Roma, il volume Laicato ministero apostolico, con una prefazione di padre Marie-Dominique Chenu, uno dei grandi teologi del Vaticano II. Il libro usciva nella Collana “Chiesa viva”, diretta da mons. Del Monte, nella quale erano già comparsi, oltre a due testi di autori vari (uno sulla spiritualità dei laici e uno sulla Lumen Gentium), un saggio dello stesso mons. Del Monte – La Chiesa Mistero di  Salvezza – e, soprattutto, uno di G. Philips (un altro grande teologo del Concilio) dal titolo Laicato adulto.

Il primo paragrafo del libro di Peri si intitolava L’ora dei laici. Quarant’anni dopo, nel Convegno della Chiesa italiana di Verona, nel 2006, il card. Tettamanzi affermava che era necessario accelerare l’ora dei laici. Evidentemente c’è qualcosa che si è inceppato o si è interrotto. Mi pare allora opportuno ritornare alla riflessione di Peri, perché – proprio alla luce dello stimolo del card. Tettamanzi – si può riconoscere in essa una fresca attualità.

La visione di Peri, come quella di La Pira, era cristocentrica. Si fondava su Gesù Cristo, il Messia, Dio incarnato, punto focale della storia, perché nella sua persona, le due nature – umana e divina – sono unite senza confusione e senza separazione: la differenza delle nature non è cioè soppressa dalla loro unione. In tal modo “In Cristo la divinità è stata partecipata all’uomo, nel rispetto straordinario e inconcepibile delle sue sostanziali strutture costituzionali: naturali, psicologiche, storiche” [19].

La riflessione di Peri, dunque, era in sintonia con il cristocentrismo lapiriano, ma lo sviluppava a sua volta per approfondire l’insegnamento del Concilio Vaticano II: della Costituzione Lumen Gentium e del decreto Apostolicam Actuositatem, correttamente riportato nella cornice della stessa Lumen Gentium. Ne derivava, pertanto, un approfondimento tanto originale quanto in profonda continuità, come già per La Pira, con la grande Tradizione della Chiesa.

In Cristo, affermava Peri, la salvezza dal peccato si realizza sia con un movimento dall’esterno sia con un movimento dall’interno. In Cristo, infatti, giungono all’uomo, limitato e decaduto, la santificazione e la salvezza, inattese ed insperabili, come dal di fuori, cioè non dalla natura umana corrotta ma dagli abissi trascendenti e insondabili della augustissima Trinità [20]. E del resto, in Cristo, Dio fatto uomo, le realtà umane, abbracciate e condivise da Gesù, sono state pure santificate come dall’interno: “Ogni realtà umana da lui condivisa – fosse una relazione di familiare parentela come un’appartenenza etnica e civica, un’attività professionale come un sentimento consueto – fu per ciò stesso santificata ed apparve santificabile. Degna di Dio, insomma: nel più vero e profondo senso del termine. Santificata e santificabile di fatto e spontaneamente. Quasi dal di dentro della stessa sua ristabilita autenticità e risanata natura, raddrizzata e fatta capace, nella fisica, storica, sostanziale comunione con Cristo, di accogliere ed assimilare la santificazione e la grazia nello Spirito stesso di santità di chi la faceva Sua” [21].

In questa visione, la Chiesa prolunga misteriosamente ma realmente nella storia Cristo vivente ed è, come lui, realtà umana e divina ad un tempo [22]. L’ecclesiologia misterica e teandrica di La Pira veniva, dunque, ripresa da Peri, il quale notava che, attraverso la Chiesa, lo Spirito Santo opera duplicemente, dall’interno e dall’esterno delle realtà da santificare [23]. Da questa ecclesiologia, saldamente impiantata nella cristologia calcedoniana, Peri derivava – ed è questa la cifra essenziale della sua riflessione – una originale accentuazione delle due forme di apostolato nella Chiesa, intese come due uffici (munera): quello dell’episcopato e quello del laicato. Di entrambi fonte e origine unitaria è Cristo; di entrambi il fine è la totale e completa ricapitolazione di ogni realtà in Cristo. È evidente che questo perfetto e armonico parallelismo eliminava alla radice, in modo preventivo e chiaro, ogni clericalismo e ogni svalutazione, subordinazione, emarginazione del laicato. Si aveva così, per parafrasare La Pira, una precisa architettura costituzionale cristiana del Popolo di Dio:

Salito al cielo, Gesù risorto confidò agli uomini che in Lui avevano e avrebbero creduto, fino alla fine dei secoli, fino cioè alla seconda e definitiva e gloriosa sua venuta, i propri poteri. Li confidò in due distinte forme, essenzialmente differenziate: o dall’esterno, trasmettendoli istituzionalmente, o dall’interno, lasciandoli all’umanità in quanto tale, come debita eredità che già con la Sua nascita e la Sua vita autenticamente umana, Egli, Verbo di Dio, aveva guadagnato, come appannaggio ormai suo proprio, all’umanità stessa. […] Mediante due apostolati, quello episcopale e quello laicale, entrambi in Lui ed attraverso di Lui, riconducibili, come ultima provenienza, al Padre. […]

Ogni ufficio (munus), per potersi efficacemente esercitare secondo il naturale regime della condizione umana, suppone dei poteri. Nella Chiesa, di conseguenza, ogni fedele deve umilmente sottostare, ovviamente nello scrupoloso rispetto dei modi propri, a due sorte di poteri, essenzialmente distinti ma parimenti autentici e con diversa modalità derivanti dall’unica loro fonte ed origine, Cristo. Sono: il potere gerarchico dei Pastori e quello, intrinsecamente ordinato su un diverso e peculiare modulo, dei laici. […]

Episcopato, laicato: ordini stabili ed indispensabili nella Chiesa. In mezzo al Popolo di Dio, costituendolo, essi sono destinati a due specie distinte di apostolato; godono rispettivamente di specifiche prerogative e ricoprono due uffici, distinti tra loro essenzialmente e non solo come grado; hanno propri e diversi diritti e doveri, dei quali diversamente rispondono in sedi diverse. Eppure tra loro e nello svolgimento stesso della duplice funzione ecclesiale, nella compagine di carità soprannaturale e visibile del Corpo di Cristo, è più che una coesistenza, più che una convivenza. V’è una reale unione e unità.[24]

In questa visione calcedoniana, dunque, distinzione e unità tra gerarchia e laicato erano derivate dalla distinzione delle due nature nell’unità di una sola persona in Cristo: dunque non laicismo che separa spirituale e temporale, clero e laicato; ma neppure integralismo che li confonde, rendendo di questo mondo il Regno di Dio [25]. Il binomio gerarchia-laicato, di marca pre-conciliare, veniva non sostituito ma sviluppato e ricompreso nel binomio ministeri-comunione: la distinzione, per dir così, ‘orizzontale’ tra un livello inferiore del laicato e un livello superiore dell’episcopato era non cancellata ma riorientata nella distinzione ‘verticale’ tra due ministeri o uffici paralleli, entrambi sorgenti dalla comunione-comunità.

In questa prospettiva, ogni vescovo, attraverso il triplice mandato di santificare, insegnare e governare, comunica al mondo, attraverso i sacramenti, l’invisibile e inaccessibile Signore: un annuncio ed una salvezza che provengono dall’alto, come dal di fuori. Il collegio episcopale è così pure radice visibile dell’unità della Chiesa. Il laicato invece, fermento d’unità dell’intero mondo redento, è chiamato a contribuire, quasi dall’interno, alla santificazione delle realtà temporali.

Nella Chiesa, il laicato obbedisce all’autorità dei Vescovi. Quando si tratta di realtà temporali, sono i Vescovi che devono ascoltare i laici. I laici, in questo senso, hanno un preciso diritto e, se sono uniti a Cristo, una vera autorità: “Il diritto, insomma, se sanno che una cosa si muove nel mondo – fosse pure la terra stessa! – di affermarlo con voce franca, leale, responsabile, senza essere indotti a mormorarlo delusi tra sé e sé, in un clima di diffidenza, di freddezza o di ostilità. Questa autorità, autonoma e valida nella conoscenza oggettiva dei singoli ambiti di verità e nell’uso d’ogni realtà terrena conforme alle sue leggi interne, può assurgere per il laico a vera autorità ecclesiale, solo in ragione della sua vitale e sostanziale comunione con Cristo” [26].

Più sottilmente, Peri osservava la necessità di “due obbedienze”, alla confluenza delle quali si trova l’autorità del laico: l’obbedienza docile ai vescovi e l’obbedienza al bene che c’è nel mondo, cioè la capacità e lo sforzo di cercare e di accogliere ogni valore positivo ritrovato in tutta la completa estensione delle realtà temporali. Modello per il laico è così la vita di Gesù a Nazareth: “Per trent’anni a Nazareth, in una crescita discreta e faticosa come ogni crescita dell’uomo, il Salvatore obbedì ai genitori, alle circostanze storiche, alle convenienze sociali, alle leggi esigenti del lavoro e a quelle distensive del riposo meritato. Obbedì agli uomini e alle cose. Nel farlo, ricorda l’Evangelista, già perfettamente obbediva a Dio, suo Padre. Così, analogamente, si potrebbe dire nella Chiesa dei laici. […] Insegnano a tutti, anche ai preti impazienti, a fare la coda davanti agli sportelli dell’anagrafe umana. È la loro autorità, la specifica potestà, di cui godono nell’ordinata compagine ecclesiale. Sicché forse potrebbe descriversi il loro, come un ministero ecclesiale necessario e permanente” [27]. Ecco appunto la tesi di Peri: laicato ministero apostolico.

Attraverso tale ministero, la Chiesa offre il servizio dell’obbedienza alla natura, alle verità del bene creato, alle positive esigenze di crescita degli uomini e delle cose: “È un servizio permanente, indispensabile e costituzionale nella Chiesa e della Chiesa” [28]. E come vi è un sacerdozio comune a tutti i battezzati e un sacerdozio sacramentale e gerarchico che culmina nell’episcopato, vi è pure – secondo Peri – una secolarità comune a tutti i battezzati e una secolarità sacramentale che è propria del laicato e che è data dal sacramento del matrimonio, del quale i laici sposi sono ministri e nel quale ricevono una particolare grazia di stato: “Come il privilegiato commercio sacramentale con le realtà divine dispone i membri dell’Ordine Sacro ad una più penetrante intelligenza e ad una più autorizzata amministrazione di tali realtà per il bene di tutta la Chiesa, analogamente, potrebbe pensarsi che l’evidente e sacramentale commercio con le realtà secolari redente da Cristo costituisca i laici sposati nel grado più elevato e specifico del ministero laicale, rivolto ancora al bene di tutta la comunità ecclesiale” [29].

Il profilo ecclesiologico che Peri raccoglieva dal Concilio era dunque chiaro: una complementarietà, un’armonica reciproca compensazione, una simmetrica corrispondenza tra ministero apostolico episcopale e ministero apostolico laicale. Se il rinnovamento post-conciliare aveva creativamente sviluppato forme nuove – come il Sinodo mondiale dei Vescovi – per un più pieno e fecondo esercizio della collegialità episcopale, Peri sperava che uno sforzo creativo altrettanto serio e profondo stesse per essere dedicato al laicato e perciò auspicava “nuove strutture istituzionali per il laicato, capaci di collocarsi, con funzione autonoma e dignità ecclesialmente qualificata, accanto a quelle di natura più propriamente ecclesiastica già esistenti e meglio sviluppate” [30].

In conclusione si può forse affermare che l’auspicio formulato da Peri, ormai più di quarant’anni fa, resta ancora valido e attuale: perché valido, attuale e assolutamente necessario resta il magistero del Concilio Vaticano II. Ed è proprio la continuità profonda con la grande Tradizione della Chiesa – secondo quanto mostrano il pensiero e l’azione di uomini come La Pira, che hanno preparato il Concilio, e come Peri, che hanno accolto con spirito di intelligenza il magistero conciliare – a costituire il saldo ancoraggio cristologico, ecclesiologico e pastorale per quella ‘sfida della laicità’ che è sempre più davanti a noi e che dobbiamo raccogliere [31].

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[1] Sulla giovinezza di La Pira cfr. almeno G. Miligi, Gli anni messinesi e “le parole di vita” di Giorgio La Pira, Messina, Intilla, 1995; R. Meridiani, La Pira giovane. Itinerario storico e spirituale fino alla pubblicazione di “Principi” 81904-1939), Firenze, Cultura nuova, 1990; P.D. Giovannoni, La Pira e la civiltà cristiana tra fascismo e democrazia (1922-1944), Brescia, Morcelliana, 2008. Per un agile, ma rigoroso, profilo biografico cfr. M. De Giuseppe, Giorgio La Pira. Un sindaco e le vie della pace, Milano, Centro Ambrosiano, 2001. Cfr. infine, per un aggiornamento degli studi: P.A. Carnemolla, Rassegna degli studi su Giorgio La Pira (1999-2007), in  C. Vigna – E. Zambruno (a cura di), Giorgio La Pira. Un San Francesco nel Novecento, Roma, Ave, 2008, pp. 311-369.

[2] Su questo tema sto da tempo lavorando. Dopo contributi parziali, spero di poter organare un lavoro complessivo.

[3] Cfr. F. De Giorgi, Linguaggi totalitari e retorica dell’intransigenza: Chiesa, metafora militare e strategie educative, in L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, Brescia, La Scuola, 2003, pp. 55-103. Per un’eco di questo lessico nel La Pira di “Pincipi” (ma ciò continuò anche oltre) cfr. M. Toschi, Giorgio La Pira e il volto della pace, Firenze, Associazione Don Giulio Facibeni, 2007, pp. 10-13.

[4] Cfr. V. Peri, La Pira Lazzati Dossetti. Nel silenzio la speranza, Roma, Studium, 1998.

[5] Cfr. L. Paggi, Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in “Parole chiave”, 12, (1996), pp. 74-107.

[6] Cfr. F. De Giorgi, Laicità europea. Processi storici, categorie, ambiti, Brescia, Morcelliana, 2007.

[7] Cfr. V. Peri, Giorgio La Pira. Spazi storici frontiere evangeliche, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2008.

[8] Cfr. P.A. Carnemolla, Giorgio La Pira missionario francescano della Regalità di Cristo, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 2-3 (2003-2004), 2-3, pp. 9-25; M. Badalamenti, Sei lettere inedite di Agostino Gemelli a Giorgio La Pira, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 5 (2006), 5, pp. 119-146; P.A. Carnemolla, Giorgio La Pira ed Ezio Franceschini missionari della Regalità di Cristo, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 6 (2007), 1, pp. 45-96.

[9] Cfr. V. Peri, I fondamenti teologali della santità dei laici: Giorgio La Pira, tra speranza storica e carità politica, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 2-3 (2003-2004), 2-3, pp. 27-56.

[10] Cfr. Peri, La Pira Lazzati Dossetti. Nel silenzio la speranza, cit.

[11] Per quanto riguarda questo rapporto negli anni dell’immediato secondo dopoguerra (che sono quelli dello scritto che si prenderà in considerazione) cfr. J.-D. Durand, Giorgio La Pira – Jacques Maritain: dialogo per un’Europa cristiana (giugno-luglio 1946), in “Studium”, (2001), 6, pp. 893-912.

[12] Si può fare riferimento alla ristampa anastatica di “Cronache Sociali”, recentemente curata da Alberto Melloni.

[13] L’unico studio, finora, su questo testo di La Pira è: P.A. Carnemolla, Due ecclesiologie a confronto. La Pira e la Pastorale del Card. Suhard, in Aa. Vv., Amicitiae causa. Scritti in onore del Vescovo Alfredo M. Garsia, S. Cataldo Caltanissetta, Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata”, 1999, pp. 327-355. Più in generale cfr. P.L. Ballini (a cura di), Giorgio La Pira e la Francia. Temi e percorsi di ricerca da Maritain a De Gaulle, Firenze, Giunti, 2005.

[14] È stato giustamente osservato: “il tomismo di La Pira è ‘militante’ e politico, nel senso che del pensiero dell’Aquinate è colto in modo privilegiato, sebbene non esclusivo, il versante antropologico, pratico ed etico-politico, più che quello metafisico-gnoseologico: la dottrina della persona e della società, del diritto e della legge, del bene comune, della proprietà, del fine della Società e dello Stato, della guerra e della pace, ecc.” (V. Possenti, La Pira tra storia e profezia. Con Tommaso maestro, Genova-Milano, Marietti, 2004, p. 27).

[15] Cfr. C. Vigna, La Pira tomista, in  Vigna – Zambruno (a cura di), Giorgio La Pira. Un San Francesco nel Novecento, cit., pp. 289-308.

[16] Si veda l’introduzione di La Pira a L. Frassati, L’impegno sociale e politico di Pier Giorgio, Roma, Ave, 1953: ripubblicata in “La Badia”, (1990), 11, pp. 65-71.

[17] Sulla spiritualità di La Pira cfr. almeno V. Possenti (a cura di), Nostalgia dell’altro. La spiritualità di Giorgio La Pira, Genova-Milano, Marietti, 2005.

[18] Cfr. M. Badalamenti, Giorgio La Pira araldo francescano del Gran Re, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 5 (2006), 5, pp. 41-69.

[19] V. Peri, Laicato ministero apostolico, Roma, Sales, 1966, p. 27.

[20] Ibid., p. 29

[21] Ibid., p. 25.

[22] Ibid., pp. 31-32, 36.

[23] Ibid., p. 34.

[24] Ibid., pp. 39-41.

[25] Ibid., pp. 137-147.

[26] Ibid., p. 58.

[27] Ibid., pp. 62-63.

[28] Ibid., p. 69.

[29] Ibid., p. 133.

[30] Ibid., p. 152.

[31] Per qualche spunto, in questo senso, mi permetto di rimandare al mio saggio: Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano, Milano, Paoline, 2008.

 di Antonio Magliulo (Università Luspio di Roma)

Per molti anni ci siamo accontentati della definizione minimalista di Winston Churchill: la democrazia è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre finora sperimentate.

Oggi non ci basta più sapere che non esistono alternative migliori. La democrazia aveva promesso libertà ed eguaglianza per tutti, un’eguale libertà, e non sembra mantenere la promessa fatta. Crescono il disagio e la disaffezione e si teme una progressiva degenerazione.

Negli ultimi tempi sono apparsi molti volumi – scritti da filosofi, giuristi, economisti, politologi – che propongono ricette per rivitalizzare la democrazia. L’ultimo in ordine di tempo, ma non certo di importanza, è quello di Paolo Flores d’Arcais: Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta (add editore, Torino, 2012).

La democrazia – secondo Flores (nella foto sotto) – è una forma di governo che dovrebbe garantire a-tutti-e-ciascuno la libertà di perseguire la propria felicità con l’unico limite di non ostacolare quella di altri: “Tutti devono poter egualmente perseguire la propria felicità, nel lavoro, nel sesso, nella cultura, nello svago, nell’azione politica, ciascuno a proprio modo e sovranamente (purché non impedisca analogo diritto del con-cittadino)” (p. 130).

Ma come è possibile garantire a-tutti-e-ciascuno la libertà di perseguire la propria felicità? La condizione minima è che valga un duplice e correlato principio: “una testa, un voto” e “un voto, una testa”. L’essenza della democrazia è l’autonomia (autos nomos) della decisione umana. Ognuno dovrebbe poter essere libero di decidere solo con la propria testa, senza ulteriori condizionamenti esterni, e ogni testa dovrebbe valere un voto.

Il duplice principio sarebbe pienamente rispettato soltanto in una (ideale) democrazia diretta in cui tutti partecipano alle deliberazioni collettive e ogni decisione è assunta all’unanimità. Se, infatti, qualcuno fosse escluso dal processo deliberativo o le decisioni fossero prese a maggioranza, allora la libertà dei vincitori potrebbe ostacolare o schiacciare la libertà dei vinti e degli esclusi.

La (reale) democrazia moderna è però, e non può che essere, rappresentativa e maggioritaria. La sovranità del popolo si esercita delegando ad alcuni il potere di assumere le deliberazioni collettive e le decisioni sono assunte a maggioranza. Il problema fondamentale della democrazia moderna è impedire la tirannide della maggioranza tutelando ancora il diritto individuale alla felicità.

Una soluzione classica è il “costituzionalismo giusnaturalistico”: la costituzione fissa gli inviolabili “diritti naturali” dell’uomo e l’ordinamento positivo si adegua. Nessuna maggioranza può violare il patto fondativo di una comunità. Flores (nella foto sotto) respinge la soluzione giusnaturalistica: il concetto di diritto naturale rinvia infatti, inevitabilmente, a quello di una eterna e immutabile natura umana. Ma chi decide cos’è conforme alla natura umana? E’ sempre e solo una comunità di uomini.

La soluzione di Flores è una sorta di “costituzionalismo positivista”. La Costituzione dovrebbe riconoscere il diritto individuale a perseguire la propria felicità e stabilire le condizioni minime necessarie per tutelare quel diritto.

La condizione essenziale è che valga il duplice principio “una testa, un voto” e “un voto, una testa”. E ciò richiede che siano eliminati una serie di condizionamenti esterni che trasformano l’originaria sovranità del popolo in tante decisioni eterodirette. Ciascuno dovrebbe poter essere libero di decidere con la propria testa e ogni testa dovrebbe valere un voto. Ma quando c’è violenza, corruzione, menzogna, fame, sfruttamento, gli uomini non sono più liberi di decidere autonomamente. Eliminare quei condizionamenti  equivale a riconoscere altrettanti diritti, funzionali all’esclusivo diritto a ricercare la propria felicità: il diritto alla sicurezza, alla legalità, ad una corretta informazione, al lavoro e all’assistenza. Tra i condizionamenti da eliminare, secondo Flores, c’è Dio (o la religione o la Chiesa): l’uomo non sarà mai pienamente libero finché dovrà tener conto del giudizio divino. Nell’agorà non c’è posto per Dio (o per i suoi interpreti). Il confronto è tra uomini, ciascuno con la propria ragione. Dio è compatibile con la democrazia solo se i cristiani (o gli uomini di fede) rinunciano a stabilire ogni collegamento tra fede e ragione e si presentano nel foro della democrazia con la sola ratio. Scrive Flores: “Dio è compatibile con la democrazia esclusivamente a tassative condizioni: che nessuna testa, meno che mai se gerarchica di una fede, promuova una posizione politica su qualsivoglia tema sventolando in vista del voto Dio come argomento, anziché autolimitarsi alla trattazione razionale che – sola – può entrare in dia-logos con il con-cittadino. E che ogni fedele interiorizzi come riflesso condizionato e vero e proprio istinto civico questa esclusione di Dio nella sfera pubblica, e mai incorra nella tentazione che le «ragioni» del suo cuore devoto – che la ragione comune non può conoscere e deve anzi disconoscere – concorrano a diventare legge per chi ha un cuore diverso” (p. 79).

Anche la costituzione è scritta da uomini, esseri limitati e fallibili. La democrazia – continua Flores – è dunque infondabile, può perseguire fini diversi. L’unico ancoraggio è un principio di coerenza. Se la costituzione, suprema legge dello Stato, riconosce e tutela il diritto individuale a ricercare la propria felicità, allora la politica e la stessa etica pubblica devono perseguire quello stesso fine. La politica dovrebbe assumere decisioni concrete per eliminare o ridurre i condizionamenti esterni che limitano la libertà individuale tutelando corrispondenti diritti: alla sicurezza, informazione… L’etica pubblica dovrebbe sanzionare ogni atteggiamento o comportamento lesivo della libertà di tutti-e-di-ciascuno. Nella democrazia della felicità: “chi vuole divorzia, chi non vuole no, chi vuole abortisce, chi non vuole no, chi vuole accede al suicidio assistito, chi non vuole no, e ciascuno è libero di vivere il sesso come eterosessualità o omosessualità, fedeltà o promiscuità, e addirittura nell’astinenza del chiostro di clausura” (127-28).

Nella città ideale di Flores ogni uomo cerca per conto proprio la via che conduce alla felicità. Ne esistono tante e tutte sono buone. L’unico divieto è di non intralciare la via di altri.

Il libro chiarisce, con semplicità e profondità, molti aspetti dell’attuale crisi o disagio della democrazia e delinea una prospettiva coraggiosa e per molti aspetti condivisibile. La democrazia vera o piena o compiuta è formale e sostanziale: è un governo del popolo e per il popolo. Un governo che agisse in nome del popolo, rispettando soltanto formalmente le regole procedurali, violerebbe lo scopo, l’essenza, della democrazia finendo per agire contro il popolo. La democrazia vive se ha un ethos, se l’opinione pubblica condivide e sostiene lo sforzo di tutti di garantire a ciascuno il diritto a ricercare la felicità. Nell’agorà il confronto non può che avvenire tra uomini dotati di ragione. Nessuno può nominare il nome di Dio invano. Nessuno può difendere una decisione con l’argomento: “Dio lo vuole”.

Mi permetto tuttavia di dissentire su due aspetti essenziali entrambi connessi all’idea di ragione.

Primo, la ragione umana è sempre ancorata ad una particolare filosofia o weltanschauung. Flores adotta e applica una concezione razionalistica della ragione che considera ragionevole/razionale solo ciò che è scientificamente verificabile o confutabile. Flores auspica anzi un illuminismo di massa proprio per diffondere quell’idea di ragione. Ma il razionalismo è stato criticato da molti, per esempio dall’agnostico Hayek, che considera una “presunzione fatale” la pretesa di considerare ragionevole/razionale solo ciò che è scientificamente verificabile o confutabile. Non si capisce perché Flores sia libero di esplicitare e adottare la propria ragione illuministica e altri non dovrebbero essere liberi di esplicitare e applicare la loro ragione. Il confronto non può che avvenire sul piano della ragione umana. Ma non esiste soltanto la ragione illuministica e il confronto tra uomini sarebbe tanto più trasparente quanto più ciascuno potesse esplicitare l’origine e la matrice della propria ragione.

Secondo, la ragione, per sua natura, è sempre protesa a cercare ciò che è bene (e male) per l’uomo, ciò che lo rende felice. E dunque, inevitabilmente, e talvolta inavvertitamente, torna a riflettere su ciò che è conforme alla “natura umana”. Applichiamo pure il principio (milliano) della libertà individuale limitata soltanto dall’altrui libertà. Perché impedire ad un ragazzo di suicidarsi? Eppure chiunque, dotato ancora di un briciolo di ragione (e sensibilità) umane, cercherebbe di dissuadere un ragazzo (anche se fosse solo al mondo) a togliersi la vita. Perché? Perché non dovremmo considerare quell’atto una libera decisione individuale che non intralcia la via alla felicità di altri? Perché contrastiamo la droga, l’alcool o il fumo? Perché ci costringiamo, vicendevolmente, a metterci la cintura di sicurezza in auto o ci obblighiamo a mandare i figli a scuola? La risposta è che vi sono cose o servizi che sono beni (gli economisti li chiamano “meritori”) anche se gli individui non lo sanno o non se ne accorgono. Sono “oggettivamente” beni.

Nella città reale gli uomini sembrano non aver rinunciato a cercare insieme la via migliore che conduce alla felicità e a distinguere ciò che va nella giusta direzione.

Per rivitalizzare la democrazia occorre innanzitutto prendere coscienza del suo momento di difficoltà, se non di vera e propria crisi. E poi agire, per mantenere, per quanto è umanamente possibile, l’originaria promessa di un’eguale libertà.

Giorgio La Pira ha scritto pagine illuminanti, che hanno ispirato fondamentali articoli della Carta costituzionale, sul rapporto tra natura e libertà e tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Pagine da rileggere in questo tempo di crisi e disagio della democrazia moderna.


Prof. Antonio Magliulo (Università Luspio di Roma)

Convegno di Studio

L’attualità di Giorgio La Pira

uomo, politico e cristiano

13 Aprile 2012 – ore 15

Basilica di San Gennaro extra Moenia

(interno Ospedale San Gennaro – via San Gennaro dei Poveri n. 25, Napoli)

PROGRAMMA

 

 

Rione Santità, memoria e profezia

Don Antonio Loffredo

Parroco del Rione Sanità (Napoli)

 

Giorgio La Pira, una testimonianza autentica di vita cristiana

Prof. Ulderico Parente

Storico, autore della “positio” per la causa di beatificazione di La Pira

 

La Pira, il politico

On. David Maria Sassoli

Europarlamentare

 

La Pira, il costruttore di pace

Prof. Pasquale Colella

Direttore de “Il Tetto”, collaboratore di La Pira dal 1951

 

Le problematiche economiche ieri e oggi: la vocazione di un “santo”

Prof. Marco Vitale

Economista d’impresa di ispirazione cristiana, scrittore, opinionista

Dott. Carlo Borgomeo

Economista, Presidente della Fondazione con il Sud

 

Il valore delle città

Prof. Mario Primicerio

Presidente della Fondazione Giorgio La Pira, già sindaco di Firenze e allievo di La Pira

Conclusioni

Dott. Luigi De Magistris

Sindaco di Napoli

S.E. Crescenzio Sepe

Arcivescovo della Diocesi di Napoli

Conduce il convegno il Prof. Marco Vitale

Dibattito

GOVERNO TECNICO, PARTITI E SOCIETÀ CIVILE

Giovedì 29 marzo 2012 ore 17

spazio QCR via Alfani 101 rosso

Politica e società: Sen. Vannino Chiti Vice presidente del Senato

Fondazione La Pira: Prof. Mario Primicerio

Fondazione Circolo Rosselli: Prof. Valdo Spini

 Modera: Marzio Fatucchi Il Corriere Fiorentino

Spazio QCR tel. 055-2658192 info@rosselli.org www.rosselli.org