La testimonianza di La Pira e la formazione dei giovani

 di Gabriele Pecchioli,

presidente dell’Opera per la gioventù “Giorgio La Pira” e vicepresidente della Fondazione La Pira.

La prospettiva educativa, e più in generale, la prospettiva dei giovani è fondamentale. La Pira “parla” ai giovani: davanti alla sua testimonianza essi ne sentono l’autenticità, la passione, il disinteresse, la prospettiva, la capacità di immaginarla e di renderla concreta. La Pira parla ai giovani non solo in senso figurato: sentiamolo parlare!

(Ascolto dell’audio, qui disponibile, dell’incontro fra il prof. La Pira e i giovani dell’Opera per la gioventù presso il Villaggio La Vela di Castiglione della Pescaia nel 1975).

 

Perché La Pira a La Vela?

Giorgio La Pira ha fortemente connotato l’esperienza educativa dell’Opera, che è sorta per iniziativa di una grande figura di laico cristiano, Pino Arpioni, e che oggi ne porta il nome. Più che collaborare con La Pira, Pino ne ha condiviso in pieno il programma di azione, ed i suoi fondamenti. Se mi è consentito, ne ha condiviso anzitutto la spinta continua all’esercizio concreto del comandamento della carità; sempre con l’attenzione di La Pira, ha cercato di trasmetterne le intuizioni a generazioni di giovani.

La Pira, proprio a dimostrazione di questa profonda sintonia e familiarità, venne nei primi anni settanta ad abitare a Casa Gioventù: la testimonianza di chi, giovane studente universitario o obiettore di coscienza in servizio civile, ha vissuto quegli anni insieme a La Pira ci parla di un uomo dotato di una forza straordinaria, che riponeva immensa fiducia nei giovani (“come le rondini, annunciano l’arrivo della primavera”). Rientrando in casa questo era il saluto consueto: “cose grandi, ragazzi!”. In questo contesto nascevano anche le visite del Professore a La Vela, che è il centro educativo principale dell’Opera.

Proprio dal sodalizio con il “Professore”, con cui collaborò fin dalla prima amministrazione come consigliere delegato ai cantieri di lavoro, poi come assessore al personale nel suo terzo mandato di Sindaco, Pino trasse sostegno ed ulteriore conferma al servizio educativo nei confronti dei giovani iniziato fin dal termine della guerra: il sogno, meraviglioso, maturato dopo i drammatici giorni della deportazione in vari campi di prigionia, di trasformare le baracche dei prigionieri, luoghi di disperazione e di morte, in strumenti di speranza e di vita. La Vela ed Il Cimone, anche nella loro struttura, hanno la loro radice qui.

Una vocazione, dunque, che con La Pira, forse ha finito di formarsi, ma già indirizzata. Da questo incontro, potremmo dire, in qualche modo, si è formata la consapevolezza, nuova ed ulteriore, eppure già presente in radice, del valore “storico” dell’azione educativa: accompagnare i giovani non era, e non è, esercizio di assistenzialismo, ma significa aiutarli, con lo sviluppo di tutte le dimensioni della persona, ad inserirsi responsabilmente nella vita della comunità, a tutti i livelli. Un’azione educativa, pertanto, in cui la formazione spirituale non è mai stata scissa dal richiamo al necessario impegno sociale, connaturato alla vocazione comunitaria della persona umana: conformata cioè, secondo il noto motto lapiriano, alla necessità di tenere “in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale”.

Vediamo alcuni punti salienti della figura di Pino: non sarà difficile, in essi, vedere trasparire il cammino percorso con il Professore. Nella Rivista di ascetica e mistica, n° 1, gennaio-marzo 1978, Pino stesso così indicava le “direttrici fondamentali” dell’azione educativa dell’Opera da lui fondata: la riaffermazione della dimensione spirituale dell’uomo; l’amore alla Chiesa; l’impegno personale nella solidarietà umana. In questo c’è evidentemente anche il suo personale percorso.

Una profonda vita di fede ed una laicità intransigente. Prima ancora che con l’insegnamento di qualche precetto, Pino ha testimoniato con la sua vita, fino all’ultimo, la sua adesione a Cristo. Ai capigruppo che nei campi scuola gli manifestavano la difficoltà di far comprendere ai ragazzi l’importanza dei momenti di preghiera e della partecipazione alla Messa richiamava, anzitutto, la necessità della testimonianza personale: ciò era, del resto, ciò che lui stesso viveva in prima persona. La prima educazione alla preghiera, per tutti noi, ad esempio, è stata vederlo partecipare alla Messa: traspariva sempre una profonda partecipazione al mistero eucaristico, un’adesione piena che poi diveniva prassi quotidiana nella continua riaffermazione che l’esperienza educativa poteva essere vissuta solo in piena comunione, tra fratelli e con il Signore.

Nel contempo (e, diremmo, per necessaria conseguenza) era un uomo di una laicità intransigente nell’azione sociale e politica: la ricerca del bene, del singolo come di quello comune, non era prerogativa del credente, ma la viveva come valore di ogni uomo, credente e non; era un cammino da farsi insieme, sempre, senza bisogno di indossare casacche e senza allo stesso tempo rinunciare alle proprie convinzioni, ma nella fatica della ricerca, accanto a chi partiva da posizioni diverse, dell’autentico bene, comune a tutti.

L’Opera (l’opus), il fare ed il da farsi. Dal contatto con la sorgente non poteva che nascere l’impegno nella realtà umana. Per Pino è stato, con scelta totale, il servizio educativo per i giovani. In questo senso la sua azione si è davvero concretizzata in una “Opera”: nel rendere cioè concreta ed attuale, perché rispondente ad una vocazione precisa a cui non era possibile venire meno, l’esperienza di vita integrale, e perciò anche comunitaria, che riteneva necessaria per i giovani. Ecco i Villaggi, “rovescio della medaglia” dei campi di concentramento: immagine esteriore di un “fare” faticoso ma in continuo divenire, mai scoraggiato dalle difficoltà materiali e sempre vissuto in un’ottica provvidenziale, dell’essere strumenti docili nelle mani di Dio. In questa spinta continua all’esercizio concreto del comandamento della carità, come già detto, c’è una profonda compartecipazione allo spirito di La Pira.

La comunione con la Chiesa e l’impegno di laico cristiano. L’esperienza nell’Azione Cattolica a fine anni Quaranta e negli anni Cinquanta, prima “palestra” di un impegno ecclesiale sempre rinnovato con l’assunzione di impegnative responsabilità e di scelte non sempre facili, la rammentava come una scuola in cui era stato formato al valore della laicità cristiana, in tempi ancora precedenti al Concilio. Una laicità, sua e dell’Opera, riaffermata sempre con forza e non sempre compresa in pieno in ambito ecclesiale, che tuttavia era un tutt’uno con l’amore alla Chiesa. L’impegno come laici nell’Opera ci ha sempre spronati a viverlo anzitutto nella dimensione, vocazionale, di “servizio” nel popolo di Dio e non come un’appartenenza ad un movimento, secondo un’impostazione sempre mantenuta.

Ed è nel rifiuto di una dimensione intimistica della fede che ha incoraggiato e spinto all’impegno sociale e politico centinaia di giovani: ha creduto fermamente che “la politica è la forma più alta di carità”, secondo l’espressione di Paolo VI, e conseguentemente si è comportato, in prima persona, assumendo importanti incarichi pubblici, e nel servizio educativo: negli incontri di studio mai è mancato, ad esempio, l’omaggio alla città che i giovani visitavano incontrando il sindaco, espressione di tutta la comunità locale.

Il sodalizio con Giorgio La Pira e lo sguardo sul mondo. In Pino abbiamo sperimentato il continuo ed instancabile riferimento al magistero del Professore. In qualche modo la vita stessa dell’Opera, nelle sue scelte fondamentali, infine da qualche anno anche il nome, doveva esserne il riflesso. Certo la vocazione di Pino, maturata nell’esperienza della prigionia, con la consapevolezza della drammatica responsabilità educativa di ogni uomo, si è detto, era formata anche prima dell’incontro con La Pira. Se dunque in questo incontro ha trovato compimento e senso definitivo, allora anche “la scelta popolare del proprio ambito di attività”, l’attenzione ai “problemi del fratello vicino, come della più vasta comunità umana”, la proposta ai giovani di “attuare un amore a Dio che sia misurato su un concreto amore ai fratelli” (testo prima citato), ancor prima il primato della vita di Grazia, sono fondamenti senza dubbio frutto di una collaborazione e di una sequela feconda. E, infine, nella ricerca del senso della “navigazione storica” dell’umanità c’è tutto l’impegno di Pino nel dialogo ecumenico ed interreligioso; ricerca di unità e pace con la costruzione, seguendo fedelmente le “ipotesi di lavoro” di La Pira, di tanti “ponti” di preghiera e di azione che, gettati con pazienza, oggi continuano ad indicare una prospettiva.

Questa vicinanza ha evidentemente influenzato il metodo ed i contenuti del servizio educativo dell’Opera:

 – il fondamento binario della formazione;

– l’amore alla Chiesa;

– la prospettiva del dialogo nella comune famiglia abramitica e internazionale (Abbattere i muri, costruire i ponti: l’esperienza concreta del campo internazionale, che parte dai giovani – di 16 nazionalità diverse quest’anno – e che ha il suo elemento centrale nell’esperienza di vita comunitaria, con la riscoperta dell’umanità dell’altro, nel dialogo tra culture e religioni)

La prospettiva educativa: in conclusione, è necessario richiamarla.

In questa prospettiva c’è tutto: c’è la necessaria attività di ricerca e di approfondimento; c’è la necessità di individuare strade e strumenti per trasmettere ai giovani questa grande eredità, valorizzando le esperienze già in atto e cercando strumenti nuovi. In questa prospettiva, in qualche modo, c’è il programma di lavoro della Fondazione e di tutti noi qui oggi riuniti. C’è una “sete” del mondo giovanile che non va dimenticata. C’è un sempre maggiore numero di giovani che viene a Firenze e chiede di conoscere La Pira. Viviamo in un contesto digitale ma le domande di fondo restano. Rispondere a queste domande di fondo, cercando ispirazione nel Professore, induce alcune prospettive di impegno con il modo giovanile: il dialogo; l’accoglienza; la formazione umana; la formazione politica; il risveglio delle coscienze sui grandi temi. Grazie a tutti. 

Spes contra Spem 2015: intervento di Rocco Pagliaminuto

 

La formazione politica dei giovani

di Rocco Pagliaminuto

 

L’intervento da me previsto sarà molto breve e riguarda la tematica della formazione dei giovani in La Pira. Tematica peraltro esaurientemente trattata da Gabriele Pecchioli, in particolare l’aspetto che ha riguardato l’associazione Opera, di Pino Arpioni che ha avuto un notevole impatto sulla formazione dei giovani che in quel periodo lo hanno seguito. Quello che mi ha colpito, studiando l’attività di questa associazione, è stata l’esperienza del  campo scuola, esperienza di formazione definita integrale con un percorso di riflessione, studio, preghiera e attività sportive, ricreative e e culturali. Sono stato sempre convinto che una vera educazione si possa dare solo attraverso un’attività ricreativa e ludica così come Arpioni ha messo in atto, lo dico con cognizione di causa essendo da anni impegnato in esperienze di scuola calcio che mi permettono di mettere in pratica progetti di carattere altamente educativo  convenzionati con le scuole, non da ultimo quello che sta per essere redatto, ossia educare alla legalità attraverso il calcio.

Ma la formazione dei giovani, come ha brillantemente sottolineato Gabriele Pecchioli, deve essere intesa anche come formazione politica per il servizio al bene comune. Quello della formazione politica dei giovani era un argomento caro a Giorgio la Pira quando nella “La nostra vocazione sociale” diceva: “Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa “brutta”! No: l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti […] – è un impegno di umanità e di santità!”.

E’ bellissima questa espressione, da brividipurtroppo gli avvenimenti politici degli ultimi anni e la situazione etico-sociale attuale sembrano invitarci a stare lontano dalla partecipazione attiva alla vita politica e ad estraniarci dalla qualità della democrazia. Seguendo l’esempio di Giorgio La Pira si deve affermare il rifiuto dell’ “antipolitica” e siamo  invitati, piuttosto, ad una riflessione più profonda fino ad interrogarci sul significato stesso della politica, a domandarci se la crisi che stiamo attraversando è solo conseguenza di una congiuntura economica e quindi sociale, o se ha origini più radicate e più lontane. Probabilmente infatti abbiamo perso di vista il senso principale di quello che spinge l’uomo a dedicarsi alla Cosa Pubblica, attraverso il raggiungimento del bene comune, prima vera necessità a cui si ordinano tutte le altre; in questo senso la politica è la categoria cui si ordinano tutte le altre attività umane.

Giorgio La Pira definisce la politica come “la più grande delle attività terrene perché è l’organizzazione del mondo e l’orientamento di tutta la vita terrena: superiore ad essa c’è solo la contemplazione, quella vera”.

I criteri ispiratori dell’azione politica di un credente non possono che essere lo spirito di servizio e la volontà di perseguire il bene comune, tutto ciò nel totale rispetto dei diritti della persona, nella ricerca della giustizia, nel costante sforzo di rendere compiuta, giorno per giorno, la democrazia. La politica, perciò, come “alta forma di carità”, secondo le parole di Paolo VI.

“Non è consentita al cristiano nessuna neutralità – aveva scritto già nel ’39 in Princìpi – Se c’è un male, egli deve intervenire per porre riparo, per quanto è possibile, agli effetti dannosi del male. Perché altrimenti che senso avrebbe il precetto dell’amore? Se scorgo il fratello ferito dai ladroni, io sono tenuto a piegarmi amorevolmente presso di lui: devo intervenire per riparare alle conseguenze dell’odio. Cristo è intervenuto nel dramma doloroso dell’uomo: ed ha pagato questo intervento redentore con il sacrificio della vita.

Coinvolgersi nella politica è un obbligo per un cristiano. “Noi cristiani non possiamo “giocare da Pilato”, lavarci le mani: non possiamo. Dobbiamo coinvolgerci nella politica, perché la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune. E i laici cristiani devono lavorare in politica. […] Lavorare per il bene comune, è un dovere di un cristiano! E tante volte la strada per lavorare è la politica (dal discorso del Santo Padre Francesco agli studenti delle scuole gesuite – venerdì 7 giugno 2013)”.

All’agire politico come forma di carità non sono chiamati solo i cristiani, ma tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che vogliono – nel rispetto della reciproca libertà – trovare soluzioni comuni per dare risposta alle necessità di tutti.

La politica infatti non guarda al bene del singolo, ma nemmeno a quello di una piccola comunità omogenea (cristiani e musulmani, omosessuali ed eterosessuali, italiani ed extracomunitari etc.), ma di tutti: di tutti nelle loro differenze e dunque nelle loro differenti esigenze e aspirazioni, alla ricerca di un compromesso comune che tuteli tutte le parti in causa.

La politica è pensiero e azione. Richiede conoscenze interdisciplinari. L’attore politico deve essere in grado di ricorrere ai metodi e ai saperi di una serie di discipline per meglio organizzare, con spirito di servizio, una società di persone.
Perciò la politica è tributaria della storia, della filosofia, della sociologia, dell’economia, del diritto, della psicologia, delle scienze della comunicazione, della letteratura e di tutte le discipline utili alla comprensione dei fenomeni sui quali la politica è chiamata ad intervenire.

Ecco, dunque, quale vuole essere la mia proposta, che in sostanza è anche quella di Pecchioli quando parla di impegno di tutti, la creazione di una scuola di formazione politica che deve trasmettere ai partecipanti il senso di questa interdisciplinarietà, la quale consente al politico, come al giornalista o allo studioso di politica, di analizzare la realtà e di valutare attentamente le scelte della politica. Un progetto di formazione politica che miri a diffondere “cultura politica”  deve prevedere una diffusione ai cittadini interessati e attivi nelle realtà municipali e comunali che non possano dedicare un impegno assiduo nella propria formazione politica. Una proposta che deve coinvolgere soprattutto le associazioni sparse sul territorio con una formazione politica-educativa, cioè una vera e propria scuola di formazione sempre coordinata dalla Fondazione, peraltro la Fondazione anni or sono aveva già provato ad istituire una scuola che diffondesse i valori e il pensiero politico di Giorgio la Pira che non deve essere inteso come un pensiero politico democristiano e prettamente religioso, ma il pensiero del buon vivere civile secondo natura che ha costituito il tema della filosofia di  J. J. Rousseau nel contratto sociale. Creare un percorso di formazione che possa fornire elementi di riflessione e conoscenza e permettere ad ognuno di esprimersi liberamente e manifestare le proprie idee, ma soprattutto di realizzare la dignità umana con la eliminazione della disoccupazione ed i bisogni.

Conclusioni.

Si può affermare, senza ombra di dubbio, che uno degli aspetti che caratterizzarono il La Pira politico fu la testimonianza, ovvero un’intensa operosità tesa ad affermare l’autentico amore verso il prossimo. Il suo motto, mutuato dalla lettera di San Paolo ai Romani, era spes contra spem” e lo ricordavo spesso, soprattutto in quelle circostanze che avrebbero fatto disperare chiunque. I criteri ispiratori dell’azione politica di un credente non possono che essere lo spirito di servizio e la volontà di perseguire il bene comune,  tutto ciò nel totale rispetto dei diritti della persona, nella ricerca della giustizia, nel costante sforzo di rendere compiuta, giorno dopo giorno,la democrazia e soprattutto non dimenticando quello che è la frase, forse più bella, che sintetizza la missione di un politico: “Quando Cristo mi giudicherà io so di certo che Egli mi farà questa domanda unica (nella quale tutte le altre sono conglobate): Come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto per sradicare dalla società la miseria dei tuoi fratelli e, quindi, la disoccupazione che ne è la causa fondamentale?”.

La scuola “Giorgio La Pira”, tuttavia, non si limita ad un discorso di cultura “alta”. Sono, altresì, valutate le tendenze emergenti, i fatti e le situazioni di maggior rilievo nel nostro tempo, per maturare orientamenti di pensiero e d’azione, alimentando una cultura della responsabilità e della sussidiarietà, rispettando la legittima autonomia delle realtà terrene. Questo tipo di formazione tende a generare competenze e professionalità tali da poter addivenire ad una “mediazione culturale” tra fede e realtà temporale. La scuola pur restando indipendente dai partiti politici non è ideologicamente neutra. Infatti, sebbene nella massima autonomia, incoraggia a realizzare le necessarie mediazioni storiche per dar vita ad una “area politica” cristianamente orientata, laica e aconfessionale, aperta alla partecipazione e al contributo fattivo di tutti gli uomini di buona volontà. Convinta di interpretare l’aspirazione di larghi strati sociali, i quali attendono un punto di coagulo per uscire dallo smarrimento in cui li ha avvolti un bipolarismo astratto, conflittuale e avulso dalla realtà effettiva, richiama l’attenzione su una modalità storica all’interno della democrazia ove conta la quantità oltre alla qualità: l’unità dei cattolici in politica. Per aver peso, infatti, occorre essere in tanti. Al di là delle piccole differenze c’è un percorso di fondo uguale. I cattolici per “generare una storia”, per essere edificanti per la nostra società, devono stare insieme. La diaspora, caldeggiata dagli avversari, dai poteri occulti ed ingenuamente abbracciata da cristiani, espone all’invisibilità ed all’insignificanza.

Grazie e ad maiora

Spes contra Spem 2015: intervento di Emilio Ottanelli

 

Intervento di Emilio Ottanelli (Circolo di Radicondoli, Siena)

Questo convegno merita molta attenzione per le relazioni di alto livello e gli interventi interessanti. E non è mancata neppure una sincera commozione per le testimonianze personali vivissime sul Professore. Complimenti agli organizzatori e incoraggiamenti a proseguire su questa strada.

Tra tante voci dotte e affascinanti per contenuti ed esposizione, è bello che si possa sentire anche qualche voce più modesta, come la mia. E, in fondo, ciò è in linea con il pensiero di La Pira e con il tema del convegno.

Rappresento il Circolo Acli di Radicondoli, un piccolo comune della provincia senese. E’ un circolo altrettanto piccolo; ma da tre anni è intitolato a La Pira, che sessanta anni fa, lui era allora sindaco di Firenze, inviò prima un’offerta per la Fondazione e poi gli auguri per la crescita.

Mi sembra interessante sottolineare  che quel protagonista della Costituente di cui ci ha parlato così bene il prof. De Siervo, subito prima di essere eletto aveva avuto una breve ma significativa esperienza, anzi aveva terminato quell’esperienza proprio perché eletto alla Costituente: dal gennaio 1945 al giugno 1946 La Pira era stato il Presidente Provinciale delle Acli fiorentine, delle quali era stato tra i promotori e tra i fondatori. Senza dubbio il tema dei legami Acli – La Pira è stato ampiamente affrontato ieri l’altro sera, giovedì 1 ottobre, durante la celebrazione per i 70 anni delle Acli fiorentine. Mi piace, però, sia pure brevemente, ricordarlo anche in questo contesto.

Non è fantasia pensare che le Acli abbiano avuto una forte spinta propulsiva dalla guida del “professorino” ed è altrettanto logico affermare che l’incontro con le Acli e con il mondo dei lavoratori, che esse rappresentavano, abbia dato ancora più certezze alle convinzioni sociali e politiche di La Pira.

Scrive a questo proposito Gabriele Parenti: “La profonda sensibilità sociale di Giorgio la Pira è stata il comune denominatore e l’elemento propulsore della sua straordinaria vicenda spirituale, politica e umana. E la breve ma significativa esperienza di Presidente delle Acli fiorentine si inserisce appieno in questo percorso; anzi ne costituisce un aspetto peculiare”.

E Federico Barni, Presidente ragionale Acli, aggiunge: “Le idee-forza che hanno segnato l’azione di Giorgio La Pira sui temi del lavoro e della difesa dell’occupazione, dell’assistenza ai più disagiati, della pace e della pari dignità di ogni essere umano in ogni parte del mondo, della ricerca di uno sviluppo integrale dell’uomo sono i punti cardine delle Acli, i punti fermi di oltre sessant’anni di storia”.   (Ora sono settanta!)

E d’altra parte le tre fedeltà delle Acli (al Vangelo, ai lavoratori, alla democrazia), alle quali Benedetto XVI ha invitato gli aclisti ad aggiungere quella “al futuro”, non sono le stesse del Professore?

Ma, detto ciò, nel nostro piccolo mondo a che cosa ci serve La Pira?

La realtà di Radicondoli assomiglia a quella di tanti altri piccoli Comuni toscani e italiani. Bellezza di paesaggi, ricchezza di storia e di arte, clima salubre, buona gente, discreta accettazione e integrazione degli extracomunitari presenti, esistenza lunga e tranquilla, relativo benessere economico: insomma tutte quelle caratteristiche che permetterebbero alle statistiche di definire “buona” la qualità della vita.

Ma, grattando un poco, sotto la superficie: la religione interessa poco, per lo più è relegata alle donne e per gli altri spesso è ridotta quasi a una forma di tradizione popolare e di folclore; la partecipazione alla politica è limitata praticamente solo alle occasioni elettorali ed è diffusa l’idea che la politica è inutile o addirittura dannosa; la cultura, per gli adulti soprattutto, consiste molte volte solo nella visione acritica della tv e nella lettura superficiale delle cronache locali; pur se non mancano isole di volontariato attivo (numerose sono le persone che fanno servizio per la locale Pubblica Assistenza) , buona parte della popolazione tende ad arroccarsi nel proprio privato; i giovani sembrano ormai privi di quelli che La Pira definiva “sogni in cammino”; ecc.

Ebbene l’aver intitolato il Circolo a La Pira è stato certamente tributo doveroso a un uomo che, ancora dieci anni dopo la sua esperienza aclista, si ricordava delle Acli e addirittura rivolgeva un pensiero e un augurio ad un piccolo paese del quale forse conosceva a malapena la collocazione. Ma è stato anche voler recuperare quei “sogni in cammino” di cui parlava La Pira, quelle  speranze da offrire alle persone per fare delle nostre utopie le radici concrete della nostra storia. Ecco allora che, partendo dalla concretezza del presente, possiamo cercare di guardare al domani e “sognare” un mondo diverso. Anche in un piccolo paese di campagna.

La nostra opera è modesta e i frutti sono tutti da verificare: ma non ci vogliamo arrendere.

Alla base di ogni nostra iniziativa c’è essenzialmente la volontà di coinvolgere: le persone devono tornare al centro delle cose.

Siamo partiti dallo spiegare, e lo facciamo costantemente, perché abbiamo intitolato il Circolo a La Pira e che cosa questa scelta comporta, anche sul piano del vivere quotidiano, dei comportamenti degli uni verso gli altri… anche  quando si gioca una partita a briscola! anche quando si tratta di abbattere qualche muro (perché i muri ancora resistono, più di quanto si creda) per costruire qualche ponte.

Poi, rispondendo anche agli inviti che ci vengono dalla Fondazione, abbiamo istituito una festa annuale, in occasione della ricorrenza dell’intitolazione, per pregare per la canonizzazione del Professore e cerchiamo di coinvolgere nell’iniziativa altri Circoli e altre Parrocchie (in questo siamo favoriti perché apparteniamo alla provincia di Siena ma siamo nella Diocesi di Volterra: e questo ci permette una “propaganda” maggiore).

Abbiamo dato il via a un percorso di incontri formativi, che stimolino le persone  ad uscire dall’isolamento e dal diffuso disinteresse e permettano loro di alzare gli occhi.

Abbiamo dato nuovo vigore ai servizi (Patronato e Caf), soprattutto per i soggetti più deboli, facendo leva sul volontariato (che, per la verità, come ho già detto, sembra essere uno dei pochi valori ancora presenti nella nostra società).

Abbiamo rafforzato i legami con la Parrocchia e con il Vescovo, intensificando le occasioni di incontro.

Abbiamo cercato di attivare la collaborazione con le Istituzioni locali e con le altre Organizzazioni e Associazioni presenti sul territorio.

Ci prepariamo a sbarcare su Internet e sugli altri Social (speriamo di attirare proprio in questo progetto i giovani, che, oltretutto, tra noi sono gli unici in grado di farlo) perché ci proponiamo di “fare rete” con realtà più in gamba per imparare dalle esperienze degli altri. E anche per questo ringraziamo, ancora una volta, la Fondazione che ci offre – e deve continuare a farlo – occasioni come l’odierna.

Messa in memoria del servo di Dio Giorgio La Pira nel XXXVIII anniversario della sua morte

Basilica di S. Marco

5 novembre 2015

Giovedì della XXXI settimana del tempo ordinario (anno dispari)

(Rm 14,7-12; Sal 26; Lc 15,1-10)

OMELIA

La pagina della lettera dell’apostolo Paolo che la liturgia propone oggi come prima lettura indirizza verso il centro stesso della fede. Essere cristiani significa rapportarsi alla persona di Gesù Cristo in modo tale da spossessarsi del proprio io fino a orientare verso di lui tutta l’esistenza: «sia che viviamo, sia che moriamo», in vita e in morte, cioè fino alla morte. All’uomo ripiegato su se stesso e preda di un avvilente egocentrismo si propone l’alternativa di un’esistenza trasfigurata perché illuminata dalla persona di Cristo a cui ci si sottomette in piena libertà.

Di questo era ben consapevole Giorgio La Pira, che dalla fede in Cristo, dalla consegna di se stesso a lui, ha tratto il significato della propria vita e l’ispirazione di ogni sua scelta. Ancora giovanissimo, scriveva alla zia Settimia: «La finalità della mia vita è nettamente segnata: essere nel mondo il missionario del Signore: e quest’opera di apostolato va da me svolta nelle condizioni e nell’ambiente in cui il Signore mi ha posto». E trent’anni più tardi, all’amico Fanfani, spiegava così, in una lettera, la sua “strana” attività politica: «Vedi caro Amintore, io non sono un sindaco, come non sono un deputato o un sottosegretario. […] La mia vocazione è una sola, strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell’Evangelo».

Ma per La Pira l’appartenenza a Cristo, vissuta con tanta intensità e pienezza, non si fermava alla propria persona: per lui Cristo è il perno intorno a cui ruota l’intero cammino dell’umanità. Lo scrive, in maniera chiara, sulla rivista Cronache sociali: «Se Cristo è realmente risorto – come lo è –, se la sua resurrezione gloriosa, pur essendo celeste, è anche terrena, la conseguenza è ineluttabile: gli eventi umani si collocano attorno a Lui – come attorno al loro centro – e si misurano con la forza divina di Lui».

Riconoscerci orientati a Cristo implica un’apertura senza riserve verso di lui, ma si compie solo nell’apertura senza riserve verso i fratelli. La prospettiva emerge, nel testo della Lettera ai Romani proclamato in questa liturgia, nell’invito a non farsi giudici gli uni degli altri. La riflessione di Paolo era nata infatti, all’inizio del capitolo 14 di questa Lettera, con la denuncia della divisione che si era creata nella comunità cristiana di Roma. Non entro qui nel merito delle cause di questa frattura; mi basta registrare che, secondo l’apostolo, la fraternità può essere rotta perfino facendosi scudo del nome di Cristo, in nome suo. Solo una completa consegna di sé a Cristo può mettere sulla strada dell’autentica edificazione nella fede. Possiamo cadere infatti nella tentazione di utilizzare Cristo per edificare se stessi. È quanto Papa Francesco ha più volte denunciato segnalando il pericolo di cadere vittime della mondanità spirituale, una tentazione che si oppone alla Chiesa “in uscita”, la Chiesa cioè che va in cerca dei segni della presenza di Dio nel mondo.

Di questa apertura è stato efficace testimone Giorgio La Pira, che anche nelle vicende più drammatiche del suo tempo, nelle guerre e nelle divisioni, cercava elementi di unità: «abbattere i muri, costruire ponti» era il suo principio ispiratore, ribadito in tante occasioni. In un’intervista del 1976 affermava: «Anche nel profondo della storia umana, così agitata nella superficie, vi sono delle grandi e misteriose correnti che trascinano in un senso ben preciso: verso l’unità e la pace. Bisogna saperle individuare».

Celebriamo questa Eucaristia in memoria di Giorgio La Pira mentre a Firenze sono riuniti sindaci di città di Paesi che vivono o hanno da poco vissuto in conflitto. Va ricordato che in questo scorrere della storia verso il porto della pace e dell’unità della famiglia umana, nel pensiero di La Pira un ruolo fondamentale è attribuito proprio alle città. «Le città – affermava in un discorso alla Croce Rossa, a Ginevra, nel 1954 – hanno una loro vita e un loro essere autonomi, misteriosi e profondi: esse hanno un loro volto caratteristico e, per così dire, una loro anima e un loro destino: esse non sono occasionali mucchi di pietre, ma sono le misteriose abitazioni di uomini e, vorrei dire di più, in un certo modo le misteriose abitazioni di Dio». E proprio a nome delle città colpite dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale La Pira faceva giungere il suo grido di pace: «Nessuno, senza commettere un crimine irreparabile contro l’intera famiglia umana, può condannare a morte una città!». Questo grido ha ancor oggi una sua tragica attualità per tutte quelle città ferite quotidianamente da attentati terroristici, guerre civili, forme di oppressione che limitano la libertà, civile o religiosa, di chi vi abita: anche oggi queste città possono gridare, con La Pira, che nessuno ha il diritto di ucciderle.

Tornando al testo dell’apostolo Paolo, ma anche alla luce delle parabole del vangelo di Luca, dobbiamo notare come una forma essenziale della totale consegna di sé al Signore e della disponibilità a riconoscerlo nel volto dei fratelli è la condivisione del cuore misericordioso di Dio, il quale non giudica nessuno perduto per sempre. Gesù mostra questo volto di Dio nelle parabole della misericordia. Questa misericordia non si pone confini e vuole abbracciare tutti. Ed è una misericordia che tocca ciascuno personalmente. Ciascun uomo e ciascuna donna sono una perla preziosa agli occhi e al cuore di Dio. Soprattutto quando sono poveri.

Sono convinzioni che guidavano Giorgio La Pira nella sua attività di sindaco: «Il nostro principio – affermava nel 1951, in uno dei suoi primi discorsi davanti al Consiglio comunale – è che nessuna persona a Firenze deve mancare delle cose più necessarie come il pane, il tetto, l’abito, la medicina». L’attenzione alle povertà materiali costituisce per La Pira il fondamento per consentire – soddisfatti i bisogni più elementari – «l’espansione integrale» della persona, rispondendo a un bisogno ancor più profondo: «Dare allo spirito dell’uomo quiete, poesia, bellezza!».

E in tutto questo, ancora una volta è centrale l’importanza delle città. La Pira sapeva bene che ogni città è una realtà fatta anche di solitudini, povertà, lacerazioni sociali, famiglie distrutte. Ma era anche fermamente convinto che è nel tessuto delle relazioni della comunità cittadina che ogni persona può trovare il proprio compimento e la propria pienezza. La città, affermava inaugurando il nuovo quartiere dell’Isolotto, è «la casa comune destinata a noi e ai nostri figli». «Amatela quindi – esortava La Pira – custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole. […] Fate, soprattutto, di essa lo strumento efficace della vostra vita associata: sentitevi, attraverso di essa, membri della stessa famiglia: non vi siano fra voi divisioni essenziali che turbino la pace e l’amicizia: ma la pace, l’amicizia, la cristiana fraternità, fioriscano in questa città vostra come fiorisce l’ulivo a primavera!».

Un auspicio che vorremmo possa diventare realtà per questa nostra città e per tutte le città del mondo.

Giuseppe card. Betori, arcivescovo di Firenze

Spes contra Spem 2015: intervento di Giovanna Carocci

Fioretta Mazzei: Essere laici non per amare meno.

di Giovanna Carocci

Presidente Associazione Internazionale Fioretta Mazzei – Firenze

La nostra civiltà, quella che ci ha caratterizzati finora come storia, cultura, anche in senso antropologico, retaggio ed elaborazione continua di convinzioni, arte e bellezza nel senso più alto possibile, ha sempre ruotato intorno e a partire dalla donna, cominciando dalla mea Domina per eccellenza: Maria, la Madre di Cristo. E’ questo un sigillo che, piaccia o no, ha costruito ed orientato tutto il nostro modo di riconoscerci e di avviare il nostro rapporto/confronto con noi stessi, gli altri, la società i problemi materiali e temporali e, finalmente, col Trascendente.

Fioretta Mazzei (1923-1998)1) era una donna che si riconosceva pienamente in questa civiltà che, a Firenze, trova sicuramente nel corso dei secoli, alcune delle sue più significative manifestazioni.

Nasce a Firenze il 26 settembre 1923 da una famiglia di antica nobiltà fiorentina. Conosce fin da bambina, nella cerchia delle amicizie paterne, alcune importanti figure di santità come don Giulio Facibeni e Giorgio La Pira.

Fioretta compie gli studi liceali al collegio del Sacro Cuore sul viale dei Colli, poi si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dove si laureerà con una tesi sul Rinascimento con Eugenio Garin. Dall’8 settembre 1943 Giorgio La Pira, ricercato dai fascisti, sarà ospitato e nascosto dal padre di Fioretta, Iacopo – economista e docente prima alla Cattolica di Milano e poi all’Università di Firenze – nella villa di campagna a Fonterutoli, nel Chianti senese. In quei tre mesi di studio della Somma teologica di Tommaso d’Aquino e di conversazioni, matura il sodalizio d’amicizia spirituale tra La Pira e Fioretta al servizio del Regno di Dio e del bene comune. Negli anni Quaranta Fioretta riflette profondamente sulla propria vocazione finché, nella Settimana Santa del 1947, matura irrevocabilmente la sua scelta: si consacra privatamente a Dio nel triplice voto di castità, povertà e obbedienza, decidendo di restare nel mondo per portare il mondo a Dio. Intanto, con altre amiche e con un giovane sacerdote suo coetaneo, don Danilo Cubattoli, suoi compagni “d’avventura cristiana”, si dedica alle ragazze ed ai ragazzi del suo quartiere, S. Frediano, spesso trascurati ed in condizione di povertà. Per loro, oltre all’aiuto nello studio ed all’istruzione religiosa, Fioretta apre l’esperienza delle vacanze, in realtà momenti di maturazione umana e cristiana, in montagna, nella foresta di Vallombrosa. Per decenni quell’esperienza, tuttora aperta, segnerà in positivo la crescita di intere generazioni.

Nel 1951 Fioretta Mazzei inizia la sua vita pubblica: entra nel consiglio comunale di Firenze, con La Pira sindaco, eletta nelle liste democristiane e vi resterà, con brevi intervalli, fino al 1995, fatto più unico che raro nel panorama politico italiano: sempre rieletta per la totale fiducia che i fiorentini nutrono in lei. Ancora dal 1951 Fioretta insegna Religione e Francese negli istituti superiori, il che le darà modo di avvicinare e formare, nel corso dei decenni, migliaia di giovani, accompagnandoli nel loro percorso di crescita e di maturazione personale.

L’aveva respirata, conosciuta e fatta propria a partire dalla sua antica famiglia di stampo piagnone, cioè savonaroliano, tutta intrisa di storia fiorentina, il che fa tutt’uno con molte delle espressioni più alte della civiltà cristiana tout court: da Dante, passando per S. Filippo Neri, con la sua mistica della gioia scanzonata e semplice, quell’Amor Dei che demistifica le situazioni umane e ne svela la loro verità; all’amore mistico e nascosto agli occhi umani della carmelitana S. Maria Maddalena de’ Pazzi, il cui convento – oggi seminario arcivescovile – sorgeva nel rione di S. Frediano, il quartiere dove Fioretta è nata e vissuta. Fino ai santi fiorentini contemporanei, che Fioretta ha frequentato fin da bambina: da Don Facibeni a Don Bensi, a La Pira naturalmente. Senza dimenticare l’incidenza del padre economista, che si pose sempre il problema del lavoro e di una più equa distribuzione sociale della ricchezza.

Tuttavia, quella pienezza di vita interiore, intellettuale e spirituale che traspariva ed affiorava nel suo vivere, quasi suo malgrado, ci è stata consegnata e restituita complessivamente, dopo la morte, attraverso i suoi diari spirituali, vergati con fedeltà quasi ininterrotta dagli anni dell’adolescenza fino agli ultimi mesi di vita. L’impostazione varia e ricca della sua esistenza procedeva da una premessa educativa, per così dire: la fede in Cristo è portatrice di civiltà e questa civiltà, a sua volta, rispecchia Dio, cioè il suo ordine di valori, in cui ogni uomo trova il suo posto, la sua dignità e la sua pace.

Sono innumerevoli le famiglie che si costituiscono con il suo sostegno ed incoraggiamento. Il sindaco La Pira associa sempre più strettamente Fioretta Mazzei alla sua azione politico-amministrativa. Fioretta assumerà la responsabilità di vari assessorati nel tempo: Pubblica Istruzione, Cultura e relazioni internazionali, Sicurezza sociale e il suo ruolo pubblico si prolungherà e rafforzerà ben oltre la parabola politica delle giunte La Pira, anche se lei percepirà sempre l’impegno politico come un’aggiunta alle proprie decisioni esistenziali. Ma la veste pubblica la porterà ad avere intensi e prolungati contatti e rapporti internazionali, che resteranno fino al termine della sua vita.

Dopo la morte di Giorgio La Pira dà vita alla Fondazione omonima che presiede fino alla morte ed in questa veste promuove un’intensa attività culturale. Non interrompe mai il rapporto e l’aiuto ai poveri: nella sua casa, vero cenacolo, sempre aperta, ospita ragazze e persone in difficoltà. Coltiva per lunghi anni la consuetudine d’amicizia e d’affetto con il gruppo fiorentino dell’Amicizia ebraico-cristiana, di cui si occupa, divenendone presidente, dal 1977, anno della morte di La Pira. Dal 1990 al ’95 è presidente della Commissione per la pace del Comune di Firenze, un organismo pensato appositamente per lei. In questa veste promuove il gemellaggio tra Firenze e Nazareth, nel nome dell’Annunziata: con questo nome è venerata a Firenze, la Madre di Dio. Muore a Firenze l’11 novembre 1998 alle tre del pomeriggio, come Gesù, nella memoria di S. Martino di Tours, colui che fece a mezzo del suo mantello con il povero.

Per questo era per lei assolutamente necessario trasmettere le ricchezze millenarie della civiltà giudaico-cristiana al futuro, consegnarla alle nuove generazioni per nuovi ed impensati accrescimenti, senza stancarsi di parlare, ricordare, ri-chiamare, cioè radunare ancora vicino quelli che se ne erano allontanati in preda al sonno della coscienza, cioè della consapevolezza. Da qui la centralità nella sua vita dell’attività di insegnante, oltre a quella di donna politica, di educatrice di generazioni di adolescenti e di giovani: il futuro del mondo.  Mossa contemporaneamente dalla certezza, così facendo, di fare opera di pace che, tomisticamente, non è una variabile indipendente da tutto il resto ma la risultante di un ordine stabilito, non dagli uomini secondo logiche utilitaristiche e di dominio, ma voluto da Dio e da Lui rivelato. Sorge così, una chiamata alla fede e all’apostolato precocemente avvertita: Ricordo, – scrive – piccolissima, credo forse a 4 o 5 anni, davanti a una statua di S. Teresina che mi spiegavano, di aver deciso anch’io di rispondere a Dio con amore. Ricordo a quindici anni di aver pensato con chiarezza in cucina a Fonterutoli di non sposarmi, di averlo già pregato… molto prima davanti alla Madonnina in camera mia, di averlo seriamente impostato.

Poi questa vocazione da privata divenne pubblica: accanto a Giorgio La Pira e dopo di lui. E in questo ambito Fioretta profuse, in tappe diverse e di sempre crescenti responsabilità ed autorevolezza, con una generosità uguagliata solo dalla sua lucidità politica, ogni sforzo creativo per la sua Firenze, amata con  la forza di convinzione di chi conosce perfettamente la sua storia, vi si riconosce e ne comprende la portata universalistica.

Vorrei provare a identificare a grandi linee, quelle tappe, nei loro connotati essenziali,  sapendo che esse sono sempre affiancate ed illuminate da altre conquiste, di natura interiore e spirituale, in cui procedono insieme la riflessione e la maturazione del pensiero e dello spirito, cioè l’evolvere del Magistero dello Spirito Santo in lei: Il punto centrale, intorno a cui gravita tutta la morale, tutta la vita interiore? La nostra unione con Dio.

E’ questa la caratteristica saliente della personalità di Fioretta Mazzei, certo una delle figure più originali e poliedriche del laicato cattolico italiano del Novecento: l’affiancare senza soluzione di continuità, ma sapendoli distinguere, l’umano e il divino, il temporale e lo spirituale, una vita privata quasi “mangiata” dall’aspetto pubblico e che tuttavia è riuscita a preservare la semplicità e la freschezza dei rapporti umani di amicizia e di estrema vicinanza ai poveri e ai sofferenti, senza ombra di pietismo e con una carica di compartecipazione familiare da lasciare sbalorditi.

Era l’amica che arrivava d’improvviso carica di doni e, prima ancora, del suo dono più prezioso: la sua sobria, affettuosa amicizia che colmava completamente le distanze, in una umiltà appresa ed ostinatamente perseguita alla scuola della Vergine Maria, Colei che, in fretta, – dopo l’annuncio dell’Angelo – si reca dalla cugina Elisabetta, incinta di sei mesi, per servirla e starle vicino (Lc 1,39-45).

 

 Gli anni decisivi della chiamata contemplativa nel mondo

Il decennio degli anni Cinquanta è decisivo e definitivo per la sua compiuta maturazione di donna e di cristiana. Anni di intense riflessioni sulla sua vocazione, di chiarificazione sulle modalità in cui può esprimersi, di puntualizzazione interiore del rapporto col Signore e con gli altri. Fioretta ribadisce e scava ancor più la sua chiamata contemplativa nel mondo, intimo e più sicuro baluardo nelle tempeste mondane, risposta piena agli inviti d’amore che il Cristo le rivolge:

La Comunione ogni giorno. E’ il centro della nostra vita. La ragion d’essere della nostra vita: può non essercene nessun’altra e una vita essere del tutto completa, avere il suo pieno significato. Non si turbi il cuor vostro, dice Gesù. In realtà il cuor nostro si turba dalla mattina alla sera, il cuor nostro piange, il cuor nostro si stanca.

L’unico punto del cuore, l’unico posto dove bisogna ritornare e dove bisogna sempre vivere è qui, nel mistero dell’Eucaristia, qui dove c’è il Signore che ascolta, il Signore dato a noi. E non abbiamo bisogno d’altri, però qui è anche l’unione con gli altri, con tutti gli altri, senza i muri, le barriere, senza le sofferenze così profonde che nascono dal commercio con gli altri. In Lui, nel suo cuore, esiste una pacificazione profonda, un’armonia. La carità nasce qui. L’Eucaristia, cuore del mondo e cuore del mio mondo nel mondo.

E ancora prima, nel 1946: Le cose piccole sono quelle che contano e che piacciono a Dio. Quelle nascoste che solo Lui vede. Quelle segrete nel cuore dell’uomo.. O Signore, bisogna diventare più dolci, più fiduciosi, più attenti, guardare attentamente e fare bene il dettaglio, che è quello che conta.

Possiamo distinguere chiaramente una prima, lunga, operosa fase politica segnata dalla strettissima collaborazione  e dal sodalizio di una vita, spirituale, amicale e politico di Fioretta Mazzei con Giorgio La Pira. Non è questa la sede per una analisi attenta e puntuale di quel quindicennio (1951-1965), certamente il più fecondo, ricco e felice della storia fiorentina del Novecento, senza alcun dubbio e paragone. Un periodo da ripercorrere comunque, riconoscendovi la significanza davvero storica di quella che fu, per la città e la Chiesa di Firenze, ma anche per l’Italia, una vera epopea. Ma certamente possiamo sottolineare ora una delle consapevolezze centrali nella riflessione di Fioretta, che ne determinarono anche le scelte storiche: la riflessione sulla natura e i compiti della vocazione laicale cristiana nella società.

Sono frequenti i testi diaristici degli anni Cinquanta, centrali nella maturazione della sua fisionomia intellettuale e spirituale, ma anche successivi, che documentano l’importanza di questo tema nella sua ricerca interiore. E la forza chiarificatrice con cui ne solca i lineamenti ed il perimetro appaiono impressionanti ancora e forse più oggi, in cui debolezza di pensiero e confusione di visione purtroppo non mancano davvero.

Scrive nei suoi appunti privati nel 1958: Essere laici non per amare meno, non per essere meno santi e neanche, sotto certi aspetti, meno ascetici. Essere laici per arrivare col mondo di tutte le cose, per accettare ed amare tutto, tutto quello che hai creato ed amato. Per fare un atto di fondamentale ottimismo, credere nel battesimo. Nel tuo sangue sparso su tutte le cose, per credere che tu arrivi ovunque. Non per amare meno o essere più distratti, o Signore! Per essere ricchi di speranza, virtù teologale. Per intravedere dietro le cose visibili le invisibili, che Tu hai create e che sono altrettanto presenti. Amarti come ti amava la Madonna andandosene per i monti da S. Elisabetta… come ti amava guardando tutta la storia, conoscendo tutta la profezia e riconoscendone il compimento e tutto l’avvenire.. Amarti come chiunque ti può amare tra le spinte di quaggiù, in questa ansia comune, in questo sopraffarsi continuo. Arrivare certo con meno stile, con più debolezze, con più povertà ma, o Signore, che puoi tutto, che non sei legato e soffi dove vuoi, concedi: non con meno amore.

Appare evidente in questo efficacissimo e poetico passo, una sintesi potente della piena consapevolezza di Fioretta Mazzei che quella laicale è una vocazione specifica nella Chiesa, con tutta la dignità e la responsabilità del crisma battesimale e non un minus di maggiore comodità e, in fondo, casualità nelle scelte esistenziali del credente. E tale coscienza appare assai significativa e precorritrice delle conclusioni conciliari a proposito della vocazione e dell’impegno dei laici nel mondo contemporaneo e ancor più affascinante la sua specifica cifra di libertà cristiana in quanto donna, che trova  nell’amore oblativo il suo primato creaturale anche rispetto all’uomo.

Tuttavia, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la società italiana nel suo complesso, al di là delle contrapposizioni politico-ideologiche del momento, poteva apparire ancora salda nei valori fondanti, enunciati anche nella prima parte della carta costituzionale, e la Chiesa cattolica sembrava mostrare compattezza e coesione al suo interno, Fioretta Mazzei con le antenne sensibili di una intelligenza fortemente intuitiva e di una fede viva e pronta al movimento dello Spirito, non si sente affatto tranquilla e men che meno ritiene di potersi riposare, come se tutto il defatigante lavoro della ricostruzione materiale e morale del paese fosse compiuto una volta per tutte. Anzi, nonostante le apparenze “rassicuranti”, per così dire, già coglie e analizza con raro acume e coraggiosa individuazione le avvisaglie della gravissima crisi di fede, di pensiero e di relazioni interpersonali che si stanno addensando sulla Chiesa e sulla società italiana nel suo complesso; di quel relativismo secolarista di cui solo oggi, probabilmente, raccogliamo i frutti più amari. Comprende che anche i valori e le istituzioni civili, quando vengano meno nelle coscienze le ragioni profonde che li hanno determinati, cosicché le convinzioni che uniscono diventano mere convenzioni formali, sono perciò stesso destituiti di senso, messi in forse e  rischia di venir meno la loro stessa legittimazione morale. In una nota di diario del febbraio 1958 osserva con il suo consueto stile asciutto e demistificante:

Lo spezzettamento del nostro mondo. E’ quel che ferisce di più, che lascia perplessi. Siamo spezzati con i nostri fratelli, siamo spezzati in noi stessi. E come in noi stessi ciò che ci unifica, ciò che ci salva, che ci sana, che risuscita, che dà un senso e un indirizzo, è l’amor di Dio; così fuori di noi, intorno a noi, coi nostri fratelli ci vuole il medesimo amor di Dio che ci unifica dandoci una meta. Ci parlano di democrazia come di un dogma e il baco, il larvato scetticismo di cui è ammalata tutta la nostra democrazia ha fatto ammalare anche tutti noi. Nel sorridere e dolcemente inchinarci a tutti i pareri, nel sottomettersi a quello dei più, e solo perché è dei più e non il migliore, abbiamo tutti perso una meta e una ragione di vivere.

Quando abbiamo guidato le cose e non abbiamo guidato chiaro: “dobbiamo arrivare lì a tutti i costi”. Forse ci siamo anche arrivati, ma con diplomazia e quindi non abbiamo suscitato entusiasmo, se non a volte, un entusiasmo intellettuale per la bella testa che ha saputo girar le cose (De Gasperi- tri- quadri-partito ecc.). Ma senza il cuore. Il cuore della nostra gente è fermo, per questo ci si bisticcia. E invece, per arrivare a qualcosa ci vuole entusiasmo, un grande entusiasmo e basato sulle più valevoli convinzioni umane, perché allora dura, nutrito di sacrificio che lo tiene in vita e guidato, molto guidato da un capopopolo. E nel mondo di oggi, mentalmente così confuso per tutte le novità e le instabilità, il capopopolo deve richiamarsi ai valori eterni. Deve parlare di Dio, ed è poco: deve crederci. Se non ci fosse una storia sacra da costruire, bisognerebbe inventarla per far diventare cristiani i cristiani. 

E’ anche del tutto evidente da questa citazione come Fioretta Mazzei sia convinta di una teologia della storia, di un disegno anche storico, temporale oltre che spirituale, di Dio che deve compiersi attraverso la collaborazione dell’uomo, non solo singolarmente ma anche nei popoli attraverso un’azione politica organizzata.

 

– La traversata nel tempo del deserto

Nel momento dell’estromissione politica di La Pira dal governo fiorentino, nel 1965, Fioretta rifiutò di ricandidarsi perché l’assenza di La Pira significava per lei anche il disconoscimento di quella politica comune a entrambi, di quell’orizzonte ideale, di fede, di pensiero, di prospettive sociali, economiche, culturali e civili che insieme avevano propugnato e vigorosamente attuato. Le pagine dei suoi diari di quei mesi segnalano asciuttamente le sue scelte ed il suo stato d’animo, pacificato e distaccato da ogni passione di potere. Anzi: il sollievo per una riconquistata libertà soggettiva di organizzare le sue giornate ed una vita che, a torto, riteneva essere tornata privata.

Ma ben presto, maturano altre consapevolezze e possibilità. Nella cerchia di La Pira, che si è fatta ridottissima  dopo gli anni del potere, e soprattutto da parte di lui e di quella ampia rete di amici e di relazioni che riconoscono il valore, le capacità politiche e di visione complessiva della città da parte di lei, si comincia a spingere Fioretta perché accetti di nuovo una candidatura nelle fila democristiane e torni in Palazzo Vecchio a servire  e difendere la sua gente: Mi accorgo – scrive – che non sono tornata affatto a vita privata. Volere o volare non ci riesco più. Non mi è permesso!  E’ la gente che ti esige in una certa dimensione, e non c’è nulla da fare. Eppure non arrivo. Non rispondo alla posta perché non ce la fo e altri dettagli. Ma non c’è nulla da fare: devo continuare perché non si può smettere.

Si profila così un nuovo impegno negli anni Settanta come assessore alla cultura, alla gioventù e alle relazioni internazionali: un inedito nel lessico e nelle funzioni politiche di un assessore del tempo. Fioretta riapre Firenze al mondo, con memorabili iniziative culturali e privilegiando l’aspetto più decisivo e a lei congeniale: quello del coinvolgimento delle giovani generazioni in una storia di civiltà, quella fiorentina, che ha saputo esprimere ai massimi livelli i “valori di vertice” di Dio.

Ma lo spirito del tempo volgeva in altra direzione: la prospera società italiana di allora ha in gran parte abbandonato la lettura provvidenziale della storia per abbracciare una prospettiva di sostanziale relativismo materialista, sempre più sordo al richiamo della millenaria ricchezza di Umanesimo cristiano e di civiltà della sua gente, oltre che della sua arte, così ramificata nel territorio, nel suo paesaggio modellato di equilibrio e di una sapienza scaturita dalla fede fatta cultura. Gli anni Settanta sono, per  antonomasia, il decennio delle fratture, delle faglie incise nel tessuto vivo e profondo dei fondamenti della nostra civiltà. E queste faglie tagliano trasversalmente  tutti gli ambienti e i settori, anche per lo storico avanzamento, gestito da élites ristrettissime, di quel processo di integrazione europea di cui forse soltanto oggi siamo in grado di cogliere tutte le potenzialità inespresse o tradite e anche, diciamolo, tutti i limiti di un certo personale e modello di attuazione. Limiti e deriva che Fioretta, al solito, coglie in profondità col suo disarmante, politicamente scorrettissimo anticonformismo, con lo sguardo intuitivo e quasi profetico della sua libertà cristiana. Scrive nel 1970:

Sono stata di nuovo in Italia meridionale, questa volta in Puglia.. per Natale. E mi sono resa conto per l’ennesima volta che non conosciamo l’Italia, con le sue ricchezze così radicate, le sue civiltà così abbarbicate agli alberi, alle case, alle chiese antiche e meravigliose che nessuna orda barbarica nordica le sradicherà, nonostante tutto.

Mi vien fatto ogni tanto di pensare al MEC e all’Europa unita come alle invasioni barbariche per noi. Cioè ad una preponderante influenza nordica che non tollereremo in definitiva perché, diciamolo pure, tanto più povera di noi. Si ha voglia di cantare: meno civili! Se qualcuno mi leggesse ora mi darebbe di pazza, ma nel tempo chissà! A mio istinto la salvezza viene dal meridione. Qui a Firenze come in tutta Europa, del resto, l’atmosfera è a bollore, a causa degli studenti e dei preti. Due settori in ebollizione e che, stranamente e a loro insaputa, probabilmente si tengono per mano.

Prima – scrive ancora in una nota di diario l’11 ottobre 1976 – era la festa della Maternità di Maria. Ora niente. Lo scrivo con malinconia perché è proprio di ieri il decreto di annullamento delle feste, quelle grosse: Ognissanti, Corpus Domini, Ascensione. Ne ho  tristezza perché penso che è un ulteriore laicizzazione, che poi riesce sempre ad intristirci, nient’altro. Essere laici ed essere tristi ecco il tutto. La festa è il retaggio dell’uomo in grazia, dell’uomo contento. La festa è, nella sua essenza, un’espressione religiosa.

In questo senso le vicende delle leggi sul divorzio e sull’aborto segnano uno spartiacque anche simbolico, una ferita non ancora rimarginata nella società e nella Chiesa italiana. Tale abbandono diviene anche politicamente evidente nelle elezioni amministrative del 1975, quando la DC perde Firenze, come molte altre grandi città italiane, che anche grazie a personaggi di grande spessore come La Pira e Fioretta Mazzei, e a molti altri, aveva conquistato e retto consecutivamente per un quarto di secolo.

Inizia ora una nuova, più difficile ed oscura se si vuole, ma non meno feconda e importante fase dell’impegno di pensiero cristiano, come civile e politico di Fioretta Mazzei. Un decennio duro, quello degli anni Settanta, anche sul piano personale (la scomparsa della madre nel ’72, quella di La Pira nel ’77) ma intensissimo e costruttivo.  L’eredità di La Pira è enorme ed è lei, da ora in poi l’erede politica e l’interprete autorevole e riconosciuta ma anche creativa e libera.

Nel 1978 Fioretta dà vita alla Fondazione La Pira, di cui sarà presidente fino alla morte, e in questa veste continua a girare in lungo e in largo l’Italia chiamata e cercata ovunque, perché i principi e la testimonianza spirituale e politica di lui vengono da lei incarnati in pienezza e creatività tali da dimostrarsi capaci di decifrare un altro tempo ed altre sfide, continuando ad alimentare ed innervare l’impegno dei laici cristiani in una diversa fase storica.

E insieme, Fioretta, nel suo ruolo di consigliere d’opposizione, ma largamente rispettata ed ascoltata per la sua larghezza di cuore, la lungimiranza e l’amore disinteressato alla città e al bene comune, non cessa di occuparsi di Firenze a cominciare dalla difesa dei poveri: Io difendo i deboli, amava ripetere, perché i forti si difendono anche da soli. E così nell’83, per un repentino cambio di maggioranza, fu ancora assessore stavolta alla Sicurezza sociale, ruolo che aveva voluto apposta: arrivò appena in tempo per bloccare la chiusura dell’Albergo popolare, già decisa dalla precedente giunta social-comunista  procedendo invece alla  sua riqualificazione con il contributo a titolo gratuito – mi piace ricordarlo – dell’amico pittore Luciano Guarnieri. L’operazione, per la verità, non venne molto apprezzata, anzi: Fioretta dovette subire attacchi giornalistici velenosi e gratuiti ma, come al solito, tirò dritto e l’albergo popolare  o, per dir meglio, i poveri, che vi trovano ancora un tetto, furono salvi.

In modo analogo salvò lo storico, brunelleschiano Istituto degli Innocenti dalla chiusura della sua storica destinazione per i bambini abbandonati, voluta dalla Signoria medicea nel Quattrocento: Fioretta con la collaborazione del governo italiano portò agli Innocenti la sezione nazionale dell’Unicef e, con un importante convegno internazionale, fece giungere alle Nazioni Unite la proposta di Firenze per la revisione della Convenzione Internazionale dei diritti dell’Infanzia. Poco dopo un nuovo ribaltone la riportò all’opposizione.

Si apre allora l’ultima, breve ma operosissima fase dell’attività pubblica di Fioretta nelle istituzioni comunali: la battaglia per  Firenze e per la pace. Due facce di una stessa visione prospettica, alla cui radice stava un progetto ideale e politico complessivo per l’Italia.

 

– La bellezza di Firenze, specchio e prefigurazione della Gerusalemme celeste

A Firenze, come altrove del resto, dagli anni Ottanta si afferma un’idea di città come mero agglomerato urbano, formato da funzioni e cubature di cui disporre a piacimento, senza considerazione e rispetto della storia che ha definito il volto della città e del popolo, organismo vivente che la anima, che ha esigenze e diritti naturali e civili da salvaguardare. Firenze presenta dinamiche delicate e faticose, si impone l’esigenza di un riordino delle sue funzioni e c’è uno “spirito del tempo” di cui fa parte il termine “decentramento” come una bacchetta magica. Si sostiene che il centro storico è sovraffollato di funzioni, in particolare quella giudiziaria, e ben presto si individua l’ex area Fiat, a Novoli, nel settore nord-ovest della città, come la più adatta per riunire tutte le funzioni giudiziarie in un unico contenitore, la mega-struttura del palazzo di giustizia, per il quale viene scelto un progetto già vecchio, di mole gigantesca, che cozza vistosamente con lo stile, i valori architettonici, lo skyline stesso della città. Tutti plaudono ma Fioretta è indignata di un progetto che giudica orrendo: così invasivo e apertamente in contrasto con i valori estetici e spirituali di Firenze, un progetto frutto anche di forti interessi speculativi. La sua opposizione è durissima ma isolata da tutti gli ambienti politici, compreso il suo.  Lottò come sapeva fare lei: con determinazione, lucidità e coraggio, ma vanamente.

Lo stesso accadde per il nuovo Pignone, la storica fabbrica fiorentina salvata da Mattei e La Pira, e divenuta nel corso degli anni una azienda strategica dell’industria italiana, sia dal punto di vista economico come da quello politico. Uno strumento all’avanguardia dal punto di vista delle competenze umane e delle tecnologie, capace di travalicare gli schemi delle alleanze e degli schieramenti internazionali, anche grazie al quale per decenni l’Italia aveva potuto esercitare un ruolo di primo piano nella politica internazionale in favore della pace.

In piena tempesta di tangentopoli, quando il grido giustizialista servì da grimaldello per smantellare anche l’esperienza politica dei cattolici coprendoli, non sempre a ragione, di un disonore complessivamente immeritato, Fioretta Mazzei alzò forte la sua voce: difese l’italianità del Pignone, difese, ancora una volta in solitudine, il progetto complessivo di paese di cui quell’azienda era divenuta il simbolo nel corso dei decenni.

Così come soffrì profondamente per l’implosione della Democrazia Cristiana, in cui aveva militato, senza mai averne la tessera, fin da quel fatidico 1951 e per il cambiamento del nome in partito popolare, perché vi avvertiva la liquidazione frettolosa di una vicenda cinquantennale che aveva dato all’Italia, lavoro, prosperità, libertà e pace. Mi disse, in quei giorni: Un giorno si studierà con rimpianto il nostro tempo e, quanto al partito dei cattolici, chissà quando e se rinascerà. Era stata profetica, visti i giorni che stiamo attraversando.

Ed eccoci, finalmente, alla parola-chiave, al filo d’oro che ha connotato non solo tutta la sua esperienza politica, ma ancor prima la sua esistenza di donna e di cristiana: la pace di Cristo, annunzio di una Risurrezione non solo individuale, ma anche storica e cosmica, che deve estendersi ad ogni cosa. Il sigillo per eccellenza: Guarda – mi disse un giorno – per me la cosa fondamentale è la pace, il resto viene dopo.

Ma la pace è una risultante e richiede lavoro per essere conseguita, anche se mai stabilmente. Così, dopo la grande gioia provata con l’avvento di Gorbaciov e poi con la caduta del muro di Berlino, Fioretta resta inquieta, non vede la tanto conclamata “fine della storia”, al contrario, assiste preoccupata al profilarsi di nuove guerre, con nuovi pretesti. Nel 1990 la nuova maggioranza di Palazzo Vecchio, in cui era rientrata la DC , istituisce una nuova Commissione consiliare appositamente pensata per lei: la Commissione per la pace e Fioretta, in questa veste si oppone alla 1° guerra in Iraq e alle politiche belliciste che si accompagnano naturalmente al riarmo con la conseguente modificazione degli assetti economici e produttivi, a tutto vantaggio dell’industria militare e degli immensi interessi che vi gravitano intorno, di cui del resto anche oggi siamo insieme protagonisti e vittime.

Come presidente della Commissione per la pace promuove e realizza quello che può essere considerato il suo testamento insieme umano, politico e spirituale, poiché tali aspetti sono in realtà complementari: il gemellaggio tra Firenze, città dell’Annunziata e Nazareth, città dell’Annunciazione. Anche un segno di predilezione rivolto a Maria e insieme la rivelazione più profonda dell’anima sua,  tutta protesa al silenzio, al nascondimento, in un’umiltà altissima e di disarmante semplicità, profezia di un mondo e di un tempo pacificato – come scrisse allora in cui Nazareth è ancora protagonista: in quell’incrocio di popoli di oggi continua una lezione di convivenza e di possibilità di pace.. perché anche agli occhi del mondo sia unita e benedetta la terra di Gesù, annunziato a Nazareth.

E Firenze non lo ha ancora scoperto! Infine, l’ultimo, estremo pensiero, è ancora per lei, per Firenze. A pochi giorni dalla morte detta uno splendido messaggio sulla bellezza di Firenze, riflesso della Grazia, il suo testamento per la città:

La bellezza in realtà è l’apice della situazione umana, tant’è vero che si usa dire che l’atto massimo dell’uomo è la contemplazione, cioè la visione di un qualche cosa di gran lunga superiore a quello che abbiamo intorno. La Pira mi raccontava che a 15-16 anni, ascoltando cantare le suore del convento di Maria a Messina, aveva avuto l’impressione che esistevano delle bellezze straordinarie che superavano qualunque aspettativa e ci potevano essere concesse. E’ la preghiera che genera la bellezza e la poesia. Infatti La Pira scelse per il secondo Convegno per la pace e civiltà cristiana (1953) proprio il tema “Preghiera e poesia”. Quanti uomini seguaci delle ideologie hanno speso la vita nelle lotte, nelle rivoluzioni e nelle guerre, per “cambiare la società”! E’ solo la bellezza che trasforma una società. Domandiamoci cosa sarebbe Firenze senza la cupola, senza Palazzo Vecchio, senza questa simmetria anche interna che collega il granaio (Orsanmichele) alle più alte espressioni civili e religiose..

Abbiate pazienza ma non posso di più, posso solo dirvi che Firenze e la sua poesia mi vive nel cuore ed è in questi giorni uno dei motivi delle mie consolazioni, perché mi richiama visivamente alla fede grandiosa dei nostri padri: con la cupola e il suo architetto e gli immensi valori civili e umani che Palazzo Vecchio, con la sua torre arcigna, in cui convivono però i merli guelfi e ghibellini, ci indica come i più alti. Se si leva tutto questo Firenze o non esiste o non ha alcun valore. Nel suo discorso di Ginevra (1954) La Pira ammonì: – Le generazioni presenti non hanno il diritto di distruggere un patrimonio a loro consegnato in vista delle generazioni future! Si tratta di beni a loro pervenuti dalle generazioni passate e rispetto ai quali esse hanno la veste giuridica di eredi fiduciari.

La dominante di Firenze è la bellezza, la bellezza in un ordine, in una misura. Il segreto della bellezza è anche la misura e Firenze è una città misurata che sfugge le esagerazioni. Anche il barocco, che pure è pieno di effusioni, fa fatica qui, per paura dell’eccesso. E lo stesso manierismo del Rosso e del Pontormo sono una rimisurazione. Un altro aspetto della bellezza sta nel piccolo e non nel grande, quindi nell’armonia del piccolo. Una città può riflettere una bellezza addirittura superiore alla bellezza di un viso perché è una bellezza comunitaria, voluta da tutti, condivisa. E come perfino la bellezza naturale ha bisogno di essere accompagnata, scoperta, anche corretta dallo sguardo e dalla mano dell’uomo, così la bellezza cittadina ha bisogno di una partecipazione cittadina, di un occhio d’amore collettivo.

Il degrado di tante città è dovuto proprio a questo, alla non educazione, alla non comunità. La vita comunitaria riflette la vita del cielo con i suoi misteri che non sono solitari. L’arte poi è sinonimo di libertà, la bellezza conduce ed esige libertà. “I heard last night neath Casa Guidi’s windows by the church a little child go singing ‘O bella libertà! Oh bella!” (Ho sentito stanotte, sotto le finestre di casa Guidi accanto alla chiesa, un bambinetto che passava cantando ‘O bella libertà! O bella!) si legge sulla casa di Elisabeth Barrett Browning. Perché il nostro occhio sia capace in profondità di bellezza e di poesia ci vuole lo stesso atteggiamento interiore umile, semplice, costante. E’ vero che con i tempi il senso della bellezza può fare nuove scoperte, talvolta di grande semplificazione, però non può prescindere da una scelta in qualche modo comune, che ne dia anche la misura perché, nonostante tutto, camminiamo verso il massimo del semplice, dell’umile e del lineare: Dio è semplice. La corruzione e il denaro possono investire tutto, ma non è da questa analisi che ne usciamo, ma in un rinnovamento interiore al quale in fondo tutti aspiriamo e a cui non vogliamo rinunciare.

Eccoci dunque al cuore della questione. Fioretta Mazzei era persuasa, e non da sola ovviamente, della necessità stringente di una conversione intellettuale e spirituale, come premessa ineludibile per un autentico rinnovamento della società. Cui si accompagnava l’altrettanto profonda convinzione di una funzione storica, di una missione temporale dei laici cristiani, senza spogliarsi della propria fede o rintanarla nel privato.  

Al contrario, la manifestazione libera – e rispettosa delle convinzioni altrui – dell’ispirazione religiosa è liberante e capace di concorrere a costruire una società libera e accogliente per tutti.

E’ la sfida anche dell’oggi: di fronte a questa Italia, e a questa Europa, contraddittorie e smarrite, resta indispensabile l’apporto di cristiani retti e veraci, preparati e coraggiosi, politicamente organizzati e coesi, perché senza l’aggancio alla Verità che salva, ogni tentativo di costruire un ordine sociale, civile e politico per l’uomo naufraga nella menzogna, nella corruzione e nell’ipocrisia e si rovescia nel suo contrario, come l’attualità ci dimostra fin troppo.

 

Spes contra Spem 2015: intervento di Maurizio Renzini

 

Giorgio La Pira e Thomas Merton  

Un’amicizia e un comune impegno per la pace

di Maurizio Renzini

 

Premessa

Questo intervento, riguardante l’amicizia e l’azione parallela di due grandi personalità cattoliche della nostra storia recente, viene da me svolto in qualità di presidente dell’Associazione Thomas Merton Italia, che si interessa di promuovere e diffondere la conoscenza dello scrittore trappista americano, del quale quest’anno celebriamo il centenario della nascita. Esso fa riferimento a un mio articolo redatto sulla base della documentazione fornitami dal Thomas Merton Center presso la Bellarmine University nel Kentucky (USA) e pubblicato nel volume Universal Vision a cura della Thomas Merton Society of Great Britain and Ireland.

Ritengo necessari alcuni  cenni figura di Thomas Merton (nella foto a sinistra rispetto a Giorgio La Pira). Nato a Prades, sui Pirenei francesi, il 31 gennaio 1915. A ventisei anni, dopo una giovinezza brillante ma irrequieta e segnata da traumi familiari, entrò in uno dei più rigorosi monasteri cistercensi americani. Qui divenne un prolifico e famoso scrittore, conosciuto soprattutto per l’autobiografia La montagna dalle sette balze. Costituisce una figura di riferimento nel panorama culturale cattolico del ventesimo secolo, per il grande valore della sua intera produzione, costituita di oltre cinquanta libri, numerosi saggi e composizioni poetiche, diari e lettere raccolti rispettivamente in sette e cinque volumi. Egli  condusse una vita contemplativa ma entrò anche nell’arena del  mondo, operando contro la guerra e la discriminazione sociale. Profondo conoscitore del pensiero orientale, è stato un pioniere del dialogo interreligioso. Morì tragicamente a Bangkok il 10 dicembre 1968 poco dopo aver tenuto una conferenza nell’ambito di un convegno internazionale sul monachesimo.

 

Il sindaco santo

«Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza» (Rom 4,18). Questo passo , tratto dalla lettera ai Romani di San Paolo e riguardante la figura e il ruolo di Abramo nella storia, costituisce il costante riferimento per l’azione umana, spirituale e sociale di Giorgio La Pira (Pozzallo, 1904 – Firenze, 1977), una delle figure più significative nel panorama politico e culturale italiano. Proveniente da un’umile famiglia siciliana, fu docente di Diritto romano all’Università di Firenze e sindaco di questa città; ebbe anche vari incarichi parlamentari sempre operando sulla base di una solida fede cristiana, in coerenza con la sua scelta di appartenere all’ordine terziario dei Domenicani. Spes contra spem fu il motto per la sua azione energica e continua verso soluzioni di pace sulla terra, pur consapevole delle barriere culturali, religiose e politiche che rendevano arduo ogni confronto. Era mosso dalla radicale convinzione dell’azione di Dio nella storia e della necessità di riunificare tutti i popoli che per fede si riconoscono discendenti di Abramo. Quindi cristiani, ebrei e musulmani avrebbero dovuto incontrarsi in un processo di pace ed egli vedeva nel Mediterraneo l’analogo del grande lago di Tiberiade dove Gesù, solcando le acque, aprì la strada per l’abbattimento delle barriere. Qui la riunificazione nel medesimo Dio avrebbe assicurato lo stesso effetto su tutti gli altri popoli perché, come La Pira affermava, «il Medio Oriente è oggi il centro di gravitazione attorno al quale si muove la storia politica del mondo: la pace o la discordia di Gerusalemme sono, e saranno sempre più, i sintomi rivelatori della pace o della discordia delle nazioni»1.

Egli fece di Firenze, della quale fu sindaco dal 1951 al 1958 e dal 1961 al 1966, la città simbolo della pace promuovendo i «Colloqui Mediterranei» , quattro importanti occasioni d’incontro tra i popoli del bacino mediterraneo, e il Convegno tra i sindaci delle capitali del mondo con lo scopo di «unire le città per unire le nazioni». Coinvolse le più importanti personalità della politica e della cultura internazionali del suo tempo, viaggiando anche molto nella sua incessante missione di pace, mosso dall’utopia profetica di Isaia: «forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci» (Is 2,4). Per tutto questo, ma anche per le opere di grande rilevanza sociale che La Pira realizzò a Firenze, in particolare a favore della povera gente, sempre animato da una profonda pietà cristiana che egli alimentava con la preghiera e con uno spirito autenticamente contemplativo, i suoi concittadini lo chiamavano il «sindaco santo». E’ onorato come Servo di Dio dalla Chiesa cattolica ed è stato da tempo avviato per lui il processo di beatificazione.

La via di Isaia 

Giorgio La Pira nel 1961 aveva ricevuto una copia del saggio Christian Ethics and Nuclear War di Thomas Merton e da lui stesso inviato alla redazione del mensile Rocca della Pro Civitate Cristiana. Nonostante l’insistenza del sindaco di Firenze esso non venne allora pubblicato, in considerazione che gli scritti del monaco trappista contro gli armamenti erano stati messi sotto censura dai superiori del suo Ordine.

La Pira era quindi a conoscenza dell’impegno di Merton contro la guerra, e soprattutto contro quella a carattere globale, e volle fargli visita al monastero del Gethsemani in occasione di un suo viaggio negli USA, nel 1964, per un gemellaggio tra Filadelfia e Firenze, nel corso del quale si confrontò con personalità di grande rilievo nella scena politica internazionale e tra queste il segretario generale dell’ONU U-Thant.  L’incontro tra i due avvenne il 16 ottobre  con reciproco entusiasmo. Merton  definì  La Pira «ebulliently Christian, but a vey good head too»2 e si espresse dicendo che egli  «impressed everyone he met»3. Il giorno successivo il politico italiano vide Adlai Stevenson, ambasciatore americano all’ONU molto stimato per le spiccate dote umane e intellettuali tali da renderlo candidato alla presidenza USA per ben due volte. Contemporaneamente Merton scriveva al suo amico W.H. Ferry raccomandandogli La Pira per la conferenza che stava organizzando sull’enciclica Pacem in terris4. L’incontro al Gethsemani costituì l’avvio di un’amicizia profonda tra i due, radicata nella fede e nel comune impegno per la pace, seriamente minacciata anche dalla sconsiderata politica estera americana di quegli anni.

I primi di novembre 1964 La Pira inviò a Merton un telegramma in latino con il quale esprimeva un sentimento di profonda comunione spirituale : «Aperit vobis Dominus portas Paradisi sicut nobis aperistis portas Monasteri stop Orate pro Florentia et pro nobis» ( Che Dio vi apra le porte del Paradiso come voi ci avete aperto le porte del Monastero stop Pregate per Firenze e per noi). Nella risposta (in francese perché il sindaco di Firenze aveva una limitata conoscenza della lingua inglese) Merton lo ringraziò riferendogli anche la gioia dei suoi confratelli per la visita al loro “deserto”, ritenendola un dono della provvidenza divina. Gli espresse poi la condivisione di quella «teologia della storia» secondo la quale il Signore si manifesta nel mondo attraverso gli eventi degli uomini imperfetti ed è quindi nostro dovere riporre fiducia in Lui con la fede e con la preghiera5. La Pira sosteneva fermamente questo finalismo nel bene al quale l’unica alternativa è la distruzione totale del genere umano. Già Isaia aveva visto  «questo corso irreversibile della storia universale»6 che procede verso la foce della pace, pur con tutti gli ostacoli che si frappongono tra gli uomini. L’azione politica deve quindi mirare alla realizzazione piena del disegno di Dio. Merton dichiarava di non aver allora capito che cosa veramente il Concilio affermasse sulla pace e temeva l’atteggiamento belligerante del governo americano che rischiava di mascherare il grave pericolo di una guerra nucleare. Da parte di entrambi c’era una seria preoccupazione per la politica estera del Presidente Lyndon Johnson che era spinto dalla disastrosa illusione di liberare il mondo dal comunismo con la guerra nel Vietnam e con l’intervento militare nella Repubblica Dominicana. Su quest’ultimo La Pira elaborò delle riflessioni che espose al Consiglio comunale di Firenze e che subito dopo inviò a Merton il quale, con la sua lettera del 16 giugno 1965, condivise il contenuto di ferma condanna dell’azione americana ma manifestò anche preoccupazione per alcuni cambiamenti che stavano per essere apportati allo Schema 13, divenuto poi  la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes. Entrambi sentirono l’esigenza di scrivere al Santo Padre per esprimergli in maniera franca quello  che avrebbe dovuto essere l’impegno della Chiesa per un’autentica opera di pace. Con la  lettera che Merton inviò al suo amico italiano il 3 giugno 1965 così si esprimeva : «il faudrait au contraire aller encore plus loin que Joan XXIII et Paul VI dans leur encycliques. Mais enfin, si on ne va plus loin, il ne faut pas en toutes les renverser»7 (Bisognerebbe al contrario andare ancor più lontano di Giovanni XXIII e di Paolo VI nelle loro encicliche. Ma in ogni caso, se non si va più lontano, non si deve comunque sovvertire il tutto).

La Pira vedeva in Merton un autentico messaggero di pace  «portando il volto e il nome di Gesù»8 e apprese quindi con entusiasmo la notizia di una sua probabile visita all’ONU e alla Casa Bianca, invocando la grazia per la realizzazione di quell’«itinerario di salvezza», che si sarebbe collegato con varie altre azioni di pace in importanti capitali del mondo. Egli poneva tutto questo in continuità con il suo precedente viaggio in Palestina, effettuato con lo spirito della testimonianza della fede e della fratellanza universale : «…a Gerusalemme, in tutta la Giudea, in Samaria e sino agli ultimi capi della terra» (Atti 1,8). In una lettera inviata al senatore Robert Kennedy, copia della quale fu spedita anche al suo amico trappista, La Pira evidenziava la sua preoccupazione per l’aggravarsi della situazione in Vietnam, con un accorato appello a sostenere il messaggio storico e politico di suo fratello John: «o estingueremo la guerra o faremo del pianeta un rogo». Rivolgendosi a lui come un amico sincero gli esprimeva anche la necessità di «attraversare le frontiere nuove del mondo» che superano ogni schema ideologico e lo invitava a parlarne con Merton che sul tema della pace stava scrivendo intensamente e con grande sofferenza. Il senatore inviò una risposta che apriva «l’anima alla speranza» del disarmo, in cui  La Pira vedeva l’unica via della pace, la via di Isaia per cambiare in aratri le spade. Mosso dall’ardente desiderio di contribuire a «pacificare, unire, civilizzare il mondo»9 egli agiva intensamente da Firenze per costruire questa strada di salvezza, parallelamente e in piena sintonia con l’azione che Merton esercitava attraverso i suoi saggi, le sue lettere, i suoi contatti con personalità di rilievo della politica e della cultura del suo tempo, compresi membri della famiglia Kennedy con i quali era in corrispondenza già dal dicembre 1961 tramite la signora Ethel, moglie del senatore : «It seems to me that the great problem we face is not Russia but war itself. War is the main enemy and we are not going to fully make sense unless we see that. Unless we fight war, both in ourselves and in the Russians, and wherever else it may be, we are purely and simply going to be wrecked by the forces that are in us»10.

Ut unum sint era solito ripetere La Pira  per esprimere la forte esigenza di procedere verso l’incontro dei popoli , lo stesso percorso che indicava Merton per l’unificazione degli uomini in quanto epifania di Dio. Furono pertanto entrambi animati da un medesimo impegno per la pace sulla terra, consapevoli dei gravi pericoli derivanti da contrapposizioni per ragioni storiche, ideologiche o di pura affermazione del potere. Erano fermamente convinti che il problema della guerra andava affrontato alla radice, facendo cioè riscoprire la natura autentica dell’uomo, soprattutto la sua dimensione spirituale, attraverso l’incontro, il dialogo, la più ampia diffusione degli scritti per muovere le coscienze e per orientare le scelte di coloro che hanno responsabilità per il destino del mondo.

 

Firenze, città ferita

La Pira era consapevole che Firenze era un luogo privilegiato per l’incontro e per i suoi messaggi di pace, perché questa città non appartiene solo all’Italia ma al mondo intero. La sua bellezza, la sua storia, la sua arte, il suo fermento culturale ne fanno un crocevia per la civiltà. E’ una città in cui il confronto intellettuale e lo sviluppo del pensiero sono sempre stati ai più alti livelli. Lo stesso La Pira aveva qui trovato occasione di amicizia e di azione solidale con alcuni dei più acuti esponenti del pensiero cattolico degli anni sessanta e settanta, come Giuseppe Dossetti e padre Ernesto Balducci. Quest’ultimo, uno scrittore colto e illuminato da una visione profondamente ecumenica, scrisse, tra l’altro, una splendida prefazione all’edizione italiana di Faith and Violence di Thomas Merton, della quale quest’ultimo fu molto entusiasta.

L’ultima corrispondenza tra  il monaco trappista e il sindaco si riferisce al 18 gennaio 1967, due mesi dopo la disastrosa alluvione di Firenze, con un telegramma di La Pira in lingua inglese : «Beg you send us few lines for book on recent flood of Florence and meaning Florence in world  Please Urgently La Pira. » Merton, pur non avendo notizie dettagliate del disastro, rispose con una lettera e un breve saggio che compose quello stesso giorno. Qui esprimeva un profondo amore per la città di Firenze e tutto il suo turbamento per quel devastante evento: «Wherever disaster strikes at man, all men feel themselves threatened. But when disaster strikes at Florence, the knife is too close to the heart of our civilization. The shock and the alarm are universal: the worth and the very identity of our world are called into question»11. L’impegno profuso da migliaia di persone e gli aiuti  da ogni parte per ricomporre in breve tempo la città con il suo immenso patrimonio di arte e di cultura, gravemente compromesso, danno il senso del suo valore universale e inestimabile: «Florence calls all men to solidarity against the forces of unreason and death that would betray and dishonor in man the image of God »12.

 

Conclusione

Il breve incontro al monastero del Gethsemani dell’ottobre 1964 e la successiva corrispondenza furono sufficienti per instaurare tra i due un’autentica amicizia sostenuta da un’altissima stima reciproca. Merton qualificava La Pira come «a very prominent Catholic politico in Italy, close to Paul VI» 13 e, in una lettera al giovane studente italiano Mario Falsina che gli aveva chiesto di fargli sapere quali fossero gli italiani che maggiormente l’avessero influenzato o colpito, egli indicava, oltre a Dante, i grandi santi e  vari scrittori come Montale,  Quasimodo e Pavese  e alla fine riportava: «I add that I am glad to be friend of La Pira»14. Il sindaco di Firenze, pur essendo di undici anni più anziano, aveva una venerazione per Merton e scrivendogli si rivolgeva a lui con «beatissimo padre» e si congedava con «filialmente». Sono espressioni di un uomo umile e devoto che trovava nel suo amico americano la pienezza di una persona impegnata nell’arena del mondo agendo dal silenzio di un’intensa vita spirituale. La loro testimonianza umana, intellettuale e di fede costituiscono per noi un’eredità preziosa per le esigenze del mondo attuale.

Nella lettera che La Pira scrisse al Direttore del Thomas Merton Center nel maggio 1973 riferiva di avere un ricordo indelebile della sua visita avvenuta nove anni prima e che questa aveva avuto un grande significato: «voleva indicare che la civiltà tecnica non regge se nel secondo piatto della bilancia non si pongono i pesi della contemplazione e della preghiera, i pesi della purezza e della grazia!»15.

 

Note

  1. M.P. Giovannoni (a cura di),  Il grande lago di Tiberiade – Lettere di Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo (1954 – 1977), Firenze, 2006, p. 125.
  1. W.H. Shannon (edited by), The Hidden Ground of Love – Letters on Religious Experience and  Social Concernes, Harvest/HBJ Book, S. Diego – New York – London 1985, p. 219.
  1. Patrick Hart (edited by), The School of Charity – Letters of Thomas Merton on Religious Renewal and Spiritual Direction, Harvest/ HBJ Book, S. Diego – New York – London 1990, p. 251.
  1. W.H. Shannon, The Hidden Ground of Love, p. 219.
  1. Letter of Thomas Merton to Giorgio La Pira, 13 November 1964.
  1. Giorgio La Pira, Spes contra spem in “La Badia” n°11, dicembre 1990, p. 58 s.
  1. Letter of Thomas Merton to Giorgio la Pira, 3 June 1965.
  1. Letter of Giorgio La Pira to Thomas Merton, 16 June 1965.
  1. Letter of Giorgio La Pira to Thomas Merton, 8 July 1965.
  1. Thomas Merton, Cold War Letters, Orbis Books, New York, 2006, p. 27.
  1. A brief essay of Thomas Merton about the flood of Florence sent to Giorgio La Pira, 18 January 1967.
  1. Ivi.
  1. W.H. Shannon, The Hidden Ground of Love, p. 219.
  1. Robert E. Daggy (edited by), The Road to Joy – Letters of Thomas Merton to New and Old Friends, Harvest/ HBJ Book, S. Diego – New York – London 1989, p. 349.
  1. Letter of Giorgio La Pira to the Director of the Merton Center, 29 May 1973.

Spes contra Spem 2015: intervento di Marco Luppi

 

Mediterraneo: nuovo lago di Tiberiade o tomba delle speranze? 

intervento del Professor Marco Luppi (foto sotto)

Il Mediterraneo, non da oggi, rappresenta un punto nodale nella configurazione geopolitica di una realtà internazionale che continua a muoversi dentro un perenne stato di necessità e in vista della risoluzione delle crisi. Solo raramente ci si trova nelle condizioni di costruire e governare i fenomeni politici, economici e sociali dei tempi di pace, quelli che consentirebbero alla politica di dispiegare le sue migliori caratteristiche: la capacità di analisi del reale, il confronto tra legittime diversità, la ricerca di una soluzione alle diverse problematiche. Sulle rive di quel mare oggi si consumano alcune tra le più drammatiche vicende che interessano la comunità internazionale, sfidandola nella sua incapacità di elaborare processi di sintesi coerente e di giungere ad una deliberazione e concretizzazione condivisa. Il dramma dei migranti, quotidiano e spesso sconvolgente nel fissare alcuni fotogrammi che la civiltà globalizzata delle immagini rilancia immediatamente nelle case, nelle famiglie, nei palazzi governativi di tutto il mondo, è intrecciato a varie forme di squilibrio: le profonde disuguaglianze economiche tra il primo mondo e gli altri (migrazione economica); le crisi umanitarie di paesi che non hanno conosciuto, se non in parte, una transizione verso sistemi politici equilibrati e riformisti (utilizzando con cautela la parola democrazia, migrazione politica); la mancanza della libertà nell’usufruire di alcuni diritti fondamentali, a cominciare dalla libertà di esprimersi culturalmente, di professare un credo religioso, etc. (migrazione umanitaria e dei valori). Si scappa dalla miseria, si scappa dalla cronica assenza di futuro, si scappa dall’oppressione e dal fondamentalismo religioso/politico.

È sotto gli occhi di tutti come la comunità internazionale non sia preparata ad affrontare comunitariamente una crisi ciclica (le migrazioni sono sempre esistite, hanno rappresentato una variabile importante nella diversificazione delle storie culturali del pianeta), che mai come questa volta risulta co-generata da problematiche irrisolte e da questioni nuove: a) le crisi politiche e le instabilità del Nordafrica, la cui primavera si è trasformata nella maggior parte dei casi in un rigido inverno; b) l’impossibilità di portare a soluzione criticità antiche che oggi si caricano di ulteriori incomunicabilità e sfociano in una crisi bloccata dalla categoria schmittiana amico-nemico (questione israelo-palestinese-araba); c) la presenza di un fondamentalismo religioso (il Califfato dell’Isis, ma anche i molti volti di un assolutismo politico-confessionale che non tutela le libertà fondamentali) che continua a fare proseliti nella fase di disillusione e di mancanza di ideali che la civiltà occidentale vive da tempo; d) la difficile emersione del continente africano dal suo stato di arretratezza, che limita le enormi potenzialità di un contesto che i Paesi occidentali o i nuovi protagonisti statuali della comunità internazionale continuano ad utilizzare come il “comodo cortile” di casa propria; e) il protagonismo di nuovi/vecchi attori della rete diplomatico-politica (Iran, Turchia, per esempio), espressione di civiltà antiche e nobili ma problematiche, che configurano uno scenario diversificato, per nulla semplice da governare. Il fascino e la difficoltà di interagire all’interno dello spazio mediterraneo rimane immutato e rimanda a figure che, come La Pira, significativamente ne hanno fatto uno dei nuclei sperimentali per coraggiose operazioni di vera politica.

Quando il sindaco di Firenze realizzò uno dei grandi eventi che caratterizzeranno la sua esperienza amministrativa, i Colloqui mediterranei, la fase politica non presentava certo scenari semplici e scontati. In piena guerra fredda la proposta del “neoatlantismo” apparve ad alcuni un cedimento rispetto alla politica centrista e anti-sovietica, ad altri una proposta velleitaria di fronte alla scelta atlantista che la classe dirigente del Paese aveva compiuto solo pochi anni prima. Tale atteggiamento politico, che in Italia vide operare personaggi del calibro di Pella, Gronchi e Fanfani e che si basava sulla richiesta di un disarmo quanto più ampio possibile, sulla riforma della Nato e sulla profonda apertura nei confronti delle nuove realtà dei paesi in via di sviluppo, auspicava la concreta possibilità di un processo politico che instaurasse rapporti politici ed economici su basi democratiche e paritarie. Il mondo arabo, in particolare, era guardato come il tassello di una politica estera più aperta, che andava assolutamente coinvolto in un processo di dialogo e di pacificazione, importante dal punto di vista strategico ma fondamentale anche dal punto di vista economico, come dimostrarono il protagonismo di Mattei e dell’ENI nello sviluppo di importanti progetti energetici in Medio Oriente, che prevedevano non solo l’acquisizione delle risorse, la spartizione degli utili, ma anche la condivisione di competenze e di know how, puntando alla crescita complessiva degli attori in campo.

Tuttavia in La Pira vi era molto di più di un approccio neoatlantico, vi era una proposta di riconoscimento e valorizzazione di uno spazio geografico, storico e culturale. Il Mediterraneo era il tratto di mare che il Professore amò definire come il grande Lago di Tiberiade, ricordando il luogo in cui venne insegnata una dottrina di pace, in cui vennero compiuti miracoli della carità e della condivisione, in cui venne rinsaldata l’amicizia tra un Dio, declinato secondo i valori dell’amore, e il suo popolo, spesso alla ricerca delle motivazioni più importanti per le quali spendere la propria esistenza. All’interno di questo spazio ricco di rimandi e significati si possono evidenziare almeno tre elementi che la proposta di La Pira tese a rimarcare con forza. Primo: il Mediterraneo è lo spazio della nascita di culture millenarie, non casualmente strutturato per farle interagire. Nel discorso inaugurale al primo appuntamento dei Colloqui il sindaco disse:

Cooperare alla pace nel Mediterraneo e nel mondo, ma come? (…) La risposta, a mio avviso, è possibile se si considera la comune vocazione storica e per così dire permanente che la Provvidenza ha assegnato nel passato, assegna nel presente e, in un certo senso, assegnerà nell’avvenire (se noi le restiamo fedeli) ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo. Questa vocazione o questa missione storica comune consiste nel fatto che i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori di una civiltà che, grazie all’incorruttibilità e alla universalità dei suoi componenti essenziali, costituisce un messaggio di verità, d’ordine e di bene valido per tutti i tempi, per tutti i popoli e per tutte le nazioni. Gli elementi essenziali sono (…) tre: 1) la componente religiosa della rivelazione divina che trova in Abramo – patriarca dei credenti – la comune radice soprannaturale (…). Il Tempio, la cattedrale e la moschea costituiscono precisamente l’asse attorno al quale si costruiscono i popoli, le nazioni e le civiltà che coprono l’intero spazio di Abramo. 2) la componente metafisica elaborata dai Greci e dagli Arabi: è ad essa che si deve l’immensa ricchezza di idee che sostengono una visione ordinata, essenzialmente metafisica e teologica del mondo, e che costituiscono intellettualmente ed artisticamente la bellezza stessa della civiltà di cui i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori. 3) la componente giuridica e politica elaborata dai romani. È a questa che si deve la strutturazione di un ordine giuridico e politico di cui gli elementi maggiori costituiscono il tessuto essenziale dove si articola ogni ordine sociale e umano autentico [1].

L’incontro, a volte fecondo, a volte teso e drammatico tra culture diverse aveva avuto un valore generativo nelle sue acquisizioni filosofiche e teoretiche, nelle sue sperimentazioni politiche, nel necessario definirsi di luoghi, tempi e proposte per la convivenza tra i popoli e le religioni. E questo richiama un secondo elemento fondante: il Mediterraneo è lo spazio dell’incontro tra le tre grandi religioni monoteiste, che hanno in Abramo il loro progenitore. Il vissuto religioso, allora come oggi, costituiva uno spazio di aggregazione e di condivisione, o il pretesto per il proliferare dell’odio, della discriminazione e dei conflitti. Il sindaco fiorentino ne era cosciente, per questo scrisse all’amico Pierre Corval, direttore di «Etudes Mediterranéennes»:

Ebbene, caro amico, io Le dico: ma non è proprio il Mediterraneo (e le nazioni ed i popoli che vi si affacciano) il “luogo” per così dire, più “interessato” a questa crisi così essenziale del mondo? Basta pensare a Gerusalemme, la città santa degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani: tre religioni annodate in Abramo; tre civiltà “monoteiste” saldamente intessute con i valori culturali comuni. Dove sta la crisi? Proprio nella minaccia di sradicamento di questa pianta divina: nella negazione – non solo come fatto culturale e individuale, ma come fatto politico e collettivo – della radice stessa di questa pianta divina: viene negato il Dio di Abramo, di Isacco, di Ismaele, di Giacobbe (…). Ebbene: questo fatto politico così drammatico e di dimensioni così vaste – mondiali ormai! – questo fatto politico che, se prevalesse, muterebbe davvero (almeno per qualche tempo!) il volto della civiltà e del mondo, può lasciare senza riflessione particolarmente approfondita i popoli e le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo? Cristiani, musulmani, ebrei: la loro “geografia” religiosa, spirituale, culturale, civile, politica, non ha proprio nel bacino mediterraneo il suo spazio vitale? La minaccia di sradicamento dei valori essenziali della civiltà e del mondo non ha proprio qui la sua zona di pericolosità più acuta? I destini del mondo intiero, perciò, non sono posti in gioco proprio qui? La storia non si è fermata oggi proprio qui, per così dire, in attesa di una scelta e di una decisione? (…) Queste domande non sono né fantastiche, né astratte: esse pongono in piena evidenza il più concreto ed il più improrogabile dei problemi politici e storici del nostro tempo. Solo entro questa prospettiva, in questo quadro, assumono il loro vero valore ed il loro rilievo i problemi attuali del Mediterraneo: (…) solo se prospettati così questi problemi mostrano il loro volto vero [2].

La Pira, in una lettera a Nasser del 22 febbraio 1958, esprimeva la convinzione di come il Mediterraneo andasse valorizzato e tutelato, perché realtà ospitante alcune città simboliche (Gerusalemme, Roma, Atene, La Mecca, Alessandria), «città essenziali del Suo disegno storico: non città museo: no: ma città-fontane, città-fari, città-sante: città dalle quali zampillerà sempre, per tutte le generazioni, per tutti i secoli, per tutti i popoli, una luce inestinguibile di grazia e di civiltà!». Il compito di generazione culturale che aveva sede nel ‘grande lago di Tiberiade’, si sarebbe aperto verso una realtà più grande, che si può riassumere nel terzo elemento sintetico: il Mediterraneo è il luogo generativo di una cultura ampia, aperta, dialogica, che il Professore chiamò la ‘civiltà dell’universale’, considerata tale per la profondità delle sue caratteristiche e per la volontà di propagandare la pace come un sinonimo della lotta alla disuguaglianza, alla fame, all’ignoranza. Guardando con favore all’appuntamento di Bandung e alla politica di non-allineamento, sostenendo il processo di decolonizzazione e il desiderio di crescita del mondo arabo e africano, La Pira manifestava un’esigenza di apertura, di penetrazione all’interno delle problematiche principali nell’incontro tra popoli, stati, culture, che poi provò a concretizzare aprendo i Colloqui mediterranei all’incontro con l’Africa nera. In questa sede avvenne un passaggio decisivo: il Mediterraneo non poteva considerarsi uno spazio chiuso, auto-sufficiente, ma doveva guardare alle problematiche che spingevano alle sue porte e che richiedevano la dote di riflessione filosofica, sapienza giuridica, meditazione religiosa di cui era ricco. Durante il terzo appuntamento disse:

Ebbene, amici dell’Africa Nera: il compito che Dio vi affida, la missione e la vocazione di cui Egli fa ricchi i vostri popoli e le vostre nazioni e le vostre culture (…) nel momento stesso in cui voi entrate come attori essenziali nella storia presente e futura è come da voi stessi stato detto, quello di attirare e di integrare con elementi preziosi ed originali di giovinezza religiosa, spirituale, culturale, sociale, economica e politica; con aspetti inediti di bellezza e di luce – la vita e l’espansione (dopo le debite purificazioni e potature) di questa antica quercia mediterranea radicata nel cuore geografico, storico, religioso e civile del mondo (…). Il compito che Dio vi affida, la missione, la vocazione di cui Egli fa ricchi i vostri popoli e le vostre nazioni e le vostre culture è, perciò, quello di essere fattori essenziali e cause in certo modo motrici di quel rilancio storico (in atto proprio oggi) della “civiltà dell’universale” destinata ad estendersi a tutte le nazioni della terra per integrarle ed arricchirle tutte e per essere da tutte integrata ed arricchita. (…) Questa visione di contemplazione e di bellezza – amici Africani – non ci fa evadere dai problemi più urgenti della vita quotidiana dei vostri e dei nostri popoli: dal dovere immediato che abbiamo di sradicare dalle nostre città e dalle nostre nazioni i mali della disoccupazione, della miseria, della ignoranza: questo sradicamento pronto e deciso di questi mali costituisce la premessa medesima di quell’ardimentoso rilancio di civiltà alla quale voi e noi, come tutte le altre nazioni, siamo solidamente impegnati! È per questo, amici Africani, che siamo tutti tenuti a mutare profondamente le strutture invecchiate della società ed a strutturare l’economia, la società e lo stato (mediante tutti gli strumenti che la scienza, la tecnica e l’analisi economica del tempo nostro hanno creato e sempre più vanno creando) in modo tale da elevare i nostri popoli a quei livelli di giusto benessere, di scienza, di cultura, di bellezza, di contemplazione (…) e di pace (interna e internazionale) che sono i livelli storici proporzionati al destino infinito ed alla infinita dignità della persona umana [3].

In questo discorso vi è la sintesi della portata generale di una vocazione comune che sembra delinearsi in modo chiaro davanti agli uomini di buona volontà, davanti ad una comunità internazionale veramente interessata alla cooperazione e alla soluzione dei problemi. La cultura dell’universale possiede le caratteristiche sulle quali si sono costruite le fondamenta principali con cui è stato edificato ogni progetto duraturo: la pace, la ricerca di un nuovo umanesimo, il fecondo incontro tra culture. La pace appare come il requisito fondamentale, senza il quale è impossibile sperare di edificare qualcosa di duraturo. E qui non si può riferirsi solo alla “pace negativa”, intesa come assenza di guerra, una certa libertà dai conflitti e dalle contrapposizioni, ma come “pace positiva”, riferita alla disponibilità di coloro che sanno di dover costruire le condizioni per eliminare le radici di futuri e nuovi conflitti: la povertà, l’ignoranza, la disuguaglianza, un pensiero ideologico portato a marchiare il territorio, le appartenenze e i destini. Non è banale ricordare che l’evento politicamente più importante lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese è stato un trittico: libertà, uguaglianza e fraternità, in cui il terzo fattore appare determinante per qualificare anche gli altri due. Chi ha cercato di esaltare il primo a scapito del secondo ha creato società individualiste e schiave del paradosso di un’opulenza svuotata dall’incontro con la realtà dell’altro; chi ha esalto il secondo a scapito del primo ha creato una collettività priva delle principali libertà, in nome di un’utopia che si è basata su uno stato di massificazione e di controllo. La fraternità, spesso problematica e mai banale (e che comprende anche una dimensione antagonista), afferma tuttavia quanto siano costitutivamente interdipendenti e interpersonali le nostre relazioni e come le possibili soluzioni a problematiche specifiche o universali non possano prescindere dal senso di co-abitazione e co-appartenenza che rimane anche quando si sono eliminati e valutati tutti gli elementi di differenziazione. Ciò richiama la scoperta di un ‘nuovo umanesimo’, in particolare lo sviluppo della categoria di persona, che in quanto tale deve poter usufruire dei diritti legati alla caratterizzazione individuale, ma dentro la valorizzazione del pieno compimento di sé, in quella che il filosofo francese Mounier riconosceva come la condizione per dispiegare le immense potenzialità e capacità dell’essere umano fattosi soggetto operante: «I tre esercizi essenziali della formazione della persona sono dunque: la meditazione, per la ricerca della propria vocazione; l’impegno, ossia il riconoscimento della propria incarnazione; la rinuncia, vale a dire l’iniziazione al dono di sé e alla vita altrui. Quando la persona manca ad uno di questi esercizi, ha perso la partita» [4].

Quest’estate ero ancora in Brasile per lavoro quando si è aggravata in maniera pesante la vicenda dei migranti, che mostrava il Mediterraneo e l’Europa attraversati da drammi umani, di tipo economico-sociale, ma anche da importanti gesti di solidarietà concreta e, in alcuni frangenti, da vera compartecipazione tra popoli diversi e in oggettive condizioni di disparità nel contesto generale, evidente nei poli opposti della scala pace-guerra, democrazia-autoritarismo, disagio-accoglienza, etc. Ciò che impressionava era sia l’impatto con la profondità dei problemi, ma anche le potenzialità della condivisione concreta e la speranza insita in un lavoro comunitario, quello che spesso latita e fatica ad emergere dentro l’Unione Europea e i suoi diversi attori. Ciò richiama un ultimo elemento importante: la cultura dell’incontro, le cui caratteristiche non sono mai risultate estranee a La Pira, alla sua sensibilità, alla passione con cui si è speso a favore delle relazioni tra persone, stati, organizzazioni. In primo luogo vi sono i riferimenti ad accoglienza e rispetto, parti integranti dell’inesausta predisposizione ad avvicinare gli altri con la mente aperta e lo spirito libero, soprattutto quando l’interlocutore mostra la debolezza della propria condizione e della propria storia. Poi si esalta il binomio ascolto e dialogo, oggi più che mai urgenti nei vari contesti della costruzione comunitaria interessata al bene comune, che si nutre delle diversità culturale e della libertà nel pensare al futuro. La dimensione dell’incontro evidenzia anche solidarietà e cooperazione, che sempre di più sembrano rappresentare i valori di riferimento per un’agenda politica che si avvicina alla complessità dei problemi attuali.

Da più parti si proclama la necessità di una stagione qualificante non solo a livello umanitario (accoglienza, piani di sviluppo, diritti di cittadinanza), ma anche di una progettazione politica che guardi alle generazioni future, quelle che saranno chiamate a costruire il cambiamento, quelle che, con puntuale lungimiranza, La Pira amava definire come le rondini che annunciano la primavera. Sulla linea del tempo e delle auspicate svolte storiche continua a campeggiare l’avviso paolino e lapiriano al medesimo tempo: Spes contra spem.

 

[1] Discorso di La Pira in occasione dell’apertura del primo Colloquio Mediterraneo, 3 ottobre 1958, ora in M. P. Giovannoni, Il grande lago di Tiberiade. Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo (1954-1977), Firenze 2006, pp. 69-70.

[2] Lettera di La Pira a Pierre Corval, direttore della rivista di studi «Etudes Mediterranéennes», 23 agosto 1957, ora in M. P. Giovannoni, Il grande lago di Tiberiade…, cit., Firenze 2006, p. 27.

[3] Cfr. E. Balducci, Giorgio La Pira, San Domenico di Fiesole (FI) 1986, p. 91.

[4] Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica editrice, Bari 1984, p. 78.

 

Spes contra Spem 2015: contributi di Carlo Parenti, Salvatore Xibilia e Alessandra De Paola

Intervento di Carlo Parenti

Una visione “olistica” della personalità di la Pira

Faccio in primo luogo riferimento alla metafora lapiriana delle tre pietre (profetica, metafisica, giuridica) che devono essere a fondamento dell’unità delle città e delle nazioni.  A mio giudizio essa ci dà l’opportunità di sottolineare come in La Pira tutto sia interconnesso – l’una pietra sorregge l’altra – e di come la sua personalità vada considerata olisticamente. Il termine olistico fa  riferimento alla parola greca Olos (tutto, intero, totale) e vuole rappresentare la tesi che “il tutto  vale più della somma delle singole parti”.

La personalità di La Pira è  incredibilmente poliedrica e complessa in quanto vi si trovano  radici bibliche – collegate a  riflessioni  sul tomismo  e sul personalismo di Maritain e Mounier  – sempre connesse  a considerazioni   storiche, politiche, economiche, giuridiche, scientifiche, psicologiche, urbanistiche, ecc. Significativo è quanto osserva lo storico dell’economia Piero Roggi che qui provo a sintetizzare. Il pensiero di La Pira è a strati plurimi. Difficile è l’impresa di quegli storici (definibili  appunto come olisti) che cercano di abbracciarlo per intero. Più semplice il compito degli specialisti che isolano un solo aspetto dell’esperienza lapiriana.

Anche Nicola Pistelli, suo assessore e padre di Lapo Pistelli – già  viceministro degli esteri del primo governo Renzi e oggi  vicepresidente senior di Eni – così si espresse nel 1955: “la storia di La Pira è una storia impossibile a raccontarsi per intero, tanto la cronaca risulterebbe arida a confronto con la realtà”. E mi accorgo che sia leggendo i tanti lavori usciti, sia provando io a scrivere del Professore (sto completando in questi giorni un volume sul suo rapporto con i giovani), resta sempre l’insoddisfazione di non comprenderlo o descriverlo nella sua interezza. E’ come se si dipingesse soltanto un quadro e non si scolpisse una scultura attorno a cui girare per vedere da più angoli la figura completa.

Tornando a padre Cortesi vorrei aggiungere una mia considerazione sulle caratteristiche degli incontri personali  (che Cortesi ci dice facilitati e da leggere sul terreno della “comune povertà”) del Professore. Ho assistito infatti  a tanti incontri che La Pira ha avuto, specie con gli studenti. Posso testimoniare che  questi erano sempre “originali” anche nell’apparente identità dei contenuti. Tant’è che di Giorgio La Pira ciascuno può dire di avere il proprio ricordo personale, perché il Professore nel trattare con le persone aveva il dono di essere sempre diverso, sempre molteplice nei modi e nelle parole, beninteso  nell’unità e nell’identità del suo agire. Sulla soltanto apparente identità di come egli trattava (necessariamente) un tema mi viene in mente quanto scrive Ignazio Silone in “Avventura di un povero cristiano”: “…nel medioevo vi erano dei monaci che trascorrevano l’esistenza a dipingere il Volto Santo, sempre il medesimo volto, che in realtà poi non era mai del tutto identico”.

Questo a mio parere si deve al fatto del rispetto che La Pira aveva in generale della libertà di ogni singola persona, perché creatura fatta da Dio a Sua immagine e somiglianza; conseguentemente come persona ciascuno era interlocutore degno di attenzione e meritava spiegazioni e sollecitazioni capaci di provocarne la libera crescita; infine nessuno, in quanto persona, poteva essere coartato nelle idee, ma doveva essere trattato come soggetto sovrano.

In altre parole i suoi rapporti personali  si possono considerare “animati” da questo Suo riconoscimento della dignità ontologica delle singole persone, che filosoficamente e teologicamente fondava sul tomismo e sul personalismo neo tomista di Maritain e Mounier.

– Il diritto romano come  paradigma per interpretare la storia e come strumento di profezia.

L’intervento del professor Ferretti su La Pira docente di diritto romano mi dà il destro per ricordare una mia singolarissima esperienza personale che rivela come il Professore si servisse appunto di quel diritto come paradigma per interpretare la storia e come strumento di profezia. Valga dunque dire quanto è capitato col mio esame di diritto romano. Ricordo che esso verté sul come Mao Tse-tung avrebbe realizzato  un codice civile. Infatti mi chiese. “Se tu fossi Mao Tse-tung, come costruiresti un codice civile per la  Cina?”

Oggi la domanda può sembrare di poco interesse, ma allora eravamo nel luglio del 1972! E il Presidente cinese era nel pieno del potere di una durissima dittatura comunista e la sua morte sarebbe avvenuta nel settembre 1976.  Quindi porsi il problema di riconoscere diritti privatistici in Cina poteva apparire certamente fuori dal mondo ed essere solo un esercizio teorico. Avendo assistito alle lezioni del Professore comunque mi fu facile rispondere citando il giurista romano Gaio, autore tra il 168 e il 180 di un importantissima opera didattica in quattro libri: Le Istituzioni. La loro importanza per noi è costituita dal fatto di essere l’unica opera della giurisprudenza romana classica ad essere pervenuta fino ai nostri giorni direttamente, senza il tramite di compilazioni che ne abbiano potuto alterare il significato.

Gaio articolò in tre parti la propria opera: personae (primo commentario) res (secondo e terzo commentario) e actiones (quarto commentario). Per res si intendono i rapporti patrimoniali, compresi quelli di natura relativa, come le obligationes. Sempre nella parte dedicata alle res si parla anche delle successioni. Nella parte dedicata alle actiones Gaio si occupa del processo.

Risposi quindi con l’espressione, ripresa da Gaio, che La Pira spesso amava ripetere proprio per abituarci a ragionare per pochissimi principi:  omne jus quo utimur, vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet  (Ogni diritto che usiamo si riferisce o alle persone o alle cose o alle regole processuali). Quindi dissi che avrei fatto la prima parte del nuovo codice civile cinese sui diritti della persone, la seconda sui diritti reali, la terza sul processo. Aggiunsi solo poche spiegazioni, cioè quelle sopra appena riportate sull’opera di Gaio. L’esame era appena cominciato e quella fu la prima domanda. Pertanto rimasi sorpreso quando il Professore, dopo aver commentato qualcosa sulle  linee maestre che il diritto romano indica ai costruttori sociali per piegare alla giustizia gli accadimenti civili, esclamo contento: “Bravo! 30 e lode!”.

Ma non fui l’unico a sorprendermi. Ricordo che il suo assistente (quel Fabrizio Fabbrini che fu tra i primi obiettori di coscienza in Italia) quel giorno era malato e pertanto un assistente di altra cattedra – quella di storia del diritto romano – mi interrogò  a sua volta con molte domande dalle problematiche molto tecniche. Mi pare che “l’interrogatorio” durò non meno di 15/20 minuti. Alla fine l’assistente “supplente” disse: “Professor La Pira, va bene, il candidato merita la lode”. Al che il Professore rispose. “Ma non lo avevi capito subito che aveva studiato e avevo compreso anche i principi?”

Ma la storia non finisce qui. Una sera, mi pare del 1999 , sul finire della mia giornata lavorativa da legale in una multinazionale con sede italiana a Milano, finalmente riuscii a leggere un giornale che si usa per lavoro: Il Sole 24 Ore.  In prima pagina vi lessi che in Cina era stato varato un primo nucleo di norme civilistiche (una sorta di primo abbozzo di un futuro codice civile) con la collaborazione di giuristi europei e che la base per tale normativa era il diritto romano e che in particolare si era lavorato sulla base dei testi di un giurista dell’antica Roma: Gaio !!! Mi vennero le lacrime agli occhi.

Ancora oggi in Cina si sta lavorando ad un testo di vero e proprio codice civile e per questo si fa ricorso alla giurisprudenza romana, e ai suoi principi, che viene considerata un patrimonio dell’umanità. Il Professore aveva visto giusto!! Inoltre è stato tradotto in cinese il Digesto, realizzato anche sul modello delle Istituzioni di Gaio per incarico dell’imperatore Giustiniano e promulgato nel 533.

Inoltre come ci testimonia qui il prof. avv. Giulio Conticelli, Vice Presidente della Fondazione La Pira, sono in corso di traduzione le dispense universitarie del Professore che dovrebbero essere  adottate in una università Cinese, mi pare a Pechino, come testo base per le istituzioni di diritto romano.

Aggiungo che in un recentissimo convegno su La Pira romanista il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Casavola,  ha sottolineato proprio il fatto di come il Professore fosse capace di interpretare la storia e addirittura anticiparla attraverso le categorie del  diritto romano ed ha citato ad esempio proprio come oggi tale diritto sia quello vigente nella grande nazione. Ha pure ricordato come  incontrando un autorevolissimo esponente cinese costui gli abbia detto: “Noi vogliamo essere i romani d’oggi!” ( si noti il plurale…).

– La Pira e Papa Francesco: una comune speranza 

Vorrei fare un abbozzo di riflessione sull’attualità del pensiero “lapiriano” che trova secondo me riscontro, nella radice delle Scritture, in molte delle parole e dei gesti di Papa Francesco. Papa che a mio giudizio rappresenta un dono confermativo della profezia di La Pira. Il Professore ci  narrò di un suo incontro in Vaticano con un importantissimo cardinale che prima lo rimproverò perché  correva troppo – “Lei è almeno 30 anni avanti” – ma poi lo rassicurò: “Vada avanti Professore, Noi la seguiremo”. Sono molti i punti di identità tra queste due grandi figure.

Si pensi ad esempio alla critica agli armamenti a partire dal pensiero di Isaia, alla difesa del valore della persona umana, alla difesa della “povera gente” e del lavoro e della casa, alla missione delle città, al dovere di salvaguardia del Creato affidato in custodia alla genti per trasmetterlo alle generazioni future (ed anche – per quanto riduttivo – alle identiche critiche anche feroci rivolte loro: “comunista”, ecc).

Vorrei qui soffermarmi sul pensiero di La Pira come operatore di pace e alla Sua instancabile azione per l’unità della famiglia di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e per la pace nel Mediterraneo – grande lago di Tiberiade – e nel mondo. A questo proposito un pensiero fisso di La Pira era declinato con la semplice espressione “costruire ponti non muri”. L’immagine dei muri da abbattere e dei ponti da costruire ha accompagnato spesso le riflessioni di coloro che hanno a cuore la pace. Mi ha colpito che ben 2 papi sono sintonizzati (naturalmente, in quanto è il messaggio del Vangelo) su questa visione teleologica, cioè dei fini.

Il 20 novembre 2003 il beato Giovanni Paolo II ebbe a dire che “non di muri, ma di ponti ha bisogno la Terra Santa”, parole ancora oggi inascoltate non solo in Terra Santa, ma anche in tutti i focolai di guerra ancora accesi, e perfino nelle nostre città, dove riaffiora sempre la tentazione di affidare a un muro la propria sicurezza e quelle dei propri cari.

Più recentemente nel giugno 2014 Papa Francesco ha compiuto un gesto di grande significato: l’incontro tra lo stesso  Francesco e i presidenti israeliano e palestinese, Shimon Peres e Mahmoud Abbas, per invocare la pace in Terra Santa. Sottolinea la visione lapiriana che illumina tale iniziativa del Vescovo di Roma quanto ha scritto sull’Osservatore Romano il 7 giugno 2014 – alla vigilia dell’incontro citato – Gualtiero Bassetti, poco dopo nominato cardinale e poi anche eletto a grande maggioranza vicepresidente CEI dai vescovi italiani: oggi “riacquistano un grande significato le parole con cui Giorgio La Pira, nel tentativo di delineare il suo sforzo incessante per il disarmo e la pace, si rivolse a Paolo VI nel febbraio del 1970: è venuto il momento – scriveva il sindaco di Firenze – di abbattere i muri e di costruire ponti. È giunto il momento, cioè, di superare qualunque divisione e ogni contrasto fratricida per edificare solidi legami di pace e di unità.

(…) Parole che rilette oggi assumono una nuova attualità e sembrano valorizzare l’idea lapiriana di una «Chiesa come centro di gravità delle Nazioni». Chiesa che non si limita a parlare ma agisce e compie gesti concreti, nel modo che più le è proprio: attraverso la preghiera. Con quel linguaggio, il solo a poter compiere miracoli, che entra nel profondo dei cuori degli esseri umani e sradica i motivi di odio e di vendetta. L’odio e la vendetta, infatti, non portano mai frutto, ma generano solo altri rancori e desideri di rivalsa in un crescendo di dispute, ostilità e terrore. La preghiera, invece, rappresenta un momento di ineguagliabile significato spirituale con cui chiedere l’intercessione divina, ma anche un metodo di dialogo dall’insuperato valore civile.

Ciò che scaturisce dall’incontro in Vaticano – e dalla visita del Papa in Terra santa – è dunque un segnale fortissimo che si allarga all’intera famiglia umana, soprattutto ai Paesi teatro di sanguinosi conflitti, come la Siria e l’Ucraina. Ma non solo. Questo incontro tra persone di fedi diverse, assume un evidente significato di concordia e di armonia anche per tutti quei popoli, come ad esempio quello italiano, che sono troppo spesso caratterizzati da un inveterato spirito di fazione e da un’atavica tendenza a dividersi.

(…) «Ogni crisi» – scriveva La Pira – «prima di essere politica o economica è, diciamo così, metafisica e religiosa» e «concerne la destinazione ultima dell’uomo».

Al centro di tutto e alla luce del mistero dell’incarnazione risiede, infatti, il riconoscimento del valore di ogni persona umana. Mettere al centro il valore della persona significa infatti riconoscere il suo volto, capire i suoi bisogni, vedere le sue ferite, favorire le sue aspirazioni e far rispettare i suoi doveri nei confronti della collettività. A partire dalla pace, che non è certo una vaga aspirazione ideale, ma un obiettivo reale per il bene dell’umanità”.

Intervento di Salvatore Xibilia, presidente dell’Associazione culturale “G.La Pira” di Siracusa

Caro Presidente, cari tutti voi presenti in questo importantissimo evento organizzato magistralmente dalla nostra Fondazione, innanzitutto, desidero rivolgere un affettuoso saluto e un grazie per l’invito, sia a titolo personale che dei componenti il gruppo dirigente dell’Associazione culturale “G. La Pira” di Siracusa, già operante dal 2006, ovvero: mons. Greco (Direttore Biblioteca “Alagoniana” c/o Arcivescovado di Siracusa), dr. Latina (Tesoriere) e dr. Elia (Vicepresidente).

Purtroppo, anche se un recente lutto familiare mi impedisce di vivere e condividere con voi questo momento di gioia, tuttavia, mi preme, a nome dell’Associazione che rappresento, far percepire la nostra presenza e non soltanto con l’invio di un caro saluto, piuttosto, confermando il nostro “ci siamo” e, all’interno di questo bellissimo Progetto, vogliamo continuare ad esserci.

Com’è stato la prima volta, sono convinto che, anche in questo secondo appuntamento, grazie al contributo culturale offerto dai magnifici amici Relatori e al complementare apporto “esperienziale” fornito dal crescente associazionismo presente sul territorio, testimone forte e concreto di un La Pira quanto mai attuale, sarà possibile coniugare arricchimento e carica davvero particolari.

E così, il potersi, ancora una volta, confrontare per una sintesi comune, anche su temi complessi e difficili come ad esempio, la necessità, oltre che l’urgenza, di arginare i crescenti flussi migratori dove, a tal proposito, la Regione Sicilia è tra quelle più interessate, o contribuire a promuovere soluzioni pacifiche in riferimento ai recenti conflitti bellici tra popoli animati prevalentemente da sentimenti di odio apparentemente spontanei e incontrollati ancor prima che ideologici, fino a giungere alla consapevole responsabilità di essere, oggi, cattolico nel mondo e per il mondo, etc. etc., consente, inevitabilmente, di rafforzare, sempre di più, l’intesa fra il Coordinamento, la Fondazione, e l’Operatività, le Associazioni che ad essa si ispirano.

Credo che ciascuno di noi, ognuno nel proprio ambito, ovviamente, in questi anni abbia lavorato bene e con sacrificio, contribuendo, sensibilmente, non solo alla diffusione del Verbo del Professore, ma, allo stesso tempo, alla crescita di una già grande Famiglia, grazie a quell’onestà intellettuale e fede cristiana che ci accomuna e ci caratterizza.

Tanto e tanto altro ancora vorrei aggiungere, però, non mi sembra corretto né utile, sottrarre ingiustamente altro tempo al Convegno, pertanto, concludo, rinnovando a tutti Voi i più cordiali saluti da parte di tutta l’Associazione culturale “G. La Pira” di Siracusa, un arrivederci e un sincero augurio di buon lavoro.

Intervento di Alessandra De Paola, Assessore al Turismo del Comune di Montecatini Terme 

Mi ha sempre colpito molto il concetto keynesiano di “interventismo” economico di La Pira nel tessuto industriale e commerciale di Firenze, e in senso lato di tutta Italia, attraverso le azioni eclatanti che lo hanno contraddistinto in questo senso.

Ricordo anche che leggendo il carteggio tra lui e Costa a volte davo ragione a La Pira, a volte dentro di me davo ragione a Costa, perché chi vive a contatto con il mondo degli affari non può che essere combattuto, nella scelta di servire Cristo o “mammona”, come diceva il mio vecchio frate.

Adesso sono un amministratore, seppure limitatamente ad una cittadina di provincia, e mi rendo conto che gli strumenti a disposizione degli amministratori locali non vanno affatto nella direzione di La Pira, quanto in quella di Costa; faccio un esempio specifico: una amministrazione pubblica non può dare denari ad un seppur validissimo progetto dove insista lo scopo di lucro. Solo dove non c’è lo scopo di lucro il comune può elargire contributi.

Come se il lucro, il guadagno fosse mala abitudine; come se il creare lavoro e reddito fosse sbagliato. Essendosi di fatto ARRESI all’incapacità di eliminare la corruzione. Allora si elimina il guadagno, si eliminano le opportunità.

Mi domando, se adesso lo chiamiamo Sindaco Santo, se la sua concezione di amministrazione che ammiriamo, anzi, studiamo approfonditamente, era quella, perché mai ogni generazione di amministratore a lui successivo, seppure da lui stesso formato ha ignorato questo aspetto, ed ha contribuito a creare una amministrazione che di fatto imbriglia l’azione?

La nostra legislazione dà per scontata la corruzione e la volontà di fregare, non sottende la buona fede; prevede ancore di salvataggio per i ceti più poveri, non parte dalla loro emancipazione; le amministrazioni tamponano, giammai sindacati ed amministrazioni entrano nel merito di piani industriali di salvataggio, ma meramente attendono e severamente condannano.

Se vi batteva così forte il cuore, perché ci avete consegnato un faldone di leggi di ispirazione diametralmente opposta?

Verosimilmente, quali possibilità avrebbe mai La Pira di dirompere con il suo messaggio, senza andare fuori legge? Un vero e proprio ossimoro, questo sull’immigrazione, dopo l’intervento della professoressa, davvero commovente e illuminante sulla Repubblica di San Procolo in cui ci ha raccontato con quale costanza e amore venisse aiutata “la povera gente, invisibile, senza un luogo dove dormire”, alla quale prima di tutto veniva dato il pane dell’eucarestia, nel quale trovavano il primo e più importante conforto, e poi anche il pane per sfamare se stessi e le loro famiglie.

Si può dire che i poveri di oggi siano di diversa natura, e che l’aiutarli sia di fatto molto meno “romantico”: spesso e volentieri non ci capiscono, non hanno un grado di educazione o cultura tale da consentire loro il sentimento della gratitudine, non condividono radici con chi li accoglie, e soprattutto il pane dell’eucarestia non lo vogliono, perché non è la loro religione.

Allora quale pane dare a questa gente, ai migranti, agli immigrati clandestini, a quelle persone socialmente ruvide e indigeribili, che la società non assorbe e rigetta con violenza spesso?

E perché in tanti anni non siamo ancora riusciti a sanare l’eterna lotta tra accoglienza ed evangelizzazione?

Lo stato vieta di accogliere evangelizzando, a malapena consente di accogliere; la nostre fede vieta di ignorare le richieste di aiuto, e ci impone in un certo senso di evangelizzare, con l’esempio e con la parola.

Quale è la nostra San Procolo di oggi?

Spes contra Spem 2015: intervento di Giacomo Mininni

 

Verso il mare

di Giacomo Mininni

  

Il rischio maggiore, parlando di Giorgio La Pira e della sua azione politica, è probabilmente quello di ridurre tutto ciò che il “sindaco santo” ha fatto, detto e scritto alla pura dimensione del suo essere “profeta”, quasi mistico, riconducendo ad una sorta di impulso o di sogno romantico una linea d’azione che viene invece da una precisa base teoretica e da idee strutturate e formate su una lunga e virtuosa tradizione filosofica.

È questo il motivo che mi ha indotto a scrivere il libro “Verso il mare. La filosofia della storia di Giorgio La Pira”, pubblicato da Giuliano Ladolfi Editore nel maggio di quest’anno. L’idea alla base del testo è quella di riscoprire il La Pira filosofo, la sua dimensione di pensatore e di studioso che, unita indubbiamente ad una componente mistica e religiosa mai venuta meno, gli ha permesso di incidere nei modi che conosciamo sul tessuto sociale, politico e culturale dell’Italia del secondo dopoguerra, e non solo.

Piuttosto che le fonti palesi, esplicitate da La Pira stesso, come S. Tommaso d’Aquino o i personalisti francesi, “Verso il mare” si ripropone di indagare quelli che sono invece i modelli nascosti, a volte perfino inconsapevoli, di un aspetto particolare del pensiero lapiriano, ovvero la sua filosofia della storia. Quest’ultima è stata messa in relazione soprattutto con quella di due altri autori, che a mio avviso hanno condizionato e plasmato in certa misura la visione di La Pira: da una parte S. Agostino da Ippona, dall’altra Georg Friedrich Wilhelm Hegel.

Che La Pira conosca e apprezzi Agostino è cosa nota, e la grandezza dell’Ipponate è da lui rimarcata in più occasioni, specie nel corso dei colloqui con Léopold Sédar Senghor e con gli altri leader africani. Il sistema filosofico-storico agostiniano è quello che fornisce a La Pira, ed al pensiero cristiano-cattolico tutto, l’impostazione di base, che dà cioè alla storia umana e immanente la forma di un progetto divino la cui realizzazione è inevitabile. Con Agostino La Pira condivide la linearità di una storia che si dipana tra un punto d’origine (la creazione) ed un punto d’arrivo (l’apocalisse) nella propria natura di “storia della salvezza”. Il modello agostiniano, però, presenta anche notevoli problematicità, primo fra tutti l’assenza di libero arbitrio per le creature, asservite ad una predestinazione elaborata in chiave anti-pelagianista; da questa deriva anche una totale svalutazione dell’attività politica: se il mondo è già diviso da sempre in predestinati alla salvezza (la “Città di Dio”) e alla dannazione (la “città del diavolo” o “dell’uomo”), la politica appartiene indubbiamente ai secondi, mentre i primi dovranno sentirsi come stranieri durante l’intero corso della loro vita. La Pira abbraccia sì il modello agostiniano, ma lo corregge dove opportuno con gli strumenti messigli a disposizione da Tommaso e dalla scolastica, con l’intento di restituire la libertà alla creatura umana e, di conseguenza, riabilitare l’azione del e nel mondo, con particolare riferimento alla politica.

Se l’accostamento di La Pira ad Agostino è relativamente semplice, più complesso appare invece quello a Hegel, da sempre visto dallo stesso sindaco come un avversario ideologico, diretto responsabile, sul piano intellettuale, di tutti i grandi totalitarismi del Novecento. Hegel e la sua dialettica, però, introducono nella filosofia della storia un elemento di cui La Pira stesso non può fare a meno: la dinamicità. Il Geist hegeliano, che conoscendo se stesso e spiegandosi a se stesso mette in moto la storia umana (“incidentalmente”) viene da La Pira rielaborato come Heilige Geist, Spirito Santo, e riportato quindi ad una dimensione consapevole e provvidenziale. Nell’affrontare le tesi hegeliane, in particolar modo quelle dell’evoluzione geografica del Geist, degli individui cosmico-storici, della questione della “fine della storia”, La Pira finisce inevitabilmente per farle proprie, sebbene ristrutturate alla luce della propria formazione cattolica e della propria aderenza de facto al personalismo; così, la geografia hegeliana viene non accantonata ma estesa alle “terre dimenticate” (Asia, Africa, Americhe), l’individualità cosmico-storica viene “democratizzata” e collettivizzata, la fine della storia viene rimandata a dopo la controversa “era germanica” ma mantenuta come orizzonte ultimo.

Oltre ai rapporti con questi ed altri autori (fra i tanti, Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Teilhard de Chardin, Günter Anders, Hannah Arendt), il testo si ripropone anche di analizzare più da vicino gli elementi di originalità nel pensiero lapiriano, affrontando specialmente quelle che sono le metafore con le quali l’autore ha voluto spiegare la propria visione della storia. Abbiamo così la storia vista come un campo, su cui l’uomo è chiamato a lavorare, ma che solo le stagioni ed il terreno (l’intervento divino) porteranno a fioritura; come un pane in cui è stato posto un lievito, l’azione divina, che segretamente ma costantemente lo fa crescere; come un mare, in cui sono distinguibili solo le correnti superficiali, mutevoli, violente ma ininfluenti, e di cui bisogna scorgere invece le correnti profonde, costanti e potenti, che davvero muovono le maree.

La metafora più pregnante rimane quella, mutuata da Boris Pasternak, della storia come un fiume, attraversato dall’umanità come su una barca: gli imprescindibili punti d’avvio (la fonte) e di arrivo (la foce), uniti alle rapide, correnti e anse che caratterizzano l’andamento fluviale, permettono a La Pira una perfetta fusione della staticità agostiniana e della dinamicità hegeliana. In più, facendo proprie le “ansie atomiche” della Guerra Fredda, La Pira aggiunge un ulteriore elemento di originalità, ampliando l’efficacia e la portata del libro arbitrio umano fino a garantirgli la possibilità di incidere radicalmente sul progetto divino. La “apocalisse bifronte” teorizzata da La Pira vede infatti la possibilità di un’accoglienza da parte dell’uomo della Volontà divina, approdando così ai “diecimila anni di pace” profetizzati da Isaia, oppure un suo rifiuto che, mantenendo la metafora, potrebbe concludersi solo con un “affondamento” della barca, la distruzione del pianeta e della razza umana con esso.

“Verso il mare” vuole essere una analisi non certo esaustiva, ma il più possibile approfondita, della filosofia (e teologia) della storia lapiriana, nel tentativo di sottolineare alcuni aspetti precedentemente trascurati di quelle che sono la formazione e le conseguenze del pensiero di Giorgio La Pira.

Spes contra Spem 2015: intervento di Francesco Garofalo

 

L’ATTUALITA’ DELL’OPERA E DELL’AZIONE DI GIORGIO LA PIRA

NELL’ATTUALE CONTESTO STORICO

  di Francesco Garofalo

Quest’anno Giorgio La Pira avrebbe compiuto centodieci anni: forse troppo per un essere umano. Eppure, nonostante tutti questi anni e nonostante fosse morto già nel 1977, il suo pensiero è sempre attuale soprattutto in questo momento storico in cui tanti sono i focolai di guerra in tutto il mondo.

Così risuonano di grande attualità le parole che il Sindaco di Firenze La Pira pronunciò sessant’anni fa, all’Assemblea della Croce Rossa del 1954: “Le generazioni attuali non hanno il diritto di distruggere una ricchezza che è stata loro affidata, ma che appartiene alle generazioni future! Si tratta di beni che derivano dalle generazioni passate e di fronte ai quali le presenti rivestono la figura giuridica degli eredi fiduciari: i destinatari ultimi di questa eredità sono le generazioni successive (…) Tutte le città della terra (…) rivendicano unanimemente il loro inviolabile diritto all’esistenza: nessuno ha il diritto, per qualsiasi motivo, di distruggerle”. “Quindi – aggiungeva Mario Primicerio, Presidente della Fondazione La Pira, al Convegno di Valmontone di dieci anni fa – le città non vogliono morire; le città non possono morire; le città non devono morire”.

Ecco l’attualità di La Pira: i  muri crollano, ne crolleranno altri e, mentre ci dedichiamo ad abbattere i muri, bisogna dedicarsi alla costruzione dei ponti: ponti di dialogo, di confronto, di futuro.

Di fronte a tutto questo il Sindaco di Firenze rilancia la responsabilità delle classi dirigenti, che non sono affatto esentate dal rispetto delle regole morali: “Ecco una verità spesso obliata: la legge morale – dirà La Pira – è una sola; vale per i privati e vale, e con più peso,  per gli uomini che hanno la direzione della cosa pubblica: come agli uni, così agli altri (e con più rigore) è vietato l’assassinio, il furto, la menzogna, l’inganno, ecc.; come agli uni, così agli altri è fatto obbligo di serbare fede alla parola data, di soccorrere il povero e l’oppresso, di fare giustizia con animo imparziale e così via. Il machiavellismo è cosa moralmente cattiva per gli uni e per gli altri. Queste verità semplici come la luce, eterne come Dio da cui procedono, dovrebbero essere oggetto di continua meditazione da parte degli uomini cui incombe la responsabilità della cosa pubblica”.

Ritorna l’attualità di La Pira in un momento storico in cui la corruzione è salita alle stelle e tocca ogni ambito del vivere sociale e politico. La Pira ci richiama all’essenzialità delle cose, alla solidarietà, al porre al centro tutto il genere umano. E’ un richiamo che ci tocca tutti, che ci richiama tutti a guardare con attenzione i diversi problemi, per studiare le soluzioni opportune. In particolare, l’attualità di La Pira interpella tutto il mondo cattolico che vive al suo interno una forte frammentazione e che pure è chiamato oggi a riproporre una visione politica del mondo, un pensiero politico che riproponga al centro di ogni politica lavoro e povertà, le due emergenze su cui non c’è convergenza e non ci sono proposte politiche capaci di proporre delle soluzioni pratiche.

Il pensiero di La Pira ci invita allora a ripensare la stessa presenza dei cattolici in politica, a porre la questione di una nuova classe dirigente capace di farsi carico dei problemi della gente, di focalizzare i problemi del genere umano e proporre le giuste soluzioni riposizionandoci sulle linee dell’Evangelii Gaudium e sull’enciclica Laudato si. La Pira, infatti, sui problemi dello sviluppo assunse le linee dell’enciclica “Populorum Progressio”, andando anche al di là di essa. Oggi, riprendendo quelle linee di pensiero, abbiamo la necessità di ricalibrarci, tenendo presente il pensiero che Papa Francesco ci offre ogni giorno e che ci dà la possibilità di qualificare ulteriormente il nostro impegno.

In tal senso, siamo chiamati a riproporre il lavoro al centro di tutto, perché da esso passa la dignità di ogni uomo e ogni donna. A Campobasso, infatti, Papa Francesco ci ha detto, lo scorso 5 luglio, che “Non avere lavoro non è soltanto non avere il necessario per vivere, no. Noi possiamo mangiare tutti i giorni: andiamo alla Caritas, andiamo a questa associazione, andiamo al club, andiamo là e ci danno da mangiare. Ma questo non è il problema. Il problema è non portare il pane a casa: questo è grave, e questo toglie la dignità! Questo toglie la dignità. E il problema più grave non è la fame – anche se il problema c’è. Il problema più grave è la dignità. Per questo dobbiamo lavorare e difendere la nostra dignità, che dà il lavoro”.

Sì, dobbiamo combattere affinché ciascuno abbia un lavoro che gli dia il giusto per vivere, ma anche e soprattutto che gli dia la dignità. La Pira si è occupato spesso dei problemi dei lavoratori, da Sindaco e da Sottosegretario al Lavoro. Famosa è rimasta la questione della Pignone, nel gennaio 1954, quando, da Sindaco, salvò gli operai dalla disoccupazione, convincendo il suo amico, Enrico Mattei, Presidente dell’ENI, ad acquistare la fabbrica salvandola dalla chiusura.

Più tardi, il Nuovo Pignone sarà coinvolto nell’impiantistica del settore petrolifero, assumendo un ruolo di eccellenza internazionale nel settore dei compressori e delle turbine. Oggi, allora, dobbiamo riproporre un nuovo modello di sviluppo che ci porti a privilegiare il progresso sociale, la solidarietà e la partecipazione democratica, e che riconosca il primato di Dio: “soltanto grazie al primato riconosciuto a Dio – scrive mons. Mario Toso – è possibile una nuova condotta morale, una nuova scala dei valori, nonché il superamento delle dicotomie eclatanti dell’etica post-moderna che pregiudicano la visione di uno sviluppo umano integrale. Secondo una corretta visione dello sviluppo, l’economia e la finanza, pur essendo fondamentali in ordine ad un compimento umano non velleitario, non ne sono ancora i fattori più importanti e tanto meno gli unici”.

Un nuovo modello di sviluppo ha però bisogno di cristiani con le braccia alzate – come ci dice Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate” – radicati in una forte spiritualità, come La Pira. Facciamo allora tesoro del suo insegnamento e concretizziamo un nostro impegno riproponendo una nuova visione politica capace di esprimere una progettualità che tenga conto dei problemi di questo momento storico.