5 Novembre 2014

Palazzo Vecchio

Salone dei Cinquecento

 

Giornata

“La questione lapiriana: la povertà oggi.

Dalla povertà allo sviluppo e all’eguaglianza”

Ore 10

Apertura della  Giornata con Saluti Istituzionali: Sindaco di Firenze

Presiede Mario Primicerio, Presidente della Fondazione Giorgio La Pira

Introduzione

Giulio Conticelli, Vice Presidente della Fondazione Giorgio La Pira

Ore 10.30

Romano Prodi

“L’Africa e i poveri: quale sviluppo?”

Ore 11

Giovanni Andrea Cornia (Università di Firenze)

“Sud America e Nord America tra nuove e vecchie povertà”

Ore 11.30

Elisabetta Basile (Università “La Sapienza” di Roma)

“La lotta alla povertà in India: la condizione femminile”

Ore 12

Marco Impagliazzo (Presidente della Comunità di Sant’Egidio – Università per Stranieri di Perugia)

I poveri nelle città dell’Europa: le nuove responsabilità”

Ore 12.30

Conclusioni dell’On. Lapo Pistelli

Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

Ore 13 Messaggio 2014 di San Procolo per i poveri

In collaborazione con:

Società Italiana Economisti dello Sviluppo

Comunità di Sant’Egidio

CARITAS della Toscana

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Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

Ore 15

Inaugurazione della Mostra

“La Pira, l’Europa dei popoli e il mondo: le pietre del dialogo”

in occasione della Presidenza Italiana dell’Unione Europea

 

in collaborazione con gli Archivi Storici dell’UE

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Ore 18

Basilica di San Marco

Santa Messa presieduta da Mons. Giancarlo Perego

Direttore Generale della Fondazione “Migrantes” – CEI

Don Gian Carlo Perego

Direttore generale Migrantes

Un cordiale saluto e un grazie al presidente della Fondazione Giorgio la Pira per avermi invitato, come direttore della Migrantes, a presiedere questa celebrazione eucaristica, nella memoria del servo di Dio Giorgio La Pira. La Parola di Dio quest’oggi è dura, indica provocatoriamente che la qualità dell’amore a Dio del discepolo supera la qualità dell’amore umano, familiare. Al tempo stesso, la Parola ci conforta con Paolo che il disegno d’amore di Dio è intelligente. In ogni discepolo del Signore noi incontriamo sempre amore e intelligenza, capacità di donare e discernimento camminare insieme. Anche in Giorgio La Pira. La Messa del povero, che noi ricordiamo ancora 80 anni dopo, ne è un esempio: l’amore a Dio, che l’Eucaristia alimenta, genera una nuova prossimità ai poveri, nuovi “colloqui con i poveri”, come scriveva nel 1941 l’amico Fanfani, ma anche una lettura intelligente della povertà, come farà La Pira nel 1951 con “L’attesa della povera gente”.

Eucaristia e attesa della povera gente

“Per quel vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri” – ricordato da Papa Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium (n.48) – alla messa arrivano le attese della povera gente, che ritrovano una “fraternità” realmente costruita dal Signore e che impegna ogni cristiano a non guardare altrove, a non passare oltre, ma a ritornare in città portando nel cuore le sofferenze dei poveri, ma anche il desiderio di una prossimità rinnovata. Come ricorda la costituzione conciliare sulla Liturgia, i fedeli sono chiamati a esercitare “tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, attraverso le quali si renda manifesto che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini” (n.9).

L’amore, la carità di Cristo – che è l’Eucaristia – genera una Chiesa capace di amare. Un amore che si rivolge all’interno e che fa della Chiesa una fraternità, un’agape, una comunione (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis n.15). Un amore e una carità di Cristo che dall’Eucaristia “forma” un’esistenza nuova del credente, aiutandolo a rileggere i momenti e le scelte della vita alla luce di Cristo (sacramenti), a ripensare il proprio stile di vita alla luce di alcuni valori (gratuità, pace, riconciliazione), a valorizzare il senso del limite (dolore, sofferenza e morte), a camminare sulle strade del mondo come portatori di una speranza e di una civiltà nuova. Un amore e una carità che dall’Eucaristia rende attenti i fedeli anche alle persone più deboli e in difficoltà. Gli infermi i carcerati, i migranti sono tre categorie di persone alle quali guardare con una preferenza nelle nostre comunità anche a partire dal dono dell’Eucaristia (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, nn.58-60). L’unione con Cristo che si realizza nel Sacramento ci abilita anche ad una novità di rapporti sociali: «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale», scriverà Benedetto XVI nell’enciclica Sacramentum caritatis (n.89).

Alla messa del povero di S. Procolo chi partecipava imparava come lotta alla povertà, alla disoccupazione erano i segni concreti di una Chiesa povera e dei poveri, ma anche di una “repubblica”, di una “democrazia” che nascevano dalla comunione eucaristica. La “repubblica di S. Procolo” – come amava chiamarla La Pira – era il segno di una Chiesa in comunione e in cammino come la Chiesa delle origini: il modello che negli stessi anni ispirava  cristiani e santi come don Saltini, don Monza, don Mazzolari, don Dossetti, don Prandi, don Torregiani, don Facibeni, don Barsotti, don Milani. I poveri – scriverà ne L’attesa della povera gente La Pira “sono il documento vivente, doloroso, di una iniquità nella quale si intesse l’organismo sociale che li genera: sono il segno inequivocabile di uno squilibrio tremendo – il più grave fra gli squilibri umani dopo quello del peccato – insito nelle strutture del sistema economico e sociale del paese che li tollera: essi sono la testimonianza della ulteriore sofferenza che gli uomini (i credenti) infliggono a Cristo medesimo (“lo avete fatto a me”)”.

La Messa del povero inaugurava una “comune” frutto della comunione con Dio, teologica e non anarchica. “Piccolo paradigma – scriverà La Pira – di cristianesimo sociale”, gioioso. La messa del povero è una rinnovata  “moltiplicazione dei pani”, dirà la Pira. E pensando alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, dobbiamo riconoscere che Cristo ancora oggi continua ad esortare i suoi discepoli ad impegnarsi in prima persona: “Date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16). Davvero la vocazione di ciascuno di noi è quella di essere, insieme a Gesù, pane spezzato per la vita del mondo (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n.88). Combattendo anche gli sprechi, come si ricorda nella moltiplicazione dei pani.

Eucaristia e Mediterraneo

Dalla Messa del povero l’attenzione agli ultimi, con i colloqui del Mediterraneo, attraverserà il Mare nostrum, per arrivare in Africa, nel Medio Oriente e raccogliere le attese della povera gente più lontana, ma anche per costruire cammini di pace e di giustizia, di cooperazione e di sviluppo. Dal “microcosmo fiorentino” l’attenzione agli ultimi arriverà al “macrocosmo dei popoli e delle nazioni”. Una forza provvidenziale che – scriverà La Pira a conclusione del Terzo colloquio del Mediterraneo, il 24 maggio 1961 – “insieme abbatte e costruisce: abbatte l’otre vecchio dei regimi coloniali, dei regimi razzisti, dei regimi oppressori, dei regimi di miseria ed edifica (anche se in mezzo a mille resistenze rallentatrici) l’otre nuovo destinato a contenere il vino nuovo della sostanziale eguaglianza e fraternità e libertà dei popoli: una eguaglianza ed una fraternità ed una libertà che traggono valore e saldezza da quella comune paternità divina che fa di tutti gli uomini, in maniera essenziale, i figli e i fratelli di una sola famiglia”Cosa direbbe oggi La Pira di fronte ai 150.000 siriani, eritrei, palestinesi, somali, ghanesi, nigeriani, e di altre nazionalità, 23.000 dei quali minori, 12.000 minori senza famiglia che hanno attraversato il Mediterraneo in fuga da guerre e dittature e sono arrivati prima sulle coste della Sicilia, anche sulle coste della sua Pozzallo – dove ieri sono sbarcati ancora 329 migranti, tra cui 74 minori, 26 donne, cinque delle quali in cinta – nei porti della Calabria, della Campania e della Puglia e poi nelle nostre città. Parlerebbe di “grazia” o di “disgrazia”? Inviterebbe a un supplemento di gratitudine eucaristica, di fraternità o ad alzare muri e chiudere le porte delle città? Cosa penserebbe guardando a un Mediterraneo che da “strada di dialogo”, “ponte tra Oriente ed Occidente” è diventato – per parafrasare il titolo di un’opera di Bernanos – “un cimitero sotto la luna”, con oltre 3000 morti nel 2014 e, Dio solo sa, quanti morti nel 2015 con l’indebolimento di un accompagnamento dei migranti in mare? Come Papa Francesco, La Pira ci ricorderebbe che questi nostri fratelli e queste nostre sorelle migranti sono “la carne di Cristo”.

Eucaristia e nuovo umanesimo

Dalla Messa del povero nasce un nuovo umanesimo, che guarda a ogni persona e pensa a una società  come “una casa di grazia e di pace – sono sempre parole di La Pira – ed ove c’è per tutti una dignità, un posto e un pane”. Un umanesimo che porta La Pira a salutare l’annuncio del Concilio dato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, come l’occasione, lo strumento per costruire l’unità e la pace del genere umano. Un umanesimo conciliare che La Pira sognava avesse una tappa celebrativa anche a Firenze, con una visita del Papa, dei vescovi e degli osservatori – anche ebraici e islamici -“a S. Maria del Fiore ed a S. Maria novella (ove è sepolto il Patriarca di Costantinopoli) in ricordo e quasi in collegamento col grande, drammatico e prefigurativo Concilio di Firenze” del 1439. A cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II, il sogno di La Pira potrà trovare in qualche modo la sua realizzazione nel Convegno che la Chiesa italiana celebrerà a Firenze, nel novembre 2015.

Conclusione: crescere nella condivisione

«Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica, e tuttavia una grande parte degli abitanti del globo è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria…» (G.S. 4) . Queste parole del Concilio Vaticano II ripresentano l’attualità della messa del povero: di luoghi eucaristici dove si celebra e s’impara la condivisione. “La fame di pane nel mondo – scriverà Padre Pedro Arrupe – sarà saziata solo quando l’uomo imparerà a vivere non esclusivamente per sé, ma anche per gli altri, come ha fatto Cristo. Sarà saziata solo quando la legge interiore dell’amore, e non semplicemente l’interesse personale, la cupidigia e l’ambizione, governerà la nostra esistenza individuale e collettiva, ispirerà la nostra politica e regolerà le nostre strutture e istituzioni sociali. La fame di pane nel mondo sarà saziata solo quando l’uomo imparerà ad aver fame di Dio: del suo amore e della sua giustizia” (P. Arrupe, Eucaristia e fami del mondo, Roma, ADP, 2001). “Quando tanti popoli hanno fame – ribadirà Paolo VI nella Populorum progressio – quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nella ignoranza, quando restano da costruire tante scuole, tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi”  (n.53). L’umanesimo cristiano che si nutre alla mensa eucaristica alimenta anche questo impegno di denuncia, come atto di amore all’uomo. E a distanza di 80 anni scopriamo come La Pira – con S. Paolo – non ha corso e faticato invano, ma ha aperto la strada: una strada sulla quale ciascuno di noi, sostenuti dal pane eucaristico, siamo chiamati a camminare, a correre, anche con fatica.

Emarginazione Sociale e Deprivazione in India

di Elisabetta Basile – Professore Ordinario di Economia dello sviluppo

Dipartimento di Economia e Diritto – Università di Roma “La Sapienza” – elisabetta.basile@uniroma1.it

In questo scritto analizzo l’emarginazione sociale e la deprivazione nell’India contemporanea. In particolare, esploro il collegamento fra i processi di emarginazione e lo stato di deprivazione nel paese e il modello di sviluppo che si è affermato dopo la liberalizzazione dell’economia (dagli anni 1980 in poi). Il mio obiettivo è duplice: i) illustrare la dimensione della deprivazione sulla base delle stime sul numero dei poveri e delle altre informazioni disponibili sugli standard di vita e ii) evidenziare i meccanismi che generano e perpetuano emarginazione e deprivazione, segnalando le categorie sociali particolarmente vulnerabili. La tesi che intendo sostenere è che, nonostante l’elevato tasso di crescita economica negli ultimi tre decenni, l’India non ha vinto la sua battaglia contro la povertà: molti strati della popolazione indiana sono esclusi dai progressi raggiunti sul fronte della crescita economica, mentre emarginazione e deprivazione si rafforzano reciprocamente.

Questo testo è organizzato come segue. Nel prossimo paragrafo presento e discuto le informazioni disponibili sulla dimensione della povertà in India. Mi soffermo in particolare sulle controverse stime prodotte dal Governo indiano che confronto con quelle della Banca Mondiale. Nel paragrafo 2 analizzo i collegamenti fra povertà ed emarginazione. Considero innanzitutto la natura multidimensionale della povertà per ragionare sulle caratteristiche personali e sociali che portano alla sistematica marginalizzazione di individui e gruppi. Nel paragrafo 3, ragiono sul modello di sviluppo capitalistico indiano con l’obiettivo di evidenziarne l’influenza sui processi all’origine dell’emarginazione e della deprivazione. Segnalo in particolare l’ampia diffusione di rapporti di impiego informali all’interno dei quali i lavoratori sono deprivati di qualunque forma di assistenza e di protezione sociale, e mi propongo di mostrare come l’informalizzazione dell’economia sia saldamente radicata nelle numerose forme di stratificazione sociale della società indiana che sono all’origine della discriminazione e dell’emarginazione.

  1. Quanti poveri ci sono in India?

La dimensione della povertà in India – in termini di quota di popolazione e di numero di persone in condizioni di deprivazione delle risorse necessarie al soddisfacimento dei bisogni di base – è questione molto controversa. La documentazione è abbondante ma le indicazioni che emergono non sono concordanti e, sebbene si osservi un generalizzato trend decrescente, non è possibile dire con certezza quale sia il numero dei poveri nei diversi anni, se la povertà sia diminuita con lo stesso ritmo e in tutti i periodi nell’India urbana e anche nell’India rurale e in tutti gli Stati indiani, e se, e in quale misura, la riduzione debba essere imputata alle spese pubbliche per sanità e istruzione, molto variabili nel territorio nazionale.

La Planning Commission è l’agenzia del Governo indiano preposta alla stima del numero dei poveri e periodicamente – di regola ogni 5 anni, ma talvolta con una frequenza maggiore – stima la dimensione della povertà sulla base dei dati sui consumi delle famiglie rilevati dalle indagini campionarie condotte dalla National Sample Survey Organisation (d’ora in poi NSSO), un’agenzia che fa capo al Ministero delle Statistiche del Governo indiano. Le stime della dimensione della povertà prodotte dalla Planning Commission dal 1973/4 mostrano una costante diminuzione della quota di popolazione in condizioni di povertà, dal 55% al 37,2% nel 2004/5 (Planning Commission, 2009: Tabella A, p. 17). Tuttavia, queste stime non sono sempre confrontabili per conseguenza dell’utilizzo di metodi diversi di elaborazione dei dati NSSO e per l’uso di linee della povertà costruite sulla base di criteri non omogenei [1].  Inoltre, le stime stesse sono oggetto di forte contestazione da parte degli studiosi e di ampi settori della società civile sulla base della diffusa convinzione che sottostimino il fenomeno al fine di diffondere l’immagine di un paese capace di associare la forte crescita dell’economia a un diffuso miglioramento delle condizioni di vita [2].

Il confronto è stato particolarmente aspro sulle stime costruite sui dati NSSO relativi al 2009/10 che indicano una forte riduzione della povertà: dal 37% della popolazione del 2004/5 al 30% per l’India nel complesso (con livelli del 21% nelle aree urbane e del 34% nelle aree rurali) (Planning Commission, 2012). Questo risultato ha generato due tipi di critiche. La prima, sollevata frequentemente e di carattere molto generale, si riferisce alla scarsa comparabilità delle diverse indagini campionarie della NSSO e alla loro idoneità per l’analisi della povertà (Ghosal, 2012; Abhijit Sen and Himanshu, 2003; Himanshu, 2012), mentre la seconda, di natura molto puntuale, riguarda la linea della povertà. A essere contestato è il metodo di stima messo a punto dalla Commissione Tendulkar (dal nome del coordinatore del gruppo di esperti) incaricata dal Governo nel 2005 di predisporre nuove metodologie per l’analisi della povertà sulla base dei dati NSSO.

Le stime prodotte con il metodo Tendulkar sono condotte sulla base di linee della povertà ampiamente considerate non idonee ad assicurare un livello di consumo mensile pro capite in grado di garantire la sopravvivenza: 579 Rupie nell’India rurale (circa 9 US$ di oggi) e 860 Rupie nell’India urbana (circa 14 US$ di oggi) (Planning Commission, 2014: tabella B1, p. 28). Grazie all’uso di queste linee della povertà, le stime evidenziano forti progressi, soprattutto nelle aree urbane, e forniscono un’immagine molto distorta del paese, che non tiene conto del cambiamento nei modelli di consumo e negli stili di vita e, anche, nelle aspirazioni delle persone. I principali problemi sono costituiti dalla sotto-stima del peso delle spese delle famiglie per beni e servizi non legati all’alimentazione – ad esempio per salute, istruzione, trasporti – e dalla mancata considerazione dei cambiamenti nella dieta alimentare dovuta alla riduzione del peso degli alimenti a forte contenuto calorico in favore di alimenti a maggiore contenuto proteico [3], cambiamenti sostanzialmente imputabili alla crescita del reddito del paese nel suo complesso.

Per far fronte alle critiche ricevute – e in parte anche a causa della ridotta rappresentatività del 2009/10, anno di forte siccità – il Governo indiano decide di ripetere l’indagine sulla povertà nel 2011/12, incaricando un nuovo gruppo di esperti (Commissione Rangarajan) di mettere a punto nuovi metodi di stima della povertà. Le nuove stime – presentate nel giugno del 2014 – tengono conto dei cambiamenti nelle diete e negli stili di vita, definendo nuove tabelle di consumo calorico e aggiornando il paniere dei beni necessari alla sussistenza.

Con il metodo Rangarajan, l’India si scopre più povera. Le nuove stime hanno come riferimento linee di povertà più alte – rispettivamente 972 Rupie mensili per l’India rurale e 1407 Rupie mensili per l’India urbana – e danno luogo a stime più alte della dimensione della povertà: 29% della popolazione totale nel 2011/12 (31% India rurale e 26% India urbana) [4].  Analogamente, con il metodo Rangarajan applicato ai dati NSSO del 2009/10 si ottengono stime più alte per l’India nel suo complesso, l’India rurale e l’India urbana: rispettivamente 38%, 40% e 35% (Planning Commission, 2014: Tabelle 4.4, 4.5, e 4.6, pp. 66-68).

Come si vede, vi è quindi una sostanziale incertezza sulla dimensione reale della povertà in India che deriva dall’uso di metodologie alternative di analisi del fenomeno, le quali generano stime nettamente diverse. La revisione dei metodi di stima è necessaria perché lo stato di povero è condizionato dal cambiamento dell’economia e dai progressi di ogni società in termini di disponibilità di beni e servizi per la vita civile [5].  Tuttavia, come mostra l’intenso dibattito sulla povertà in India, la revisione dei criteri di stima è anche un processo fortemente condizionato dagli interessi politici perché un’alta dimensione della povertà è indubbiamente un elemento che entra con un segno pesantemente negativo nelle valutazioni sulla performance economica di un paese, in particolare per paesi a forte crescita come l’India. Ciò suggerisce una forte prudenza nell’analisi delle stime del Governo indiano.

Si aggiunga anche che l’incertezza sul numero dei poveri in India non è risolta neppure se si considerano le stime della Banca Mondiale [6].  Utilizzando la linea internazionale della povertà a 1,25 $, corrispondenti a 38 $ PPP mensili, sui dati NSSO relativi al 2009/10, la Banca Mondiale conta un numero di poveri pari al 33% della popolazione indiana, di cui il 34% nell’India rurale e il 29% nell’India urbana [7],  un livello intermedio dunque fra le stime prodotte dal Governo indiano con i due metodi Tendulkar e Rangarajan.

Malgrado non sciolga i dubbi su quanti poveri ci siano in India, l’analisi della Banca Mondiale è comunque molto utile perché ci aiuta a contestualizzare il fenomeno della povertà nel paese all’interno dei trend mondiali. Come le stime del Governo, anche le stime della Banca Mondiale testimoniano che la povertà si è molto ridotta in India, passando dal 66% della popolazione nel 1977, al 42% nel 2004/5, al 33% del 2009/2010. Tuttavia, i progressi compiuti dall’India nella lotta contro la povertà appaiono molto limitati se confrontati con i progressi di altri paesi in via di sviluppo ed emergenti, e in particolare con la maggior parte dei paesi asiatici, sia grandi (come la Cina) sia piccoli (Olinto et al., 2013).

Sebbene il numero dei poveri nel mondo si sia ridotto di oltre 700.000 unità negli ultimi tre decenni, la povertà continua ad essere un fenomeno di notevole gravità e oltre un miliardo e 200 milioni di persone nel mondo vivono ancora in condizioni di povertà assoluta (con meno di 1,25 $ al giorno). Il contributo maggiore alla riduzione è stato dato dalla Cina, che è passata da 835 milioni di poveri nel 1981 (pari al 43% dei poveri totali) a 155 milioni di poveri nel 2010 (13%). Al contrario della Cina, in India il numero dei poveri si è ridotto solo di 34 milioni di unità, e nel paese è localizzato il 33% della povertà totale (contro il 22% del 1981). In questo senso, il peso relativo dell’India in termini di povertà è cresciuto ed è oggi comparabile a quello dell’Africa Sub-Sahariana, in cui abita il 34% dei poveri del mondo.

Va inoltre sottolineato inoltre che, sebbene la linea della povertà utilizzata dalla Banca Mondiale sia nettamente superiore a quelle utilizzate dal Governo indiano fino al 2009/10, la soglia di 1,25 $ al giorno consente solo di contare i poveri estremi poiché corrisponde a un livello di consumo appena sufficiente ad assicurare la sussistenza, come peraltro la stessa Banca Mondiale ripetutamente afferma. Al contrario, una linea della povertà più alta a 2 $ al giorno consente di individuare l’insieme delle persone che si trovano in condizioni di forte deprivazione, anche se non a rischio immediato di sopravvivenza. Ebbene, se si misura la dimensione della povertà relativa in India per mezzo di una linea della povertà a 2 $ al giorno – che corrisponde a 60 $ al mese – si può vedere che la quota percentuale dei poveri sul totale della popolazione indiana è passata da 89% nel 1977 a 68% nel 2010. Anche in questo caso la diminuzione è certamente rilevante, ma la dimensione della deprivazione – pari a circa i due terzi del paese – appare ancora un fenomeno molto, molto preoccupante.

  1. Povertà e disuguaglianza

Finora ci siamo occupati di povertà definita sui livelli di reddito e di consumo. Questo tipo di povertà è certamente importante, poiché la mancanza di reddito concorre a spiegare l’esclusione dall’accesso a molti beni e servizi necessari per una vita dignitosa. Ma la povertà economica è solo una delle dimensioni della povertà, e si può essere poveri – ossia esclusi dalla possibilità di avere una vita dignitosa – per cause non direttamente collegate alla mancanza di reddito, ad esempio per conseguenza della cattiva salute, della mancanza di istruzione, della mancanza di potere contrattuale, della bassa qualità del lavoro, della minaccia di violenza. La povertà è cioè un fenomeno multidimensionale, che non si esaurisce nella mancanza di reddito o in un livello basso di consumo ma può essere determinata dalle caratteristiche personali o da quelle del contesto in cui gli individui vivono e lavorano.

L’osservazione che lo stato di povero è il risultato di molteplici forme di deprivazione è alla base del metodo di analisi e di misurazione della povertà multidimensionale sviluppato da Sabine Alkyre nell’ambito della Oxford Poverty & Human Development Initiative (www.ophi.org.uk) [8].  L’applicazione del metodo Alkyre all’India – come è stato fatto nello studio condotto da Alkyre e Seth (2013) – ci serve per completare l’immagine che abbiamo fin qui composto, fornendo indicazioni importanti sulle principali dimensioni della povertà e sui gruppi sociali ad alto rischio di deprivazione.

Lo studio – che si riferisce al periodo 1999-2006 – dimostra che l’India ha fatto progressi anche nella riduzione della povertà multidimensionale, sebbene in questo campo i progressi siano stati minori di quelli registrati nel caso della povertà di reddito e i poveri continuino a subire molte forme di deprivazione che spesso si sovrappongono. Lo studio dimostra anche che la riduzione della povertà multidimensionale è largamente imputabile all’intervento pubblico nelle infrastrutture – strutture abitative e di igiene, elettricità, acqua potabile – e che l’impatto di questi interventi non è stato uniforme per gruppi sociali e individui, con la duplice conseguenza che i più poveri fra i poveri risultano sistematicamente discriminati e il divario fra gruppi sociali cresce anche in una prospettiva di povertà multidimensionale.

Un’analisi puntuale della riduzione della povertà multidimensionale evidenzia che, nonostante vi sia stata una riduzione della povertà multidimensionale sia nelle aree urbane sia nelle aree rurali, la distanza fra i due tipi di aree continua a essere maggiore in termini di povertà multidimensionale piuttosto che in termini di povertà di reddito. Allo stesso modo, non tutti gli Stati registrano gli stessi progressi. Così, mentre la povertà multidimensionale si riduce in tutti gli Stati eccetto che in Aruchanal Pradesh, gli Stati meno poveri hanno sistematicamente ridotto la povertà multidimensionale di più degli Stati più poveri, i quali hanno registrato di regola una riduzione inferiore alla media nazionale. Infine, la riduzione della povertà multidimensionale ha inciso a livelli diversi sui diversi gruppi castali e religiosi e sui diversi tipi di famiglia. Tra i gruppi castali, il gruppo che ha ridotto di meno la povertà multidimensionale è costituito dalle popolazioni tribali (le cosiddette Tribù schedate), le quali vedono aumentare il gap con gli altri gruppi, mentre i gruppi dei fuori casta (i Dalit, ossia le cosiddette Caste schedate) registrano una performance relativamente migliore. Tra i gruppi religiosi, gli Indù e i Sikh registrano una riduzione della povertà multidimensionale molto più significativa dei Cristiani, mentre i Musulmani mostrano una tendenza al peggioramento delle condizioni di vita. Infine, l’analisi riferita alle caratteristiche delle famiglie dimostra che, come era lecito immaginare, la riduzione della povertà multidimensionale è maggiore nelle famiglie che hanno un uomo (e non una donna) come capofamiglia ed è positivamente correlata con il livello di istruzione dei membri della famiglia e inversamente correlata con la dimensione della famiglia. È in queste unità familiari fragili – per le caratteristiche dei membri che le compongono – che sono localizzati i più poveri fra i poveri. In sintesi, l’analisi della performance dei diversi gruppi sociali fornisce un’ulteriore conferma di quanto già sottolineato sopra, ossia che i gruppi sociali più poveri mostrano una tendenza alla riduzione della povertà multidimensionale minore di quelli meno poveri.

Come si vede, l’analisi della povertà multidimensionale sostanzialmente conferma quanto emerge dalle stime sull’evoluzione del fenomeno della povertà economica. Nonostante si osservi una riduzione della povertà in tutte le sue dimensioni, nell’India contemporanea è in atto un processo di marginalizzazione dei più poveri fra i poveri che determina l’esclusione di vasti gruppi sociali dai progressi generati dalla crescita economica. Ne consegue che, anche se la povertà mostra segni evidenti di riduzione nel suo complesso, questa riduzione è accompagnata da una sostenuta crescita della disuguaglianza tra individui e gruppi sociali. Questa disuguaglianza si manifesta sia in termini di distribuzione del reddito sia – e soprattutto – in termini di progressiva esclusione dai benefici prodotti dalla crescita economica nelle varie dimensioni della convivenza civile, dalla salute, all’alloggio, all’istruzione, alla comunicazione.

Si vede dunque come la crescita dell’emarginazione sociale in India avvenga in un contesto caratterizzato dalla presenza di molte forme di stratificazione che affondano le loro radici nella storia e nella cultura del paese. Oltre alla stratificazione della società sulla base della classe e del reddito – ossia sulla base di forme di stratificazione comuni a tutte le economie a capitalismo avanzato – la società indiana è fortemente stratificata per genere, casta, religione ed etnia, e queste forme di stratificazione assumono aspetti che sono specifici dell’India perché espressione delle istituzioni che regolano la vita sociale nel paese. Inoltre, a ognuna di queste forme di stratificazione è associata una specifica forma di disuguaglianza – di genere, di casta, di etnia e di religione – che genera processi di emarginazione che si rinforzano e si alimentano a vicenda (Sen, 2005). Il risultato è una disuguaglianza crescente che ha una natura fortemente multidimensionale.

L’evidenza sulla crescita della disuguaglianza in India è abbondante e solida. Secondo stime recenti (Kapoor, 2013: p. 59), dal 2004/5 al 2009/10 l’indice di Gini [9]  è aumentato sia nell’India urbana sia nell’India rurale, passando, rispettivamente, da 0,35 a 0,37 e da 0,27 a 0,28. Inoltre, la disuguaglianza che prevale in India è una “disuguaglianza cattiva” (Weisskopf, 2011), [10]  che esclude alcune categorie sociali dall’accesso al capitale (fisico e umano), marginalizzando individui potenzialmente produttivi e riducendo l’efficienza del sistema economico.

L’ultimo rapporto del Centre for Equity Studies di New Delhi (2014) documenta efficacemente che lo sviluppo economico dell’India è accompagnato da una sistematica esclusione di molti ceti sociali – ossia che l’India è una “terra di esclusione”, come afferma acutamente Jayati Ghosh (2014). Il rapporto illustra l’esclusione sociale in India da quattro diverse prospettive: l’istruzione scolastica, la qualità delle abitazioni, le condizioni di lavoro e l’amministrazione della giustizia (in particolare in relazione alla legislazione anti-terrorismo). In esso, viene evidenziata la persistenza di forti discriminazioni nell’accesso alle strutture scolastiche nei confronti dei bambini delle comunità dei Dalit, dei Tribali e dei Musulmani. Anche le caratteristiche delle abitazioni sono correlate al gruppo sociale. Così la discriminazione riguarda, di nuovo, soprattutto i Dalit e i Tribali, mentre vengono riscontrate forme di auto-segregazione dei Musulmani in zone periferiche nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni da parte degli Indù. Il rapporto documenta anche una sistematica sovra-rappresentazione di Dalit, Tribali e Musulmani nelle prigioni in attesa di giudizio per reati di terrorismo.

Ma certamente l’ambito in cui la discriminazione dei gruppi sociali marginalizzati è maggiore è il lavoro. Sebbene oltre 94% dei lavoratori in India sia occupato nel settore informale – ossia sia costituito da una manodopera non registrata e senza protezione e assistenza sociale – si osservano forti discriminazioni che operano lungo linee definite dalla gerarchia castale, religiosa ed etnica. Così, i Dalit e i Tribali sono le categorie sociali prevalentemente occupate nei lavori precari e di basso livello, e i Musulmani sono sotto-rappresentati rispetto agli Indù nei posti di lavoro a maggiore protezione. Categorie sociali discriminate in modo trasversale sono ovviamente le donne sia nel mercato del lavoro sia nell’istruzione – anche se l’India sostiene di avere raggiunto l’istruzione universale a livello di scuola elementare. Anche le persone che hanno forme di invalidità sono sistematicamente discriminate nel mercato del lavoro. Infine, una forte discriminazione si osserva nei confronti dei lavoratori delle campagne che sono sistematicamente sotto-remunerati nei confronti dei lavoratori delle città.

Dal rapporto del Centre for Equity Studies emerge l’immagine di un paese attraversato da diversi tipi di disuguaglianze che si intrecciano e si rafforzano l’una con l’altra. Così, le disuguaglianze nel controllo sulle risorse e sul reddito si intrecciano con quelle relative all’accesso all’istruzione, alla nutrizione, alle strutture sanitarie e di igiene, e queste molteplici forme di disuguaglianza sono sostenute e rafforzate dalle disuguaglianze personali, che spaziano dalle caratteristiche fisiche e di genere a quelle culturali di religione, casta ed etnia. L’esito è un processo di esclusione cumulata che emargina gli individui a molti livelli, attribuendo all’India il carattere di società fortemente gerarchica e discriminante. Ne consegue che le donne e gli individui appartenenti alle caste basse e alle minoranze religiose sono discriminati per le loro caratteristiche personali che ne limitano anche l’accesso alle opportunità sociali ed economiche: queste categorie di individui diventano così vittime di un processo di emarginazione complesso, molto difficile da combattere.

La crescita della disuguaglianza in un contesto di forte e diffusa povertà è molto preoccupante. Non solo perché, evidentemente, la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse e nell’accesso alle opportunità solleva un forte problema di equità sociale, rendendo disponibili i vantaggi della crescita economica a un numero sempre minore di individui. Ma anche perché la presenza di disuguaglianza – e di disuguaglianza crescente e “cattiva”, come nel caso dell’India – rende sempre più difficile la riduzione della povertà dal momento che rallenta la crescita e, dunque, anche la produzione di risorse potenzialmente utilizzabili per la lotta contro la povertà (Kapoor, 2013). In questo senso, la coesistenza di povertà e di crescente disuguaglianza crea una trappola dalla quale si può uscire solamente con politiche mirate.

  1. La strada bassa del capitalismo

L’evidenza empirica e l’analisi socio-economica disponibile dimostrano in modo ampio come l’emarginazione e la deprivazione che si osservano in India siano intimamente connesse al modello di sviluppo che ha preso forma nella fase della liberalizzazione e globalizzazione dell’economia indiana. In particolare, è stato dimostrato che il modello di sviluppo economico che ha prevalso in India dopo le grandi riforme di apertura dell’economia non è in grado di creare occupazione in quantità e qualità adeguate alle esigenze della società indiana.

L’economia indiana presenta un marcato dualismo. Il segmento maggiore (in termini di occupati anche se non in termini di fatturato) è costituito dall’economia delle piccole città e delle campagne, in cui dominano piccole e piccolissime imprese – molto frequentemente a base familiare – che competono sui mercati locali e nazionali sulla base del solo contenimento dei costi di produzione (in particolare del lavoro), senza introdurre innovazioni capaci di aumentare l’efficienza produttiva. In questo segmento, le imprese assorbono una quota rilevante di manodopera, ma hanno una potenzialità molto ridotta di creare nuova occupazione proprio a causa dell’arretratezza tecnologica e della loro dimensione ridotta (Basile, 2013). L’altro segmento importante è costituito dalle grandi imprese – in misura crescente controllate da capitale non indiano – specializzate in produzioni a bassa intensità di lavoro, prevalentemente nel settore informatico e delle comunicazioni, nella raffinazione del petrolio, nella produzione di beni capitali e di servizi avanzati in generale. Come Alessandrini (2009) efficacemente dimostra, questo segmento è a forte intensità di capitale, e dunque produce pochi posti di lavoro. Inoltre, per conseguenza della ristrutturazione indotta dalla crescente esposizione internazionale, in questo segmento dell’economia indiana si è venuta a determinare una perdita di posti di lavoro nelle unità produttive inefficienti e un rafforzamento dell’intensità di capitale nelle imprese più competitive nello sforzo di accrescere gli spazi di mercato (Ghosh, 2006).

Il primo segmento – che comprende alcune delle attività più “tradizionali”, come la tessitura e l’artigianato in generale – è stato oggetto di interventi politici a livello locale e centrale, in particolare  nel periodo precedente la liberalizzazione dell’economia; viceversa il secondo segmento è divenuto centrale nel periodo successivo. Con una significativa continuità – a partire dalle prime misure di apertura dell’economia indiana adottate dal governo di Indira Gandhi negli anni 1980 fino alle politiche che il governo di Narendra Modi sta mettendo in atto – tutti i governi indiani hanno realizzato interventi a favore delle imprese e finalizzati all’allargamento del mercato, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle grandi imprese per mezzo della costruzione di grandi infrastrutture capaci di modernizzare il paese e di creare vantaggi competitivi per il settore industriale avanzato.

Anche la bassa qualità dei (pochi) posti di lavoro creati concorre a spiegare i processi di emarginazione e deprivazione commentati nel paragrafo precedente. Questa bassa qualità deve essere imputata sostanzialmente alla crescente informalizzazione dell’economia indiana.

Come già ricordato, oltre il 94% delle forze di lavoro è occupato in imprese non registrate a fini fiscali, nelle quali i lavoratori sono privi di tutele e di protezione. Come mostrano i dati del NSSO elaborati dalla National Commission on Employment in the Unorganised Sector (NCEUS, 2007), i lavoratori assunti all’interno di contratti di lavoro informali operano in condizioni di lavoro molto precarie: sono privi di sicurezza sul lavoro, con la conseguenza che gli incidenti e le malattie professionali sono frequenti; sono privi di sicurezza del lavoro: molto spesso non hanno contratti di lavoro scritti, possono essere licenziati senza alcun preavviso e ricevono salari che sono in generale poco superiori alla linea della povertà; sono privi di assistenza sociale e non usufruiscono di ferie, riposi settimanali, congedi per parto o per malattia. Nella sostanza, vivono in condizioni di lavoro che l’International Labour Organization definisce “non dignitose” (ILO, 2012).

L’informalizzazione è un problema che riguarda entrambi i segmenti dell’economia, in un continuum che parte dalle piccole e piccolissime imprese nelle città e nelle campagne, in cui la quasi totalità dei lavoratori opera all’interno di contratti di lavoro informale, fino alle grandi imprese, in cui intere fasi del processo produttivo sono decentrate ad altre imprese che operano attraverso rapporti di impiego informale, spesso organizzati da vari tipi di mediatori.

Data la dimensione del fenomeno, la qualità dell’occupazione informale non è omogenea, e i posti di lavoro informali differiscono sia per i livelli salariali, sia per i livelli di capacità professionali dei lavoratori, sia per il tipo di responsabilità che viene loro affidata. Vi è una forte evidenza empirica (NCEUS, 2007) che anche all’interno dell’economia informale operano processi di emarginazione che segregano alcune categorie di lavoratori sulla base delle caratteristiche personali e culturali. Così, gli individui con caratteristiche personali e culturali ritenute “deboli” vengono progressivamente marginalizzati in attività completamente prive di protezione, che non richiedono particolari competenze e che ricevono remunerazioni basse. La letteratura documenta ampiamente questo fenomeno, evidenziando come i processi di emarginazione e segregazione riguardino principalmente i Dalit e i Tribali, e trasversalmente le donne (Harriss-White, 2003; Basile 2013), fornendo un’ulteriore conferma del fatto che, anche nell’economia informale, i processi di emarginazione e di deprivazione poggiano sulle stratificazioni sociali prodotte dalla cultura e nella storia dell’India.

Come si vede, il modello di sviluppo dell’India dopo l’apertura internazionale emargina ed esclude. L’organizzazione dell’economia assorbe le specificità culturali che l’India ha ereditato sul suo passato coloniale e post-coloniale – soprattutto il sistema castale e la pluralità delle religioni e delle etnie – sfruttando le molteplici stratificazioni sociali che da esse derivano. La penetrazione del capitalismo e l’apertura dell’economia non eliminano le specificità culturali “tradizionali”, ma le assimilano, trasformandole e adattandole ai nuovi rapporti di produzione. Così le specificità culturali dell’India diventano degli strumenti di segmentazione della società: sono funzionali alla crescita capitalistica e, contemporaneamente, producono i processi di emarginazione e la deprivazione che osserviamo nell’India contemporanea. Esse guidano il paese per la strada bassa del capitalismo, lungo la quale l’organizzazione sociale del paese costituisce il principale ostacolo al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, creando così le condizioni per la perpetuazione di povertà ed emarginazione.

In mancanza di forti correzioni di direzione e di politiche mirate per uno sviluppo inclusivo, l’India continuerà a percorrere la strada bassa del capitalismo. Come gli scarsi risultati ottenuti nel raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) dimostrano – e il confronto con i risultati di altri paesi in condizioni economiche peggiori conferma – il paese è già molto avanzato lungo questa strada.

Secondo il Rapporto delle Nazioni Unite sugli OSM (UN, 2014), la zona che ha avuto i progressi minori nel mondo è l’Asia del Sud, e all’interno di questa area l’India è senza dubbio il paese con il ritardo maggiore. Con l’unica eccezione dell’obiettivo 2 (l’istruzione primaria universale), che potrebbe essere raggiunto, è quasi certo che l’India con tutta probabilità mancherà i principali obiettivi. L’obiettivo 1 (sradicare la fame e la povertà e se garantire condizioni di lavoro dignitoso per tutti) non sarà raggiunto: a un anno dalla scadenza degli OSM, l’India ospita ancora 1/3 dei bambini malnutriti del mondo, 1/3 dei poveri del mondo, e registra un’amplissima diffusione di rapporti di lavoro vulnerabili. L’obiettivo 3 (promuovere la parità dei sessi) si scontra con l’evidenza dell’emarginazione sistematica delle donne che abbiamo commentato sopra. L’obiettivo 5 (migliorare la salute materna) non sarà raggiunto perché la mortalità delle donne nel parto continua a essere significativamente più alta del livello fissato dalle Nazioni Unite. Anche l’obiettivo 7 (garantire la sostenibilità ambientale) sarà mancato dal momento che i 2/3 della popolazione non hanno accesso a gabinetti, mentre oltre il 17% della popolazione indiana vive in slums, e il numero delle famiglie in questa situazione abitativa ha avuto aumento significativo negli ultimi 10 anni.

Dal 1990 l’India ha fatto progressi solo in termini di reddito pro-capite, mentre la maggior parte degli indicatori di sviluppo umano sono peggiorati. Il confronto con gli altri paesi in via di sviluppo ed emergenti – sia in Asia sia in altre aree geografiche – è illuminante. Come mostrano Drèze e Sen (2013), tra i paesi con una performance migliore dell’India vi sono paesi ricchi ma anche molti paesi poveri. Così, si collocano in una posizione migliore rispetto all’India sia la Cina, che come abbiamo visto ha molto ridotto il numero di poveri, sia il Vietnam che, pur registrando un livello di reddito pro capite più basso, ha un risultato migliore per tutti gli indicatori non economici. Anche il Nepal, che ha ridotto la povertà di oltre il 4% all’anno tra il 2006 e il 2011 e che era sotto l’India per tutti gli indicatori, adesso la ha raggiunta e superata in alcuni casi (con un reddito pro capite che è 1/3 di quello dell’India); allo stesso modo il Bangladesh, che ha ridotto la povertà del 3,2% all’anno negli ultimi 15 anni, ha superato l’India per la speranza di vita (69 anni contro 65).

Pur con un reddito pro-capite più alto del 50%, la performance dell’India presenta molte somiglianze con quella dell’Africa Sub-Sahariana. L’alfabetizzazione delle donne è pressoché uguale (rispettivamente 50% e 55%), mentre la quota dei bambini sotto peso in India è nettamente più alta che per l’Africa Sub-Sahariana (oltre il 40% contro il 25%).

Infine, il confronto con gli altri paesi BRICS [1]  è penoso per l’India. Tutti hanno raggiunto risultati molto importanti in termini di sviluppo umano eccetto l’India. L’unico elemento che attenua il senso di frustrazione del paese è che il reddito pro capite indiano è la metà di quello della media dei BRICS.

L’evidenza empirica che abbiamo commentato indica che è difficile prevedere se (e quando) l’India potrà raggiungere uno sviluppo equilibrato ed equo. Le trappole che impediscono all’India l’uscita dalla povertà sono molte e molto potenti. La disuguaglianza è certamente un aspetto che spiega molto della situazione attuale – in particolare la disuguaglianza determinata dalle stratificazioni che attraversano la società indiana e che sono radicate nella cultura e nella storia del paese, come il sistema castale e la pluralità religiosa ed etnica. Come abbiamo visto, le stratificazioni sociali rendono possibile e amplificano la portata dell’informalizzazione dell’economia che, a sua volta, consente la formazione di rapporti di lavoro iniqui in cui i lavoratori delle caste basse, delle minoranze etniche e religiose e le donne sono segregati senza tutela e senza protezione. L’uscita da queste trappole non è facile perché richiede il superamento di molti aspetti della cultura indiana e di molte istituzioni in cui essa si manifesta. Ma ci sono pochi dubbi che se non uscirà da queste trappole l’India resterà imprigionata in una spirale di povertà ed emarginazione che le impedirà di fare il grande balzo per il raggiungimento di un adeguato livello di sviluppo umano. E questo anche se la sua economia potrà registrare un tasso di crescita a due cifre.

Riferimenti bibliografici

Abhijit Sen and Himanshu (2003), Poverty and Inequality in India: Getting Closer To The Truth, Macroscan, 5 December.

Alessandrini, M. (2009) Jobless Growth in Indian Manufacturing: A Kaldorian Approach, SOAS, Centre For Financial and Management Studies, Discussion Paper No. 99.

Alkyre, S. e Foster, J. E.  (2011) “Counting and Multidimensional Poverty Measurement”,  Journal of Public Economics, 95.

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Basile, E. (2013), Capitalist Development in India’s Informal Economy, Routledge, London/New York.

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Chaudhuri, S. e Ravallion,M. 2006, “Partially Awakened Giants: Uneven Growth in China and India” in Dancing with Giants: China, India, and the Global Economy, edited by L. Alan Winters and Shahid Yusuf, The World Bank.

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Harriss-White, B. (2003), Working India, Cambridge University Press, Cambridge.

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Kapoor, R. (2013), Inequality Matters, Economic and Political Weekly, January 12, Vol. XLVIII, No 2.

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Olinto, P. Beegle, K. Sobrado, C. and Uematsu, H. (2013), The State of the Poor: Where Are the Poor, Where is Extreme Poverty Harder to End, and What is the Current Profile of the World’s Poor?, Economic Premise, The World Bank, October.

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Planning Commission, Government of India (2014), Report of the Expert Group to Review the Methodology for Measurement of Poverty, June.

Sen, A.K. (2005), The Argumentative Indian, London: Penguin Books.

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Weisskopf, T.E. (2011), Why Worry about Inequality in the Booming Indian Economy?, Economic and Political Weekly, November 19, Vol. XLVI, No 47.

[1] La linea della povertà è il livello di reddito (e di consumo corrispondente) al di sotto del quale un individuo o una famiglia possono essere definiti poveri. Due sono le linee della povertà che vengono utilizzate nell’analisi socio-economica: la linea della povertà assoluta (che è calcolata sulla base di un livello di consumo corrispondente al paniere minimo di beni necessari alla sussistenza) e la linea della povertà relativa (che è calcolata sulla base di un livello di consumo corrispondente a una quota del reddito medio). Per i confronti internazionali, viene impiegata la linea internazionale della povertà calcolata dalla Banca Mondiale sulla base delle linee della povertà nazionali – con riferimento al paniere di beni necessari alla sussistenza – convertite in dollari. La Banca Mondiale rivede periodicamente il valore della linea internazionale della povertà sulla base dei cambiamenti osservati negli stili di vita e del potere di acquisto del reddito nei singoli paesi. Sulla base della revisione 2005, la linea internazionale della povertà (che identifica la povertà in termini assoluti) è stata fissata a 1,25 $ per persona al giorno. Va precisato che la soglia di 1,25 $ è misurata ai prezzi internazionali 2005 ed è aggiustata alla valuta locale di ogni singolo paese usando un fattore di conversione definito dalla Banca Mondiale sulla base della parità del potere di acquisto (la linea della povertà è quindi espressa in dollari PPP). Per dettagli, si vedano i siti web: www.istat.it e www.worldbank.org/en/topic/poverty/overview.

[2] Resoconti del dibattito sono proposti da molti documenti della Planning Commission. Si veda in particolare Planning Commission (2014).

[3] Il cambiamento delle diete in India è ampiamente documentato. Tuttavia, il fenomeno è interpretato in modo spesso contrastante. Ad esempio Utsa Patnaik (2013) dimostra, sulla base di dati NSSO, che il consumo di cereali pro-capite si è ridotto da 177 kg a 155 kg. Secondo Patnaik, questa riduzione testimonia un aumento della povertà, viceversa, Deaton e Drèze (2009) affermano che un ridotto consumo di alimenti a forte contenuto calorico non è necessariamente un indicatore di povertà, ma in alcune situazioni può essere considerato un indicatore di cambiamento del modello di consumo associato alla crescita dell’economia.

[4] Se fosse stato applicato il metodo Tendulkar ai dati del 2011/12 il numero stimato di poveri sarebbe stato molto minore, pari al 21,9% della popolazione indiana (con il 25,7% nell’India rurale e il 13,7% nell’India urbana) (Planning Commission, 2014: Tabella B4, p. 31).

[5] La povertà è un fenomeno sociale ed è prodotto dalla convivenza civile. Da ciò consegue che i livelli minimi di soddisfacimento dei bisogni di base – che entrano nella definizione dello stato di povero – si modificano nel tempo e nello spazio in relazione ai diversi aspetti della vita sociale, dall’alimentazione, all’istruzione, alla salute, ai trasporti.

[6] Tutte le stime della povertà in India di fonte Banca Mondiale presentate in questo testo sono state ottenute con Povcalnet – lo strumento per la misurazione online della povertà sviluppato dal Gruppo di ricerca sullo sviluppo della Banca Mondiale – utilizzando il Povcalnet database. Per dettagli si veda il sito www.worldbank.org.

[7] Con il metodo Povcalnet è anche possibile ottenere alcune stime provvisorie della povertà in India sulla base dei dati 2011/2012 (resi noti solo nel giugno 2014). Queste stime indicano che, in quest’ultimo anno, il 24,4% della popolazione era sotto la linea della povertà nell’India rurale e il 21,9% nell’India urbana. Non è invece possibile stimare la dimensione della povertà per l’India nel suo complesso.

[8] Poggiandosi sull’analisi teorica della povertà sviluppata dall’economista premio Nobel Amartya K. Sen, il metodo Alkyre prende in considerazione l’insieme di deprivazioni che colpiscono un individuo o una famiglia che vivono in condizioni di povertà, identificando lo stato di povero con riferimento a specifiche soglie minime definite per ogni dimensione della povertà (alloggio, istruzione, nutrizione ecc.) e aggregando queste informazioni in un unico indice composito (Alkyre e Foster, 2011).

[9] L’indice di Gini è una delle misure più comuni della disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Assume valori fra 0 (condizione di completa uguaglianza) e 1 (condizione di completa disuguaglianza) e cresce al crescere della concentrazione della ricchezza.

[10] Vi è chi ritiene – per esempio Chaudhuri, S. e Ravallion, 2006 – che esista anche una forma “buona””di disuguaglianza che ha un impatto positivo sulla crescita poiché l’osservazione delle differenze nelle condizioni di vita stimola l’iniziativa individuale e spinge al dinamismo economico.

[11] L’acronimo BRICS comprende Brasile, India, Russia Cina, e Sud Africa.

Ecco a seguire il programma del Seminario Internazionale organizzato dal Circolo “Verso l’Europa” per il fine settimana dell’11-12-13 Ottobre 2014:

 

Impressioni e pensieri intorno alla preghiera per la pace al Vaticano Giugno 2014

Rav Joseph Levi – Rabbino Capo della comunità ebraica di Firenze.

Articolo pubblicato anche sul Bollettino dell’am. Ebraico-Cristiana

  1. Bergoglio e La Pira sulla fede di Abramo:

 Invitato dalla Radio vaticana  a commentare la visita del papa Bergoglio a  yad vashem ho riguardato e risentito le registrazioni della visita del papa, in particolare quella con la comunità islamica palestinese a Gerusalemme. Ho sentito il papa parlare della comune tradizione abramita delle tre religioni e mi ha fatto subito ricordare e riflettere sulle parole ed il pensiero di La Pira ed il suo operato in tale senso. Il riferimento ad Abramo come un giusto contenitore delle nostre tre fedi vicine ma diverse nelle loro credenze e la loro storia mi è sembrato giusto e convincente anche perché fu già formulato ed elaborato da La Pira, e mi sono detto: lo spirito di La Pira si sta rinnovando non più come un pensiero marginale della chiesa ma dal suo esponente più alto ed autorevole. È una bella notizia.

  1. Bergoglio e La Pira –Preghiera per la pace, fra Hebron e la città del Vaticano:

Il giorno dopo ho sentito l’altra notizia : l’invito a celebrare una preghiera insieme ad esponenti ebraico cristiani e musulmani in Vaticano. Nell’apprezzare l’iniziativa mi sono ricordato di nuovo di La Pira. Le memorie mi riportavano al lontano 1969, quando, durante la visita del sindaco di allora di Firenze, La Pira chiese di poter pregare sulla tomba di Abramo con rappresentanti delle tre grandi religioni monoteiste. Fu una mossa religiosa e politica complicata. La sua richiesta d’incontrare tutti i sindaci della Cisgiordania (così si chiamavano allora i territori dell’attuale autorità palestinese) fu respinta da Dayan che voleva mantenere le zone a sud e a nord della Cisgiordania separate per meglio controllare la zona. La Pira accettò la decisione politica di Dayan ma lo sfidò  con la richiesta di avere un momento di preghiera comune a tutte e tre le religioni  in una zona sensibile come la città di Hebron, che allora ancora prima dei grandi insediamenti israeliani nella città e dintorni, e ancor prima della nascita di Hammas, godeva ancora di una relativa tranquillità. Si trattava di convincere le autorità religiose locali, musulmani ed ebraiche di accettare una preghiera multi confessionale nella famosa grotta di Hebron dove ebrei e musulmani  potevano pregare, ma separati e in orari diversi. Ottenuto il consenso delle autorità religiose l’evento fu consentito anche dalle autorità civili e militari. Partimmo da Gerusalemme con un semplice Taxi collettivo che serviva passeggeri israeliani e palestinesi in viaggio fra le città del sud. Noi abitavamo nella parte occidentale di Gerusalemme chiamata per l’appunto Via Hebron. Io allora giovanissimo studente accettai la proposta di mio padre di accompagnare la delegazione a seguito di un altro evento accaduto un anno prima. L’anno precedente mi fu proposto da mio padre di andare visitare con lui il vecchio e malato Martin Buber. Il mio orgoglio adolescenziale mi portò a rifiutare la proposta, Buber morì qualche mese dopo e così non ho potuto conoscere Buber di persona. Per fortuna accettai la proposta di fare il viaggio di pellegrinaggio con La Pira. Partimmo dalla Via Hebron verso Betlemme, dove eravamo ricevuti con grande solennità dal sindaco cristiano della città Elias Frege. Al ricevimento nel comune seguì la visita nella chiesa della natività per poi partire insieme con una delegazione ormai allargata ebraico-cristiana, indirizzata verso il comune di Hebron dove fummo ricevuti come degli angeli apparsi ad Abramo a Hebron, dal sindaco di allora, conservatore filo giordano. Muhamad Ga’aberi, che ci ha riservato un ricevimento solenne sotto una grande tenda orientale con tanto di humus, il pane arabo la pittà,  e un ottimo caffè turco. Finite le cerimonie di accoglienza di stile mediorientale nella città di Abramo, Hebron-al-Hallil, la delegazione che ormai contava una quarantina di persone fu diretta, sotto protezione delle forze armate israeliane verso le tombe dei patriarchi. Nella grotta ognuno recitava un testo sacro della propria tradizione, ebrei e cristiani dei salmi che evocano la pace ed i musulmani testi del Quran. Fu un momento di grande emozione e speranza, anche se completamente incompreso e marginale. Al ritorno verso Gerusalemme con lo stesso Taxi collettivo eravamo in sette. Salutandoci alla fine del viaggio al sud  La Pira dirigendosi  per la seconda parte del suo viaggio verso le città palestinese del nord ci salutò con il proverbio toscano Una sola rondine non annuncia la primavera, e aggiunse, ma sette forse sì. Con queste memorie vive mi sono detto “questa volta le preghiere verranno svolte dalle più massime autorità religiose e civili. Anche se molto lentamente le preghiere di allora hanno forse servito a qualche cosa”. Pensiero accompagnato anche da un arriere pensee: “Sarebbe bello se potessi partecipare alle preghiere inter confessionali anche questa volta”.

  1. L’invito a far parte della delegazione:

Il venerdì mattina 6 Giugno ricevo un comunicato in segreteria che un mio conoscente di Roma mi sta cercando d’urgenza. Pensai: “Chi sa quale problema è emerso questa volta con il cibo kasher a Roma che mi cercano con tale urgenza”. Chiamo solo per correttezza l’amico che mi dice “Allora confermi la tua presenza al Vaticano la domenica alle 19.00? Ti devo dare delle istruzioni come arrivarci”, gli risposi “Non so di che cosa stai parlando” e lui “Ti stanno cercando da più di tre giorni dall’ufficio del rabbinato centrale d’Israele”. Insisto a dire che non ne so nulla. Dopo non più di cinque minuti ricevo la chiamata dal direttore generale del rabbinato d’Israele che mi comunica che hanno scelto di chiedermi di far parte della delegazione che accompagnerà il presidente Peres alla preghiera per la pace programmata in Vaticano, specificando i salmi e brani di lettura a me affidati. Risposi con qualche irritazione: “Con un annuncio così tardivo sarà molto difficile ma cercherò di fare il mio meglio”, in realtà sembrava che qualcuno ha pensato che il rabbino di Firenze che pregò con La Pira ad Hebron non poteva mancare al secondo appuntamento al Vaticano. Una soddisfazione per il riconoscimento del faticoso lavoro per la pace ed il dialogo interreligioso fatto a Firenze in questi ultimi vent’anni assieme agli altri amici del dialogo interreligioso cristiani e musulmani. Un riconoscimento collettivo al nostro lavoro leale ispirato da La Pira che a Firenze si svolge come una dottrina accettata da tutti gli esponenti religiosi e civili, che ha dato ottimi frutti in città grazie allo sforzo di tutti. Un riconoscimento al lavoro fatto precedentemente in Israele. Faccio tutte le preparazioni necessarie per poter essere presente all’incontro in rappresentanza della città di Firenze, della sua comunità ebraica, e degli amici delle varie confessioni con i quali da anni lavoriamo insieme per mandare avanti il dialogo. Il riconoscimento è anche loro.

  1. L’incontro delle delegazioni:

Nei tanti incontri di dialogo inter religiosi ai quali ho partecipato , come è nella logica dei contatti umani, i momenti di incontri informali sono quelli più importanti. Si creano nuovi rapporti e amicizie si dicano delle cose che in situazioni più formali non si possono dire e via dicendo. Anche questa volta si sono prese delle foto, selfie e normali: tutta la delegazione israeliana che comprendeva rappresentanti delle minoranze arabe israeliane: Druzi, cerchesi e arabi musulmani, assieme a Rav Rosen e Rav Skorka; le segretarie del presidente Peres con tutti i rabbini e gli arabi, e altri ancora dalla parte cattolica, i vari cardinali e monsignori legati al Vaticano e la curia di Roma. La delegazione palestinese è invece molto tesa, parla poco e non esce dagli schemi della formalità. Cerco di interessarli nella Preghiera per la pace che verrà letta fra qualche minuto ma non si creano le amicizie. Come si è visto qualche giorno dopo la pressione di Hamas è troppo forte. I problemi che aspettano in casa sono troppo pressanti. La delegazione non può permettersi di uscire dalle formalità. La stessa linea sarà seguita dal presidente Abbas, come se sapessero già quello che stava per accadere tre-quattro giorni dopo con il rapimento dei ragazzi israeliani. Si fa fatica ad esprimere speranze. Manca il calore di tali occasioni che facilita impegni ed incontri futuri. Stretti fra Netanyahu e Hamas gli esponenti del Al-Fatah della leadership palestinese sembrano avere poca speranza. Usano l’occasione per chiamare di nuovo l’attenzione sui diritti del popolo palestinese, fanno fatica ad esprimere parole di speranza. Rivolgono le loro parole alle divinità musulmane e cristiane. Non riescono a dialogare e accettare l’esistenza della divinità d’Israele. Sono fermi ancora su posizioni preconciliari, e anche le divinità non dialogano. In questo senso l’incontro lascia qualche delusione.

I tempi non sono ancora maturi. Il contingente è troppo pressante. Non trovo l’aspettata atmosfera distesa di fiducia e collaborazione alla quale ci siamo abituati a Firenze e nei vari colloqui fra Rabbini e Imam in America e in Europa. In medio oriente tutto è più assoluto e difficile. Ci vorranno ancora tante altre preghiere insieme per ricreare la fiducia fra i discendenti di Abramo e i discendenti di Efron l’Ittita, che pure credono in un unico e solo Dio, che sta al di là di tutti gli attributi che lo possono contenere, al quale appartiene l’esistenza e la vita, la giustizia, la misericordia  e la pace, come insegnavano i grandi maestri dell’ebraismo e dell’Islam Avveroè e Maimonide. La realtà è troppo pressante per pensare e cercare l’armonia, la giustizia e la misericordia che appartiene, pare solo agli Dei. Le parole affidate al Dio onnipotente di non subire e non fare atti d’aggressione, di dirigerci  verso la pace non si traducano in gesti di concreta comunicazione. È chiaro che siamo solo all’inizio.

  1. Le lingue: le difficoltà del dialogo si riflettano anche nelle scelte delle lingue usate.

 I contendenti pregano solo ed esclusivamente nelle loro lingue nazionali: Ebraico per gli Ebrei, l’arabo per i palestinesi. La chiesa sceglie di parlare in più lingue. Il Patriarca greco ortodosso rivolge le parole  a Dio in un perfetto inglese con pronuncia slava, il pontefice in un italiano corretto con pronuncia ispano argentina, il Monsignore di pelle nera in un italiano biblico con leggera pronuncia americana, la signora di Haifa, membro del movimento focolare, legge testi biblici in un perfetto arabo. Ora mi dico probabilmente un Cardinale leggerà un testo biblico in ebraico con una pronuncia latina, ma ciò purtroppo non avviene. Le chiese siriache usano l’aramaico ma la chiesa cattolica non osa ancora rivolgere preghiere di pace all’unico Dio in ebraico. Ci vuole pazienza per camminare con gli uomini, e non sappiamo ancora quale lingua parlerà il Messia quando apparirà per la prima o la seconda volta. Il Rabbino Rosen canta una parte della preghiera con una melodia di supplica del mondo ebraico askenazita, polacco-russo, l’Imam della moschea di Gerusalemme, con il canto tipico della preghiera araba mediterranea, aggiunge una lunga preghiera fuori programma in arabo, che senza la traduzione distribuita attraverso il programma ufficiale, pochi capiscono. Il ritmo della supplica rabbinica est-europea si mescola con la lentezza dolce del canto recitativo arabo.

  1. Il concetto pedagogico teologico. I testi scelti:

I concetti teologici ed i contenuti delle preghiere furano certamente concordate ma si sente una qualche confusione. La prima parte in tre lingue doveva parlare della bellezza della creazione, ma anche della gloria dell’uomo creato ad immagine divina. La grandezza dell’uomo e le sue potenzialità sono comuni al pensiero ebraico e cristiano e in modo forse minore al pensiero dell’Islam. Oltre il salmista anche Pico della Mirandola seppe esprimere la grandezza potenzialità dell’uomo basandosi su fonti bibliche, cristiane e kabbalistiche ebraiche (tesi che la chiesa però a suo tempo rifiutò). La seconda parte riguardava il perdono. Per fare la pace ci vuole l’umiltà, la riconoscenza della fragilità delle nostre stesse posizioni, chiedendo perdono a Dio significa nella tradizione ebraica chiedere perdono all’altra persona , o gruppo di persone verso il quale si sono commessi degli errori. Ammettere dei possibili errori deve giustamente essere il primo passo e scusarsi col nemico può scatenare il processo di selihà o sulhà in arabo. Concetto base così conosciuto e diffuso nella cultura religiosa ebraica e nei rapporti fra le varie famiglie e tribù nel mondo arabo. Nell’ebraismo il perdono riguarda principalmente il rapporto fra individui, la qualità del rapporto con l’altro creato come noi ad immagine divina, nell’islam ha anche forti connotazioni sociali. Il cattolicesimo moderno cerca di introdurre un concetto di richiesta di perdono collettivo. Anche qui la strada è ancora lunga da fare. La richiesta di perdono a Dio non è stata tradotta in richiesta di perdono al nemico per gli errori commessi da una parte o dall’altra. Nelle parole pronunciate in ebraico arabo e italiano c’era un richiamo alla riflessione sulla possibile richiesta di perdono che non si è tradotta per il momento in una vera prospettiva di sulha, di una ripacificazione politica e sociale. La richiesta di perdono rimane sospesa nell’aria , lancia una sfida, aspetta ad essere attuata, in futuro, quando la preghiera pronunciata avrà fatto il suo cammino.

  1. Gerusalemme: Gerusalemme era ovviamente ricordata da tutti:

 Peres pregava per la pace di Gerusalemme citando i salmi di Davide, impegnandosi di nuovo a fare di Gerusalemme un città aperta a tutte le religioni. Se ti dimentico Gerusalemme. Anche Abbas e Papa Bergoglio ricordano Gerusalemme città della pace. Anche qui si mescolano politica e religione. Il presidente Abbas parla della città di Gerusalemme sacra all’Islam. Ricorda la sacralità della città ricordata nei vangeli e i testi cristiani, ma non va oltre. Non osa ammettere che la città di Gerusalemme è sacra anche per gli ebrei, i primi forse a dichiararla città sacra. Ci troviamo di fronte al paradosso del fenomeno religioso del sacro. Il sacro è difficilmente condivisibile. Ciò che è sacro per me difficilmente può diventare anche sacro per te. Il Dio unico si esprime attraverso spazi e luoghi diversi che non possano essere condivisi. Abbas ricorda la città santa ai musulmani e alla cristianità, chiede nella preghiera uno stato di diritto con la capitale Gerusalemme, seguendo però le posizioni dei nuovi alleati più estremisti, omettendo di ricordare il rapporto millenario del mondo ebraico e della bibbia con Gerusalemme città di Davide. Un altro problema dell’incontro, dove a causa della fretta di organizzare l’incontro mentre Peres è ancora in carica, non c’era il tempo necessario per fare il lavoro politico elementare e concordare i termini base dell’incontro. C’è da chiedersi, alla lunga, ebrei e musulmani riusciranno a riconoscere la sacralità altrui? Dove e come si esprime la coerenza e correttezza politica anche nelle preghiere. Chi influisce e chi è responsabile per chi? I testi sacri sono a servizio della politica, o viceversa, i testi illuminati permettono di sviluppare una visione più universale. Il sacro di per sé, è inclusivo o esclusivo. Allarga gli orizzonti o li restringe? Riusciamo ad educare noi stessi e gli altri ad includere e non escludere le posizioni e le visioni le credenze e le tradizioni dell’altro?

  1. I discorsi delle autorità:

I discorsi stampati delle autorità erano ovviamente di grande livello. E’ da  notare il concetto di affidamento e dovere verso le nuove generazioni, guardando in avanti, del Pontefice che ricordava l’impegno e le difficoltà di lavorare per la pace e la costruzione invece delle energie dedicate alla guerra e la distruzione. Il richiamo allo spirito di collaborazione e costruzione della pace in contrapposizione allo spirito distruttivo del terrorismo in presenza dei presidenti Peres e Abbas era di particolare importanza. All’invito del pontefice il presidente Peres ha risposto rivolgendosi a tutti gli abitanti della terra santa e d’Israele: Ebrei, Musulmani e cristiani, beduini,druzi e cerchesi, con un nuovo impegno a costruire la pace giorno per giorno anche al costo di compromessi. Messaggio importante rivolto sia agli israeliani che ai palestinesi da un personaggio che conosce a fondo i dettagli e le difficoltà dei negoziati fra israeliani e palestinesi. Ricordando le sue memorie ed esperienze della guerra si è dichiarato di nuovo dedicato per il resto della sua vita alla costruzione della pace. Così facendo al di là delle preghiere ha potuto dare un impulso nuovo alle speranze di pace in medio oriente e nella terra sacra a tutte e tre le religioni. Il presidente Abbas ha risposto con parole di fiducia nell’iniziativa del pontefice sottolineando  “la sua fiducia nella possibilità è sincero tentativo di trovare la pace fra Palestinesi e Israeliani”. Ha poi pregato per la città di Gerusalemme

“La porta che guida al cielo” secondo il corano, e la speranza di trovare la pace per gli abitanti della Palestina – musulmani, cristiani e Samaritani (!), nella ricerca di uno stato indipendente, sottolineando che “riconciliazione e pace sono i nostri obiettivi”, invocando la divinità di incoronare gli sforzi fatti per raggiungere la pace, implorando che “è il Signore che promuove la pace, e impedisce il “male e l’aggressione” di avere successo”, esprimendo così le aspettative dei palestinesi dall’evento della preghiera, e cioè di vedere rafforzate le loro richieste di uno stato indipendente con la capitale Gerusalemme “La prima Kiblà, la seconda sacra moschea, e la terza delle due sacre moschee”. Certo, come hanno mostrato gli eventi successivi della settimana con il rapimento degli studenti di una scuola religiosa israeliana, era ben consapevole dei rischi e i problemi che lo aspettavano al suo ritorno nei territori palestinesi e la forte contestazione del Hammas che gli ha appena accordato la costruzione di un governo di unità nazionale. L’esistenza ed il dialogo con il popolo israeliano figurava solo ai margini della posizione pronunciata. Hammas purtroppo non ha ritardato la sua risposta mettendo alla prova lo stesso governo d’unità nazionale appena costituito, con il rapimento dei ragazzi israeliani, operazione preparata da tempo ma eseguita solo tre giorni dopo il ritorno di Abbas dall’Italia e dal Vaticano. Diventa sempre più evidente che il conflitto che si profila in medio oriente non è un conflitto o una guerra di civiltà, fra diverse religioni, ma una guerra che attraversa i partiti, israeliani e palestinesi, shiiti e sunniti, ebrei cristiani e musulmani , ma un conflitto ed una guerra fra moderati e fanatici fondamentalisti che non hanno rispetto per la vita umana e non vedono nella manifestazione della vita, di ogni vita, una manifestazione dell’immagine divina come si è sviluppata nella tradizione ebraico-cristiana. Bisogna solo sperare che iniziative come quella del Vaticano e altre che verranno ancora potranno aiutare a compattare il patto fra moderati di tutte e tre le religioni avvicinando la pace sociale e politica in tutto il medio oriente. In Siria ed Iraq come in Giordania e fra i palestinesi e gli israeliani, come altrove in Pakistan e Afganistan, in Libia e in Libano. Non c’è dubbio che la leadership politica e religiosa condivide attualmente una grossa responsabilità per riuscire far vincere e compattare i moderati contro gli estremisti che ammazzano senza scrupolo persone, giovani inermi, bambini e donne in tutto il medio oriente e nell’Africa riducendo l’umanità a dei livelli sempre più bassi e brutali. In questo contesto anche la preghiera di Abbas aveva un suo senso e valore.

  1. Il ricevimento – Cibo Kasher e Arbit nei giardini del Vaticano:

Alla fine della preghiera c’è stato il saluto individuale di tutti i partecipanti al papa ed i due presidenti. Sui giardini è ormai scesa la sera e tutti sono stati invitati ad un rinfresco in un altro prato dei giardini. Paradossalmente qui si è mostrata la vicinanza fra gli ebrei e i musulmani, vicinanza che mostra ancora una volta la complessità degli intrecci culturali che le parti fanno fatica a riconoscere. Le tavole del ricevimento erano divise in due parti. Una centrale e l’altra, più piccola con il cibo kasher servito da un catering kasher di Roma. Intorno ai tavoli del servizio kasher le due delegazioni israeliana e palestinese si sono incontrate di nuovo. Malgrado la distanza politica i musulmani sapevano benissimo di poter servirsi con tranquillità del servizio bar kasher allestito per l’occasione. Imam e Rabbini si sono incontrati di nuovo, non più intorno al tavolo della politica e della preghiera, ma intorno al tavolo del cibo e delle pratiche religiose. Che possa il cibo avvicinare israeliani e palestinesi ricordandogli la loro radice culturale comune?

Un secondo episodio unico è avvenuto qualche tempo dopo. Un esponente della delegazione israeliana doveva come chiede la tradizione di recitare la  preghiera del kadish in ricordo della mamma deceduta qualche mese fa. In modo del tutto informale e non programmato gli uomini della delegazione israeliana si sono riuniti per assicurare il numero necessario per una funzione collettiva che permette di recitare il kadish. Anche questo fu un evento storico. Fu probabilmente l’unica occasione, dai tempi di Paolo, che nei giardini del vaticano fu recitata una funzione pubblica ebraica della preghiera che include la lettura dello shemà serale, dichiarando la fede in una unica divinità. Mondi culturali e usanze religiose si sono incontrati nei giardini del vaticano per coltivare speranze per un nuovo mondo, di dialogo e rispetto per le varie manifestazioni culturali della famiglia umana.

  1. Le prospettive future: preghiere inter confessionali a Firenze ed Hebron:

In conclusione: questo primo incontro al massimo livello religioso e politico non è che un primo passo. Per ottenere risultati significativi ha bisogno di essere ripetuto periodicamente, invitando chi si occupa della politica , della vita e la morte delle persone, di riconoscere e ricordarsi della dimensione sacra della vita. Un ritiro periodico dei leader che gli permetterà di vedere e sentire il dolore e la speranza di chi soffre. I loro stessi popoli soffocati dalla mancanza della pace, oltre le difficoltà, le chiusure  e le dinamiche dei conflitti quotidiani. L’esperienza e l’iniziativa del Vaticano va ripetuta in altre modalità ancora con momenti di ascolto e di preghiera dei responsabili per il futuro di tanti esseri umani. Preghiere invocate anche in altri luoghi di grande carica simbolica, possibilmente negli stessi territori contesi: sulle alture del Golan e nella Galilea, sul monte sacro alla minoranza samaritana, e in un campo aperto e neutro di Gerusalemme, nei campi aperti dei profughi e nelle nuove città costruite dagli israeliani, e perché no per noi fiorentini, anche di nuovo ad Hebron e a Firenze. Le speranze riaccese periodicamente riusciranno a illuminare i sentieri antichi del mediterraneo sui quali camminavano i nostri antenati in ricerca della divinità?

ANCI da Papa Francesco:  5 aprile 2014

Venti anni fa, nel 1994, in occasione della “grande preghiera del popolo italiano” il beato Papa Giovanni Paolo II, rievocando i tempi dell’allontanamento dell’Europa dal cristianesimo e la tragedia delle due grandi guerre che hanno funestato il secolo scorso, ha voluto rilevare, in mezzo a molteplici forme di male, la potenza del bene soprattutto per opera di radicali testimoni di Cristo. Qui ha ricordato anche La Pira. Anche io, nell’omelia della Messa celebrata presso la tomba di San Pietro ho ascoltato queste parole: “Quando dopo la seconda guerra mondiale si è delineato il programma della ricostruzione dell’Europa, in esso hanno avuto una parte importante due cristiani quali Alcide De Gasperi e quella figura carismatica che fu il sindaco di Firenze Giorgio La Pira”.

Dieci anni fa, nel 2004, per concludere l’anno centenario della nascita di Giorgio La Pira, a Noto, in Sicilia, il Prof. Agostino Giovagnoli, Ordinario di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano, ha detto: “Gran parte della vita di La Pira si è svolta all’interno del “secolo breve”, il secolo delle ideologie e dei totalitarismi, tra la prima guerra mondiale e la caduta del muro di Berlino.

La sua parabola si è cioè consumata tra fascismo e guerra fredda, in un mondo diverso da quello in cui siamo immersi dal 1989. Anche la sua fisionomia di cattolico, noto per i suoi slanci profetici ma anche per la sua vicinanza politica alla Democrazia Cristiana, molti, durante quest’anno 2004 – centenario della nascita – hanno cercato di avvicinarsi alla sua figura trovando in La Pira vibrazioni di grande intensità: La Pira, insomma, “parla” ancora agli uomini e alle donne de XXI secolo”.

Giorgio La Pira è definito da Vittorio Peri (Giorgio La Pira, spazi storici, frontiere evangeliche, Sciascia editore, Caltanissetta – Roma 2001) “la personalità più singolare del cattolicesimo italiano del secolo XX”. A Firenze da molti viene chiamato “il sindaco santo”. E a voi, sindaci d’Italia, proprio questo aspetto interessa.

Fioretta Mazzei, che ha condiviso tanti ideali ed è stata collaboratrice fedele nel suo servizio alla città nell’amministrazione 1951-1956, nella seconda amministrazione 1956-1961, che  registrò una crisi ed intermezzo commissariale, e nella terza amministrazione 1961-1964. Fioretta, in un suo libro intitolato “La Pira – cose viste e ascoltate”, scrive: “Un disegno preciso, due vocazioni che si chiamano l’un l’altra perché hanno la medesima matrice: fatto per Firenze e Firenze per lui. Per questo amò tanto l’esser sindaco: sindaco di Firenze e soltanto di essa, vivendolo come una consacrazione, come un fatto definitivo; quasi una missione ricevuta dal suo popolo come i re d’Israele ricevevano l’unzione dei profeti e qualunque fosse l’alternanza degli avvenimenti il fatto restava sempre… Il suo destino era scritto nel destino di Firenze stessa; lo sapeva e sapeva anche che non era episodico, diciamo per il periodo che c’era lui, ma che qualcosa di definitivo si inscriveva nella storia,  nell’anima della sua città. Sapeva di esprimerne l’anima, il segno comune fa della gente non un agglomerato informe, ma un popolo, un popolo con un destino nella storia universale dei popoli. … La Pira fu felice di essere sindaco di Firenze, si sentì a casa sua, nel suo compito. Non così si era sentito a Roma, tante volte se ne era lamentato: “Roma non è per me, è troppo grande, non è a misura d’uomo”. Tuttavia si arrabbiò quando la carica di sindaco fu dichiarata non abbinabile a quella di deputato. Diceva che un sindaco ha una ricca esperienza da portare in Parlamento; pesa per questo. Si arrabbiò, ma decise per Firenze spontaneamente scrivendo di getto quel telegramma rimasto famoso: “Scelgo Firenze, perla del mondo”… Non ebbe poi nostalgie. Anche se rieletto deputato, per Firenze di nuovo si dimise: la sua scelta era, prima di tutto, sindaco”.

Ho voluto raccontarvi questo aspetto intimo di Giorgio La Pira, perché, sono certo, anche voi siete orgogliosi di questo servizio che vi è stato affidato, anche voi misurate la responsabilità di curare il bene della comunità che vi ha scelti proprio per questo, anche voi fate l’esperienza dell’importanza di essere a contatto diretto con le persone per aiutarle ad esprimere al meglio le proprie capacità e dare così un contributo decisivo per il futuro della nostra società.

Lui  amava definirsi “venditore ambulante di speranza”. Infatti, realizzò, anche se sovente con atroce scotto di dolore, il più genuino e tipico insegnamento cristiano. Davvero, come dice  S.Tommaso d’Aquino nella Summa teologica (II-II,174,63), “in ogni tempo non mancarono mai persone dotate di spirito profetico, non per rivelare nuove dottrine di fede, ma per guidare la condotta degli uomini”.

Da giovane vive posizioni vagamente libertarie ed ha l’esperienza di ideali di giustizia, di onestà, di altruismo, di affermazione politica, di crescita storica per il bene comune, vissute intensamente fuori della Chiesa (a 15 anni, in un discorso pubblico davanti ai soci dell’associazione “Italia giovane” a Noto: “Non potrei mancare di sincerità e di affetto dinnanzi ai veri rappresentanti… di un’idea che è santa e che santifica nella sua grandezza la vita di chi combatte per essa. Di questa idea, o compagni, siamo i più puri assertori e come dinanzi all’usurpatore della religione il volgo ignaro si inchina, così noi, ancor più devotamente e coscienti di noi stessi, ci inchiniamo di fronte alla vera, alla più santa, alla più sacra religione, che è, o compagni, la Patria: la Patria dei nostri padri, dei nostri avi, dei nostri morti, dei nostri affetti più cari”).

Negli anni 1922-24 attraversa un periodo di ripensamento che, nella Pasqua del ’24 si conclude con un pieno e gioioso recupero della fede cristiana. Si tratta di una vera intuizione mistica, per cui La Pira abbraccia nella propria vita la Realtà assoluta e personale di Dio operante in noi e nella storia.

Il 2 giugno 1946 viene eletto deputato alla Costituente quale indipendente nelle file della Democrazia Cristiana. Operando nella sottocommissione che elaborò i “principi” della Costituzione, La Pira contribuì a dare precisa definizione a “quei pilastri essenziali dell’ordine sociale che sono gli enti sociali originari (la famiglia, la chiesa, la città, la regione, il sindacato, i partiti, la nazione, la comunità delle nazioni) entro i quali è organicamente inserita e ordinatamente si sviluppa nel suo cammino ascensivo verso i supremi valori interiori, la persona umana”. Il 18 aprile 1948 viene eletto deputato nella prima legislatura ed entra nel Governo De Gasperi come sottosegretario al lavoro, di cui è ministro titolare Amintore Fanfani.

In una lettera del 31 agosto ’46, egli confessa: “non sono stato io a scegliere la parte di deputato: me l’avete imposta: dunque bisogna prendermi come sono: il Signore lo sa: Egli mi ha sempre posto in condizioni che non alterino la fisionomia essenzialmente orante e contemplativa della mia vita”. Quella che qualcuno ha chiamato la seconda conversione è avvenuta con l’esperienza di sottosegretario e di sindaco. Alla Costituente, insieme al gruppo degli amici Dossetti, Moro ed altri, dice La Pira, sapevo dove arrivare: “affermare i valori della persona, la sua architettura, il suo mondo interiore di libertà, l’atto mistico che lo definisce. Affermare che questa persona è nel contesto della comunità: quindi la famiglia, quindi la città, quindi la nazione, quindi tutte le altre nazioni”. Tutto cambiò quando divenne sottosegretario al lavoro: “Io non avevo mai capito che cosa fosse la disoccupazione… Che scoperte!… Così io ero passato accanto a tante cose, anche al lavoro, ma non l’avevo capito. L’ho capito quando fui là: allora capii che cos’è il valore di fondo del lavoro, e quindi della disoccupazione. Che scoperte! Se non si fanno scoperte non si fa nulla: tu ci passi accanto e non te ne accorgi. È come un turista: viene a Firenze, passa accanto al Battistero. Siamo dei turisti: si passa accanto alla disoccupazione e non si sa che cosa sia la disoccupazione.  Passi accanto a quello che è senza casa e tu non sai che cosa è la casa, non l’hai mai scoperto. Passi accanto alla città e non sai che cos’è la città, non l’hai mai scoperta. Così io, ero passato accanto a tante cose, anche al lavoro, ma non l’avevo capito. L’ho capito quando fui là: allora capii qual è il valore di fondo del lavoro, e quindi della disoccupazione”.

Una volta, intervenendo ad un Convegno dei giuristi cattolici (novembre 1951) dovendo svolgere il tema “il Cristianesimo e lo Stato” si abbandonò, in modo giocoso, ma serissimo, a queste confidenze: “Una volta, quando ero più giovane e non avevo questi contatti, magari facevo delle preghiere più lunghe e più belle, più affettuose al Signore; ed anche un esame di coscienza più approfondito e più acuto, ma sempre su cose che riguardavano me, in certo modo: se avevo pregato Dio, se avevo detto qualche parola poco delicata nei confronti di un amico. Adesso sono diventato di una coscienza dura, perché ormai mi stizzisco dalla mattina alla sera, ed anche mi arrabbio. E la sera affiora nel mio esame di coscienza questa popolazione che aspetta di avere la casa, di avere il lavoro dal quale dipende la sua vita fisica e spirituale, o di avere la streptomicina. Dico: “Signore, perdonatemi che mi arrabbio”, tuttavia resta quell’altra cosa nella mia coscienza. E capisco che, effettivamente, se avessi esercitato più amore e più intelletto nel ricercare gli strumenti, forse avrei dovuto aver qualche occupato di più, qualche casa di più e qualche medicina di più e qualche consolazione di più. Quindi questo esame di coscienza si sposta da me agli altri”.

L’ingresso di La Pira in questa nuova consapevolezza coincide con l’esercizio concreto delle sue nuove responsabilità di sindaco di Firenze. “Ho capito allora che il cristianesimo è storia e geografia”. Non fu per sua scelta che La Pira divenne sindaco di Firenze, ma perché nel contrasto acuto tra comunisti e democristiani l’unica possibilità di sottrarre la città all’amministrazione rossa non c’era nessun candidato al di fuori di lui, che era già una leggenda negli strati popolari, anche di obbedienza comunista. Portare in Palazzo Vecchio un sindaco non comunista sulle spalle dei poveri: ecco il capolavoro strategico della coalizione che si improvvisò attorno alla candidatura di La Pira. Il quale accettò più come uomo di Chiesa che come uomo della DC, di cui non volle mai la tessera(“la mia unica tessera è il Battesimo” diceva) ed entrò nella competizione elettorale senza indulgere al linguaggio della competizione, con l’intento di farsi portavoce di quelli che nella città non avevano peso. Questa sua diversità non era tattica, rifletteva la sua visione delle cose, su cui nulla potevano i condizionamenti delle segreterie di partito, né la pressione dei gruppi abituati a porre le ragioni di parte al di sopra del bene comune dei cittadini. Una volta sindaco, non poteva certo modificare le regole del gioco, nemmeno quelle di un consiglio comunale, ma rifiutò, per quanto possibile di restarne prigioniero. Il fine, se voluto sul serio, comanda anche sui mezzi, crea un metodo omogeneo a sé. Se il fine di un sindaco è di edificare la città secondo una architettura di pace, il metodo non potrà essere che quello della collaborazione, la più larga possibile.

A leggere i discorsi e gli scritti di La Pira, si avverte che, dopo una certa data, e precisamente dopo la sua elezione a sindaco, essi traboccano per esuberanza di immagini spesso candide, come capita agli innamorati, e qualche volta profonde, come capita a chi, per forza di amore, intuisce le questioni di fondo della realtà. Per chiudere la sua giornata a Palazzo Vecchio, quando era possibile, egli si faceva portare dal fedele autista al Piazzale Michelangelo, dove sostava in commossa contemplazione: “Mia dolce e misurata e armoniosa Firenze!”. Guardava la cupola del Brunelleschi e la torre di Arnolfo e si faceva investire dal mistero di quei tetti che, come sotto le ali,  alla cupola e alla torre si coordinano e si uniscono.

Nella concezione di La Pira l’amministrazione da lui presieduta era l’organo competente a “soddisfare i bisogni più urgenti degli umili, avviando a soluzione i problemi dei più poveri della città, a potenziare l’attività industriale, agricola, commerciale e finanziaria, a far diventare Firenze un centro di valori universali”.

Scriveva Nicola Pistelli nel 1955, a diretto contatto con La Pira sindaco, che “la storia di La Pira è una storia impossibile a raccontarsi per intero, tanto la cronaca risulterebbe arida a confronto con la realtà”. Per rendere meno arida la cronaca Pistelli rievoca i disoccupati in cerca di lavoro e di vestiario, che ti dicono fiduciosi “vado a dirlo a La Pira”; il bicchiere di latte e cioccolata offerto ai bambini delle scuole elementari, ricchi e poveri; l’invito del sindaco a tutti i ragazzi perché la mattina dell’Epifania vadano a fargli visita in palazzo Vecchio, dove troveranno giocattoli e dolci. E giustamente annota: Sbaglia chi dice che in tal modo La Pira ha ridotto la sua amministrazione a un’opera assistenziale, perché lo scopo a cui mirava era di restituire al cittadino “il sapore perduto della comunità” e di fargli scoprire “il patrimonio di energie che ancora gli rimangono”. Inoltre La Pira si era preparato alle responsabilità di pubblico amministratore con una impegnata meditazione sui problemi economici fino a pubblicare un saggio dal titolo L’attesa della povera gente e, in risposta al vivace dibattito che ne era seguito, aveva pubblicato una lunga e diligente replica La difesa della povera gente. L’intento era di delimitare la sfera delle leggi economiche collocandole in un contesto antropologico, che ne riveli il valore di puri strumenti. Anche per lui l’assolutezza dell’economia è una menzogna ideologica, che mette in ombra il dato di fatto che è pur sempre l’uomo che fa le leggi, e le fa in base al fine che si propone. “La disoccupazione – scrive La Pira, seguendo la scuola keynesiana – è un consumo senza un corrispettivo di produzione: è perciò uno sperpero di beni e di forze produttive”. I disoccupati, infatti, esistono e se esistono consumano. La via per uscire dalle contraddizioni del sistema è semplice: “partire dall’occupazione non dal denaro: partire dall’uomo, cioè dal fine, non dal denaro, cioè dal mezzo”. Tocca allo Stato, mediante una politica di piano, orientare gli investimenti in modo da riassorbire la mano d’opera disoccupata. Chi lavora ha un salario, chi ha un salario può comprare, chi compra dà un incentivo alla produzione, e così il cerchio si chiude con beneficio di tutti.

Alla maniera di Gandhi, La Pira non riusciva a capire come si potesse vivere la responsabilità politica (“la più alta dopo quella dell’unione con Dio”) restando prigionieri di angusti obiettivi personali o di parte. Giorgio La Pira “parla” ancora agli uomini e alle donne del XXI secolo. Giorgio La Pira “parla” ancora in modo particolare agli uomini e alle donne che hanno ricevuto l’incarico di servire, come sindaci,  il bene della loro  città e del loro paese. Che dice il sindaco La Pira a voi, sindaci d’Italia?

1. Custodite il sogno di aiutare la crescita di una città in cui le persone si aiutano a risolvere i problemi di tutti i giorni . Nella inaugurazione della città-satellite Isolotto, consegnando le chiavi alle famiglie assegnatarie dice: “Amatela questa città, come si ama la casa comune destinata a noi e ai nostri figli. Custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole; curatene con amore, sempre infiorandoli e illuminandoli, i tabernacoli della Madonna, che saranno in essa costruiti: fate che il volto di questa città sia sempre sereno e pulito. Fate, soprattutto, di essa lo strumento efficace della vostra vita associata; sentitevi, attraverso di essa, membri di una stessa famiglia; non ci siano tra voi divisioni essenziali che turbino la pace e l’amicizia; ma la pace, l’amicizia, la cristiana fraternità fioriscano in questa città vostra come fiorisce l’ulivo a primavera! Create anche voi, in questa città satellite, un focolaio di civiltà; ponete a servizio dei più alti ideali dell’uomo – ideali di santità, di lavoro, di arte e di poesia – i talenti di cui voi siete ricchi: fate che in questa città satellite sia coltivato, per le generazioni future, un seme fecondo di bene e di civiltà”.

2. Occorre cominciare dagli ultimi e rispondere a “L’attesa della povera gente“. Dunque, attenzione affettuosa ed impegno costante per “le periferie” delle vostre città. Ecco, per La Pira, i problemi concreti della gente, come il problema della casa. Nel 1951, il Sindaco del Dialogo si è trovato con più di 500 sfrattati e novemila disoccupati, mentre l’8% della popolazione aveva il libretto di miserabilità. Al segretario della Dc nel 1955 aveva dichiarato: “Fino a quando voi mi lasciate in questo posto – sindaco – mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città. Chiusure di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Tutta la vera politica sta qui: difendere il pane e la casa della più gran parte del popolo italiano… Il pane, e quindi il lavoro, è sacro; la casa è sacra: non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo!”.

3. La Pira aveva scelto come motto, che spesso fioriva sulle sue labbra, “in spem contra spem”: è quanto scrive l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani parlando di Abramo. “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rom 4,18). Il disegno di Gesù non è soltanto escatologico, non è solo per i cieli nuovi e le terre nuove, ma anche per questa terra destinata a fiorire, anche per questa terra fatta per i diecimila anni di pace di cui ispirato parlò Kennedy. Il discorso di Gesù a Nazareth è tutto qui: i ciechi vedono, gli zoppi camminano … la buona novella è annunciata ai poveri: questo tempo nuovo è già cominciato con Gesù ed esige la sua piena fioritura: Dio lo disegna: “come in cielo così in terra”.

4. Il cristiano è un uomo libero, che risponde solamente al Vangelo. “Il Vangelo parla chiaro. Nella scelta fra i ricchi e i poveri; fra i potenti e i deboli; fra gli oppressori e gli oppressi; fra gli occupati e i licenziati; fra coloro che ridono e coloro che piangono; la nostra scelta non ha dubbi:  siamo decisamente per i secondi”. Ricordo che una volta il sindaco, dopo aver percorso tutte le strade per le migliaia di persone senza tetto, chiese ad alcuni proprietari immobiliari di affittare al Comune una serie di appartamenti vuoti. Poi, ricevendo poche risposte, ordinò la requisizione degli immobili (in base ad una legge del 1865 che dava questa facoltà in situazioni di emergenza o gravi motivi di ordine pubblico). I proprietari ricevevano dal Comune un canone di affitto con l’impegno della eventuale rimessa a posto al momento della restituzione. Fioccarono polemiche ed anche denunce: dalle cause giudiziarie La Pira è sempre uscito regolarmente assolto. Il 28 giugno 1955 il quotidiano francese “Le Monde” commenta: “Giorgio La Pira: chi non conosce oggi questo piccolo uomo vivace e dolce, questo “cristiano da choc”, che si è lanciato nella vita pubblica senza nulla concedere alla potenza del denaro né perdere nulla del suo temperamento di asceta? Il fatto è tanto raro che sembra avere del miracoloso. Totalmente povero, una camera d’ospedale per casa, votato al celibato. La Pira attraversa gli onori senza vederli. Coltiva due grandi passioni: l’amore per gli operai e quello per gli ordini contemplativi con i quali trattiene regolari contatti”.

5. La strada per l’umanità è il sentiero isaiano della pace: le spade in aratri, le lanci in falci. La stagione di La Pira sindaco si chiude dopo la sua terza Giunta (1961-1965). Ma, lasciando Palazzo Vecchio non rinuncia a svolgere il ruolo che nel frattempo si è ritagliato, e che gli calza a pennello: quello di “ambasciatore di pace” di Firenze nel mondo. Già nell’Epifania 1951 aveva deciso di consacrare  la propria vita alla pace. Quel giorno prese l’iniziativa  di far arrivare un messaggio a Togliatti perché esercitasse pressione sui sovietici per porre fine al riarmo nucleare. Il tentativo era disperato: e infatti la risposta di Stalin , a quanto si racconta, fu sprezzante. Ma è l’inizio di una serie di gesti profetici che vedranno La Pira al centro dei più grandi avvenimenti mondiali. A chi lo accusava di portare nel campo politico motivazioni evangeliche e teologiche rispondeva: “Si dice che La Pira ha una ispirazione teologale. Di qualunque opinione politica siate, di qualunque credenza religiosa siate, se intendete per ispirazione teologale il rispetto della personalità umana, del pensiero umano, della libertà umana, il rispetto profondo dei grandi valori religiosi, che hanno costruito e costruiscono le civiltà, questa allora è la nostra ispirazione cristiana, perché aperta ad ogni libertà, ad ogni luce, ad ogni verità”. Scrivendo la Vita interiore di Ludovico Necchi  (Vita e Pensiero, Milano 1954)  così si era espresso: “Sulla terra, in un’ora misteriosa e dolce della storia umana, nacque nel mondo Maria e attraverso Maria nacque nel mondo Gesù. Il contesto storico e cosmico non può più “liberarsi” – per nessuna ragione e per nessuna forza – da questo fatto divino che gli è divenuto essenziale: l’edificio storico e cosmico non può più liberarsi dalla pietra fondamentale che è divenuta pietra d’angolo e fondamento di roccia”.

Lelio Lagorio, che è successo a la Pira come Sindaco, ha scritto: “Gli schemi partitici non lo appassionavano. I partiti, per lui, al massimo potevano divenire strumenti sopportabili per un disegno più elevato. Amava le grandi sfide, non il cabotaggio, ma sapeva star dietro anche alla politica delle piccole cose alle quali era più attento di quanto comunemente si credesse. Uno dei punti focali della sua riflessione era il riconoscimento del valore assoluto della persona”.

Di qui, in certo modo, nascono gli impegni che caratterizzano il suo impegno e la sua azione politica:

– Capacità di ripensare la città nella sua storia e nei suoi segnali estetici.

– Considerare la città come grande patrimonio per l’umanità, capace di parlare di pace a tutti gli uomini.

Il tutto inserito in una strategia unitaria (che ci fa scoprire il piano di Dio nella storia del mondo come in quella di ciascuno di noi); impegno contrassegnato dalla fede (…pilotare la speranza perché essa si traduca in organismi economici, tecnici, sociali, culturali e politici atti a realizzarla); caratterizzato dalla speranza (abituandosi a leggere la cosiddetta “storiografia del profondo”); incarnato nella carità, nella concretezza delle persone e delle cose; aprendo fiduciosamente la strada ai giovani, come diceva La Pira: “per ricordare loro l’impegno pubblico che li attende: per prepararli ad esso: per mostrarne loro il valore, l’essenzialità, la bellezza, il rischio; per suscitare nel loro animo, sin da ora quei sentimenti di dedizione, di sacrificio, di amore, che esso esige: per dare loro la consapevolezza di questa grande verità: che la città – come scrisse Leon Battista Alberti – è una grande casa comune nella quale abita una comune famiglia fatta di generazioni che si susseguono – le une alle altre solidali – nel corso dei secoli”.

Concludo ascoltando una parola del sindaco Giorgio La Pira che bene illumina la vostra iniziativa di incontrare il Papa: “La Chiesa possiede ‘istintivamente’ il senso del tempo: ha, come gli uccelli, l’istinto delle stagioni; intuisce, in virtù di una forza interiore, la genesi delle epoche nuove nel corso (organico) della storia del mondo!”. Positivo e bello, allora, che, in questo tempo di crisi e di speranza, voi siate qui per incontrare Papa Francesco il quale, quando era arcivescovo di Buenos Aires, ha scritto che Dio vive già nella città ed ha aggiunto: “La speranza cristiana non è un fantasma e non inganna. È una virtù teologale e dunque, in definitiva, un regalo di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non defrauda la speranza, non può rinnegare se stesso. Dio è tutto promessa”.

Giorno 1 Aprile 2014, Mons. Loris Francesco Capovilla, già segretario di Sua Santità Giovanni XXIII, amico di Giorgio La Pira e da pochi mesi nominato Cardinale da Papa Francesco, ha scritto così alla Fondazione sottolineando il suo vivo ricordo del Professore: