Stefano Zamagni

DALLA “CARITAS IN VERITATE” LA CHIAVE INTERPRETATIVA DELLA CRISI
(4 novembre 2009) 

 

1.         L’enciclica Caritas in Veritate (CV), che ora è offerta alla meditazione di quanti, credenti e non credenti, sono coerentemente interessati allo sviluppo umano integrale – nell’accezione del personalismo di Mounier e Maritain e, su tale scia, della Populorum Progressio (1967) di Paolo VI – è un bell’esempio di genere letterario che sa muoversi, in modo fecondamente anfibio, tra tutti  quei saperi che si occupano dell’agire umano nella pluralità delle sue forme. Tra le tante questioni aperte che la modernità ci ha lasciato in eredità v’è quella che riguarda il dissidio irrisolto tra quelle linee di pensiero che, per portare alla luce importanti dinamiche delle nostre società, hanno finito col dissolvere la soggettività nel collettivo (si pensi al neo-marxismo o al neo-strutturalismo) e quelle linee di pensiero che hanno bensì esaltato la soggettività, ma al prezzo di ridurre il sociale a mera aggregazione di preferenze individuali. (E’ questo l’esito cui giunge l’individualismo nelle sue versioni estreme perché confonde la socialità, che è anche degli animali, con la socievolezza, che invece è tipica degli uomini).

Il pregio della CV è quello di operare una saldatura fra queste due polarità. Come? Ponendo al centro del sapere pratico il principio del dono come gratuità, Benedetto XVI  mostra, convincentemente, come, nelle condizioni storiche di oggi, sia falso vedere i termini che descrivono le coppie indipendenza-appartenenza, libertà-giustizia, efficienza-equità, autointeresse-solidarietà, come alternativi. E’ falso cioè pensare che ogni rafforzamento del senso di appartenenza debba essere visto come una riduzione dell’indipendenza della persona; ogni avanzamento sul fronte dell’efficienza come una minaccia all’equità; ogni miglioramento dell’interesse individuale come un affievolimento della solidarietà. Che non si tratti di un’operazione culturale scontata o di poco conto ci è rivelato dalla circostanza che la pratica della gratuità è oggi sotto attacco da un duplice fronte, quello dei neoliberisti e quello dei neostatalisti, sebbene con intenti affatto diversi. I primi si appellano all’estensione massima possibile delle pratiche del dono come  regalo per portare acqua al mulino del “conservatorismo compassionevole” al fine di assicurare quei livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state, da essi invocato, lascerebbe altrimenti senza copertura alcuna. Ma che non sia questo il senso dell’agire donativo, ci viene dalla considerazione che l’attenzione ai portatori di bisogni  non è oggettuale, ma personale. L’umiliazione di essere considerati “oggetti” sia pure di filantropia o di attenzione compassionevole è il limite grave della concezione neo-liberista.

Basicamente non diverso è l’attacco che viene dalla concezione neostatalista. Presupponendo una forte solidarietà da parte dei cittadini per la realizzazione dei cosiddetti diritti di cittadinanza, lo Stato rende obbligatori certi comportamenti. In tal modo, però,  esso spiazza il principio di gratuità, negando in pratica, a livello di discorso pubblico, ogni spazio a principi che siano diversi da quello di solidarietà. Ma una società che elogia a parole l’azione gratuita e poi non ne riconosce il valore nei luoghi più disparati del bisogno, entra, prima o poi, in contraddizione con se stessa. Se si ammette che il dono svolge una funzione profetica o – come è stato detto – porta con sé una “benedizione nascosta” e poi non si consente che questa funzione diventi manifesta nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti pensa lo Stato, è chiaro che quella virtù civile per eccellenza che è lo spirito del dono non potrà che registrare una lenta atrofia.

L’assistenza per via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati, perché essa non riesce ad evitare la trappola della “dipendenza riprodotta”. E’ veramente singolare che non si riesca a comprendere come la posizione neostatalista  sia vicina a quella neoliberista per quanto attiene la identificazione dello spazio entro il quale collocare la gratuità. Entrambe le matrici di pensiero, infatti, relegano la gratuità nella sfera privata, espellendola da quella pubblica. La matrice neoliberista perché ritiene che al fine del benessere,  bastino i contratti, gli incentivi e ben definite (e fatte rispettare) regole del gioco. L’altra matrice, invece, perché sostiene che per realizzare nella pratica la solidarietà basti lo Stato Sociale, il quale può bensì appellarsi alla giustizia, ma non certo alla gratuità.

La sfida che la CV ci invita a raccogliere è quella di battersi per restituire il principio di gratuità alla sfera pubblica. Il dono autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell’identità personale sull’utile deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell’agire umano, ivi compresa l’economia. Anzi, soprattutto in economia, dove è massimamente urgente creare e difendere luoghi in cui la gratuità viene testimoniata, cioè agita. Vediamo ora di applicare tale pensiero all’interpretazione della crisi tuttora in atto.

 

2.         Due sono i tipi di crisi che, grosso modo, è possibile identificare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che nasce da un conflitto fondamentale che prende corpo entro una determinata società e che contiene, al proprio interno, i germi o le forze del proprio superamento. (Va da sé che non necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenta un progresso rispetto alla situazione precedente). Esempi storici e famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, della rivoluzione di ottobre in Russia nel 1917. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema, per implosione, senza modificarlo. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere. Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico.

Perché è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto, risolvendola, la questione del senso. Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui muovere mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere. Così è stato quando Benedetto, lanciando il suo celebre “ora et labora”, inaugurò la nuova era, quella delle cattedrali. (Mai si dirà abbastanza della portata rivoluzionaria, sul piano sia sociale sia economico, dell’impianto concettuale del carisma benedettino. Il lavoro, da secoli considerato attività tipica dello schiavo, diviene piuttosto con Benedetto la via maestra per la libertà: è per diventare liberi che occorre lavorare. Non solo, ma il lavoro viene sollevato al livello della preghiera. Come dirà poi Francesco, guai a separare Laborantes e contemplantes;  in ciascuna persona preghiera e lavoro devono sempre procedere in parallelo).

Ebbene, la grande crisi economico-finanziaria tuttora in atto è di tipo basicamente entropico. E dunque non è corretto assimilare – se non per gli aspetti meramente quantitativi – la presente crisi a quella del 1929 che fu, piuttosto, di natura dialettica. Quest’ultima, infatti, fu dovuta ad errori umani commessi, soprattutto dalle autorità di controllo delle transazioni economiche e finanziarie, conseguenti ad un preciso deficit di conoscenza circa i modi di funzionamento del mercato capitalistico. Tanto che ci volle il “genio” di J.M. Keynes per provvedere alla bisogna. Si pensi al ruolo del pensiero keynesiano nella articolazione del New Deal di Roosevelt. Nella crisi attuale è certamente vero che ci sono stati errori umani – anche gravi come ho mostrato in Zamagni (2009) – ma questi sono stati la conseguenza non tanto di un deficit conoscitivo, quanto piuttosto della  crisi di senso che ha investito la società dell’occidente avanzato a far tempo dall’inizio di quell’evento di portata epocale che è la globalizzazione.

 

3.         Sorge spontanea la domanda: in cosa si esprime e dove maggiormente si è manifestata questa crisi di senso? La mia risposta è: in una triplice separazione. E precisamente, la separazione tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale; il lavoro separato dalla creazione della ricchezza; il mercato separato dalla democrazia. Vedo di chiarire, seppure in breve, cominciando dalla prima.

Una delle tante eredità non certo positive che la modernità ci ha lasciato  è il convincimento in base al quale  titolo di accesso al “club dell’economia” è l’essere cercatori di profitto; quanto a dire che non si è propriamente imprenditori se non si cerca di perseguire esclusivamente la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si deve rassegnare a far parte dell’ambito del sociale, dove appunto operano le imprese sociali, le cooperative sociali, le fondazioni di vario tipo, ecc. Questa assurda concettualizzazione – a sua volta figlia dell’errore teorico che porta a confondere l’economia di mercato, che è il genus, con una sua particolare species e cioè il sistema capitalistico – ha finito con l’identificare l’economia con il luogo della produzione della ricchezza (un luogo il cui principio regolativo è l’efficienza) e a pensare il sociale come il luogo della redistribuzione dove la solidarietà e/o la compassione, (pubblica o privata che sia) sono i canoni fondamentali. Si sono viste e stiamo vedendo le conseguenze di tale separazione. Come il celebre storico-economico Angus Madison ha mostrato, negli ultimi trent’anni gli indicatori della diseguaglianza sociale, interstatale e intrastatale, hanno registrato aumenti semplicemente scandalosi, anche in quei paesi dove il welfare state ha giocato un ruolo importante in termini di risorse amministrate. Eppure, schiere di economisti e di filosofi della politica hanno creduto per lungo tempo che la proposta Kantiana: “facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia” fosse la soluzione del problema dell’equità. Non si può non ricordare, a tale proposito, la potenza espressiva dell’aforisma lanciato dal pensiero economico neo-conservatore secondo cui “una marea che sale solleva tutte le barche”, da cui la celebre tesi dell’effetto di sgocciolamento (trickle-down effect): la ricchezza, a mò di pioggia benefica irrora prima o poi tutti, anche i più poveri. E dire che già il grande economista francese Leon Walras, nel 1873, aveva avvertito: “quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande”. Parole queste che la crisi attuale ha tristemente inverate.

La recente lettera enciclica Caritas in Veritate  di papa Benedetto XVI indica a tutto tondo che la via d’uscita dal problema qui sollevato è nel ricomporre ciò che è stato artatamente separato. Prendendo posizione a favore di quella concezione del mercato – tipica dell’economia civile – secondo cui il legame sociale non può venire ridotto al solo “cash nexus”, l’enciclica suggerisce che si  può vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa come vorrebbe il modello dicotomico di ordine sociale. La sfida da raccogliere è allora quella della seconda navigazione nel senso di Platone: né vedere l’economia in endemico e ontologico conflitto con la vita buona perché vista come luogo dello sfruttamento e dell’alienazione, né concepirlo come il luogo in cui possono trovare soluzione tutti i problemi della società, come ritiene il pensiero anarco-liberista.

 

4.         Passo al secondo caso di  separazione. Per secoli l’umanità si è attenuta all’idea anche all’origine della creazione di ricchezza c’è il lavoro umano – dell’un tipo o dell’altro non fa differenza. Tanto che Adam Smith apre la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni (1776) proprio con tale considerazione. Quale la novità che la finanziarizzazione dell’economia, iniziata circa un trentennio fa, ha finito col determinare? L’idea secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molto di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa. Una miriade di episodi e di fatti ce ne danno conferma. In Gran Bretagna – paese che ha dato i natali alla rivoluzione industriale – il settore manifatturiero contribuisce oggi con un modesto 12% al PIL nazionale e, fino al 2008, gli occupati nel settore della finanza erano giunti a oltre sei milioni di unità (oggi, metà di questi sono senza lavoro). Negli ultimi decenni, nelle migliori università del mondo, i dipendenti e i programmi di ricerca di business studies sono letteralmente esplosi, spiazzando e/o impoverendo altre aree di studio. (Si veda anche la distribuzione dei fondi tra aree di ricerca. E si vedano ancora le scelte dei corsi di laurea, o dei piani di studio, da parte degli studenti iscritti alle facoltà di economia). E così via. L’affermazione e la diffusione dell’ethos della finanza sono valsi – complici i media – ad accreditare il convincimento che non v’è bisogno di lavorare per arricchirsi; meglio tentare la sorte e soprattutto non avere troppi scrupoli morali.

Le conseguenze di tale pseudo rivoluzione culturale sono sotto gli occhi di tutti. (Si pensi al maldestro tentativo di sostituire alla figura del lavoratore quella del cittadino-consumatore come categoria centrale dell’ordine sociale). Oggi, ad esempio,  non disponiamo di un’idea condivisa di lavoro che ci consenta di capire le trasformazioni in atto. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione Commerciale dell’XI secolo, si afferma gradualmente l’idea del lavoro artigianale, che realizza l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere – termine quest’ultimo che rinvia a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylorismo poi, avanza l’idea della mansione (segno di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati nella società post-fordista, che idea abbiamo del lavoro? C’è chi propone l’idea della competenza declinata in termini di figura professionale, ma non ci si rende conto delle implicazioni pericolose che ne possono derivare. Una fra tutte: la confusione tra meritocrazia e principio di meritorietà, come se i due termini fossero sinonimi. La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale  obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza? La fioritura umana – cioè l’eudainomia  nel senso di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare il concetto di eudaimonia lavorativa che per un verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi nostri (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente) e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo).

Chiaramente, l’accoglimento del paradigma eudaimonico implica che i fini dell’impresa – quali che ne sia la forma giuridica – sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo. Implica dunque che possano nascere e svilupparsi imprese a vocazione civile in grado di superare la propria autoreferenzialità, dilatando così lo spazio della possibilità effettiva di scelta lavorativa da parte delle persone. Non si dimentichi, infatti, che scegliere l’opzione migliore tra quelle di un “cattivo” insieme di scelta non significa affatto che un individuo si merita ciò che ha scelto. La libertà di scelta fonda il consenso solamente se chi sceglie è posto nella condizione di concorrere alla definizione dell’insieme di scelta stesso. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sul principio dello scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad agire su trasferimenti di tipo assistenzialistico di natura pubblica, ci dà conto del perché sia così difficile passare dall’idea del lavoro come attività a quella del lavoro come opera.

 

5.         Infine, di una terza separazione al fondo della crisi attuale mette conto dire. Si tratta di questo. Da sempre la teoria economica – specialmente quella della scuola di pensiero neo-austriaca – sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come già F. von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza.

Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi come strumento di coordinamento presuppone che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato. Valga un’analogia. Pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni, l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella che circola tra i vari gruppi di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di intendersi reciprocamente   quando vengono in contatto.

E’ un fatto che in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali strumenti di  mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili. Il pensiero neo-austriaco ha potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo comunitario di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il  medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale. Ma quando così non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene, questa istituzione è la democrazia deliberativa. Questo ci aiuta a comprendere perché il problema della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica ha fatto credere – anche a studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’intensificazione della democrazia.

Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro (hard core) quei principi morali che sono sufficienti alla sua legittimazione sociale. Al contrario, non essendo in grado di autofondarsi, il mercato per venire in esistenza presuppone che già sia stata elaborata la “lingua di contatto”. E tale considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità. Secondo, se la democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso – una crisi di natura appunto entropica e non dialettica – è la migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio, alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia politica, del corto termismo (short termism), dell’idea cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle decisioni ha da essere il breve periodo. La democrazia, invece, ha necessariamente di mira il lungo periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza – contro – sopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con – per – in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico. Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità.

 

6.         Un concetto che nella  CV ricorre più volte è che si può fare impresa  e quindi concorrere alla produzione della ricchezza anche se si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all’azione da motivazioni di tipo pro-sociale. E’ questo un modo concreto, anche se non l’unico, di colmare il pericoloso divario tra l’economico e il sociale – pericoloso perché se è vero che un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, del pari vero è che un sociale meramente redistributivo che non facesse i conti col vincolo delle risorse non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre – e al tempo stesso, di correggere l’errore secondo cui valori come la solidarietà e la gratuità potrebbero trovare posto solamente nelle attività a carattere sociale, dal momento che la sfera del mercato non potrebbe che fondarsi sul principio secondo cui “business is business” (gli affari sono affari).

Ampliando un istante la prospettiva di discorso, dire mercato significa dire competizione e ciò nel senso che non può esistere il mercato laddove non c’è pratica di competizione (anche se il contrario non è vero). E non v’è chi non veda come la fecondità della competizione stia nel fatto che essa implica la tensione, la quale presuppone la presenza di un altro e la relazione con un altro. Senza tensione non c’è movimento, ma il movimento – ecco il punto – cui la tensione dà luogo può essere anche mortifero, generatore di morte. E’ tale quella forma di competizione che si chiama posizionale. Si tratta di una forma relativamente nuova di competizione, poco presente nelle epoche precedenti, e particolarmente pericolosa perché tende a distruggere il legame con l’altro. Nella competizione posizionale, lo scopo dell’agire economico non è la tensione verso un comune obiettivo – come l’etimo latino “cum-petere” lascia chiaramente intendere – ma l’hobbesiana “mors tua, vita mea”. E’ in ciò la stoltezza della posizionalità, che mentre va a selezionare i migliori facendo vincere chi arriva primo, elimina o neutralizza chi arriva “secondo” nella gara di mercato. E’ così che il legame sociale viene ridotto al rapporto mercantile e l’attività economica tende a divenire inumana e dunque ultimamente inefficiente.

Ebbene, il guadagno, non da poco, che la CV ci offre è quello di prendere posizione a favore di quella concezione del mercato, nota in Italia, che è propria dell’economia civile, secondo cui si può vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa, come suggerisce il modello dicotomico di ordine sociale. E’ questa una concezione che è alternativa, ad un tempo, sia a quella che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero anarco-liberista, lo vede come luogo in  grado di dare soluzione a tutti i problemi della società.

La prospettiva dell’economia civile si pone in alternativa nei confronti dell’economia di tradizione smithiana che vede il mercato come l’unica istituzione davvero necessaria per la democrazia e per la libertà. La CV ci ricorda invece che una buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantropia. Al tempo stesso, la CV non parteggia con chi combatte i mercati e vede l’economico in endemico e naturale conflitto con la vita buona, invocando una decrescita e un ritiro dell’economico dalla vita in comune. Piuttosto, essa propone un umanesimo a più dimensioni, nel quale il mercato non è combattuto o “controllato”, ma è visto come momento importante della sfera pubblica – sfera che è assai più vasta di ciò che è  statale – che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, può costruire la “città”.

La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità, parola già presente nella bandiera della Rivoluzione Francese, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato – per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. Ebbene il grande ed insostituibile contributo che il Terzo Settore è capace di dare al progresso morale e civile delle nostre società è quello di tradurre in atto il principio di fraternità che costituisce, ad un tempo, il complemento e l’esaltazione del principio di solidarietà. Infatti  mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi.  La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei  diritti civili. Il punto è che la buona società in cui vivere non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno  cercherebbe di andarsene. Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è necessariamente vero.

Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i  trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica , ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente  il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.

 

7.         Si pone la domanda: è possibile tornare a rendere civile il mercato? Vale a dire, ha senso sforzarsi di prefigurare un modello di economia di mercato capace di includere (almeno tendenzialmente) tutti gli uomini e non solamente quelli adeguatamente “attrezzati” o dotati, e di avvalorare, nel senso di attribuire valore a entrambe le dimensioni dell’umano, sia quella  espressiva sia quella acquisitiva, e non solamente alla dimensione acquisitiva come oggi accade?

Dall’avvento dell’economia di mercato in poi è lo scambio a consentire una grande diversità genetica nelle popolazioni umane. Ma occorre ricordare che ai suoi inizi l’economia di mercato viene fondata non solamente sui principi dello scambio di equivalenti (di valore) e su quello redistributivo, ma anche sul principio di reciprocità. E’  con lo scoppio della Rivoluzione Industriale e quindi con l’affermazione piena del sistema capitalistico che il principio di reciprocità si perde per strada; addirittura viene bandito dal lessico economico. Con la modernità si afferma così l’idea secondo la quale un ordine sociale può reggersi solamente sugli altri due principi. Di qui – come si è ricordato – il modello dicotomico Stato-mercato: al mercato si chiede l’efficienza, cioè di produrre quanta più ricchezza si può, stante il vincolo delle risorse e lo stato delle conoscenze tecnologiche; allo Stato spetta invece il compito primario di provvedere alla redistribuzione di quella ricchezza per garantire livelli socialmente  accettabili di equità.

Come fare allora per consentire che il mercato possa tornare ad essere mezzo  per rafforzare il vincolo sociale attraverso la promozione sia di pratiche di distribuzione della ricchezza che si servono dei suoi meccanismi per raggiungere l’equità, sia di uno spazio economico in cui i cittadini che liberamente lo scelgono possono mettere in atto, e dunque rigenerare, quei valori (quali, la solidarietà, lo spirito di intrapresa, la simpatia, la responsabilità di impresa) senza i quali il mercato stesso non potrebbe  durare a lungo?  La condizione che va soddisfatta è che possa affermarsi entro il mercato – e non già al di fuori o  contro di esso – uno spazio economico formato da soggetti il cui agire sia ispirato al principio di reciprocità. L’aspetto essenziale della relazione di reciprocità è che i trasferimenti che essa genera sono indissociabili dai rapporti umani: gli oggetti delle transazioni non sono separabili da coloro che li pongono in essere, quanto a dire che nella reciprocità lo scambio cessano di essere anonime e impersonali come invece accade con lo scambio di equivalenti. Il che è proprio quello che caratterizza l’agire dei soggetti del Terzo Settore, i quali si trovano oggi a dover raccogliere la sfida di come restituire il principio di reciprocità alla sfera pubblica.

La reciprocità, affermando il primato della relazione interpersonale sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, anche nell’economia. E’ questa, dopo tutto, la via pervia per rendere credibile la categoria di bene comune. Il quale non va confuso né con la somma di beni privati – cioè con il bene totale – né con il bene pubblico. Nel bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una comunità non può essere scisso dal vantaggio che altri pure ne traggono. Come a dire che l’interesse di ognuno si realizza assieme a quello degli altri, non già contro (come accade con il bene privato) né a prescindere dall’interesse degli altri (come succede con il bene pubblico). In tal senso “comune” si oppone a “proprio”, così come “pubblico” si oppone a “privato”. E’ comune ciò che non è solo proprio, né ciò che è di tutti indistintamente. Nessuno, tra i pensatori contemporanei, ha visto meglio di Hannah Arendt tali distinzioni.  Nel suo Vita activa, la Arendt scrive che pubblico indica “ciò che sta alla luce”, ciò che si vede, di cui si può parlare e discutere. “Ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti”. Privato, al contrario, è ciò che viene sottratto alla vista. Comune, d’altro canto, è  “il mondo stesso in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi occupa privatamente”. In quanto tale, il comune è lo spazio delle relazioni interpersonali, lo spazio in cui si muove, appunto, il Terzo Settore.

In quali “luoghi” la reciprocità è di casa, viene cioè praticata ed alimentata ? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Poi c’è la cooperativa, l’impresa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il progresso civile ed economico di un paese dipende basicamente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le pratiche di reciprocità. Senza il mutuo riconoscimento di una comune appartenenza non c’è efficienza o accumulazione di capitale che tenga. C’è oggi un immenso bisogno di cooperazione: ecco perché abbiamo bisogno di espandere le forme della gratuità e di rafforzare quelle che già esistono. Le società che estirpano dal proprio terreno le radici dell’albero della reciprocità sono destinate al declino, come la storia da tempo ci ha insegnato.

Qual è la funzione propria del dono? Quella di far comprendere che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e quindi che non è autenticamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia. Qual è la differenza? I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono da una obbligatio. Sono beni cioè che nascono dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me. Ecco perché la logica della gratuità non può essere semplicisticamente ridotta ad una dimensione puramente etica; la gratuità infatti non è una virtù etica. La giustizia, come già Platone insegnava, è una virtù etica, e siamo tutti d’accordo sull’importanza della giustizia, ma la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dell’agire umano perché la sua logica è la sovrabbondanza, mentre la logica della giustizia è la logica dell’equivalenza. Ebbene, la CV  ci dice che una società per ben funzionare e per progredire ha bisogno che all’interno della prassi economica ci siano soggetti, che capiscano cosa sono i beni di gratuità, che si capisca, in altre parole, che abbiamo bisogno di far rifluire nei circuiti della nostra società il principio di gratuità.

La sfida che la CV invita a raccogliere è quella di battersi per restituire il principio del dono alla sfera pubblica, di pensare cioè la gratuità, e dunque la fraternità, come cifra della condizione umana e quindi di vedere nell’esercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune. Senza pratiche estese di dono si potrà anche avere un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma di certo le persone non saranno aiutate a realizzare la gioia di vivere. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano ad assicurare la felicità delle persone.

“L’uomo soffre per mancanza di visione”

Prof. Andrea Riccardi
La Pira Lecture 2009

Firenze 18 novembre 2009

 

 

C’è un bel verso di Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, scritto negli anni tristi e plumbei della sua vita polacca. E’ tratto da una poesia intitolata, Una vecchia conversazione…: “io credo che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione”. Sull’orizzonte polacco del card. Wojtyla non si vedeva nessun segnale di cambiamento, nessuna prospettiva. Era un orizzonte cupo in cui il futuro Giovanni Paolo II cercava una visione di speranza. Maturava nel dolore quella fatica della speranza che lo ha reso forte.
Oggi, in un tempo di globalizzazione dei media, si ha la sensazione di vedere tutto, a qualunque distanza sia collocato da noi. Sembra che ci siano tante diverse prospettive. I media, con la loro forza invasiva, svelano quel che sembra destinato a restare nascosto. Fatti ed eventi lontani ci raggiungono. Tutto si può vedere e tutto sembra più chiaro: presente e futuro. Eppure siamo in un tempo di mancanza di sostanziose visioni del futuro. Lo si soffre nei paese europei, dove siamo concentrati sul presente, distratti dal futuro, anzi spaventati da esso. Certo è finito il tempo delle visioni fabbricate nei laboratori dell’ideologia. Ma, dopo la grande demistificazione, sfuggono i confini reali del presente e del futuro. Leggere il presente e guardare al futuro diventa difficile. Eppure si hanno tante informazioni e si accendono tante luci mediatiche. Scrive un critico d’arte inglese, John Ruskin: “E’ l’eccesso di luce che rende la vita di oggi perfettamente volgare”. La volgarità della vita è la concentrazione sul presente, svuotato e abbagliato dall’eccesso di luce. Si crede di conoscere e di illuminare la nostra e l’altrui vicenda umana, ma si tratta di fuochi di artificio. Molto spesso siamo al buio, senza visioni, tra tante notizie o, per i più dotti, prigionieri di una conoscenza specialistica.
Dalla mancanza di visione del futuro viene la paura della nostra Europa, da cui nasce la continua domanda di sicurezza (destinata ad essere mai soddisfatta). Questa è la sofferenza, spesso inespressa, dell’uomo e della donna del nostro tempo. La si ritrova in altri termini nel dibattito politico, tra le forze politiche che si compongono e si scompongono: la carenza di visioni tante volte significa mancanza di un rapporto fecondo tra politica e cultura, in favore di un rapporto tra politica e media. Ne emerge un clima spesso aggressivo in modo teatrale, più che caratterizzato dalla battaglia delle idee sul futuro. Un limite simile, anche se di natura diversa, si ritrova pure nel mondo dei credenti. I cristiani fanno fatica a leggere il presente, quelli che – in linguaggio conciliare – si sono chiamati i segni dei tempi. Talvolta sono spaesati nel presente e spinti a ripiegarsi su di sé o sulle proprie istituzioni.
E’ difficile far maturare una visione. Ma questa situazione non è frutto necessario dei tempi complessi che viviamo? Ieri gli orizzonti erano ristretti alla nazione, alla regione o alla città; ma come avere oggi una visione, quando gli orizzonti sono sconfinati e globalizzati? La ricerca di una visione non fa parte di una cultura e di una politica legate a moduli novecenteschi? Non ragioniamo con categorie ed esigenze ormai vecchie?
Conviene ritornare al poeta Wojtyla:
“Se soffre per mancanza di visione – deve allora aprirsi la strada fra i segni
fino a ciò che gravita dentro e che matura come frutto della parola.
E’ questo il peso che in sé avvertì Giacobbe
Quando in lui caddero stelle stanche come gli occhi del suo gregge?”
Karol Wojtyla afferma: cercare una visione è aprirsi la strada tra i segni, che si colgono nella storia, ma anche maturarla interiormente come frutto di fatica e ricerca. Questo atteggiamento pensoso, che è anche dialogico (il futuro papa ne parla a proposito di una conversazione con un amico, che confessa il suo dolore per la mancanza di visione), richiede una concentrazione pensosa. Non è anacronistico quando la scena mediatica è dominata da tanti fuochi d’artificio e da pressanti e mutevoli domande? E’ finito il tempo delle visioni?

 

Visionario o realista?
Viene da chiedersi se la figura di Giorgio La Pira oggi non ci riporti a un mondo novecentesco, che non esiste più. Non si fa memoria di un uomo che, con il suo modo di pensare e di agire, è fuori dal nostro tempo, perduto in un mondo che non esiste più?
Il sindaco di Firenze, mentre era vivo, fu accusato di essere un visionario. Nel 1954, Pio XII, nel radiomessaggio natalizio parlava dell’involuzione dell’uomo politico cristiano, quando non si attenga a chiari principi e all’esperienza oggettiva: diventava “banditore carismatico di nuova terra sociale”. Quindi un pericoloso visionario. Molti videro in questa allusione generica del papa un riferimento a La Pira. Il Sostituto Montini, sollecitato dal sindaco per chiarire, smentì ma poi aggiunse, tortuosamente, che, se lui si ritrovava nella figura tracciata dal papa, evidentemente correva rischi di questo tipo.
Visionario? La Pira scriveva a Pio XII nel gennaio 1955: “Un sogno? Una poesia? No, Beatissimo Padre…”. Ed aggiungeva: “alcuni dicono (i “sapienti” politici): La Pira è un ‘ingenuo’: si lascia giocare. Ebbene sarò anche un ingenuo: gli altri crederanno magari di fare il loro giuoco. Ma intanto ecco i fatti…”. Cinque anni dopo, scrivendo a Kruscev, dopo averlo invitato a considerare i fattori spirituali tra le forze che fanno la storia, affermava: “Credetemi, signor Kruscev, non mi inganno nel dirvi questo: non sono un visionario: sono estremamente realista”. Più volte ritorna su questo interrogativo. “Sogniamo? Ci illudiamo? Siamo utopisti?” – scrive nel 1962 a Giovanni XXIII.

 

Un cattolico romano e la storiografia del profondo
Visionario o realista? Giorgio La Pira aveva una capacità particolare di leggere la storia. Innanzi tutto si fondava su un orientamento profondo, maturato in una fede vissuta e in una preghiera intensa. Non fu un postcristiano o solo un uomo di cultura cristiana. Fu un credente radicato nella Chiesa cattolica, tanto da essere considerato un clericale e un bigotto. Parlava sempre del papa. La sua pietà lo portava a fare delle apparizioni della Madonna a Fatima una chiave interpretativa per il XX secolo. Erano posizioni che facevano sorridere quelli che si consideravano cattolici maturi. D’altra parte, le posizioni del sindaco facevano scalpore. Di lui dice nel 1961 don Giuseppe De Luca, prete erudito, amico di letterati: “l’Italia è in mano al nostro Fidel Castro o La Pira che si voglia dire, corrispondente attivo col capo della chiesa russa…”. E’ un confuso per Sturzo; comunistello di sacrestia per settori della Curia, come quelli del card. Ottaviani, ma anche per settori dell’imprenditoria italiana.
La Pira è prima di tutto un cattolico. Per lui il papa ha un’importanza decisiva. Ho pubblicato – grazie alla fiducia della Fondazione La Pira – due volumi con le lettere che il sindaco scrisse ai papi, da Pio XII a Giovanni XXIII (quest’ultimo assieme al prof. Augusto D’Angelo). Ma si rivolse con una cospicua corrispondenza pure a Paolo VI, che precedette di un anno nella morte, nel 1977. Mi sono reso conto come questa corrispondenza sia una specie di diario, le cui idee sono riprese in tanti altri testi del professore. La Pira è in profondità un cattolico “romano”, per cui la romanità e l’universalità del papato hanno una visione decisiva.
Per lui, la Chiesa ha una funzione centrale nel mettere in movimento la storia. E’ una realtà spirituale, ma per questo orienta in modo forte la storia dei popoli:
“mai come oggi – scrive nel 1958 – la Chiesa è apparsa quale ‘nave ammiraglia’ di tutte le navi che compongono la famiglia dei popoli e delle nazioni: battezzate o non battezzate, tutte le nazioni appartengono ad una flotta unica nella quale la nave ammiraglia è costituita dalla Chiesa cattolica e, più esattamente, dalla Sede apostolica”.
Ma la storia va scrutata e interrogata. Era uomo di preghiera. Amava pregare davanti alla carta geografica. “Due sono i libri sacri da leggere: il tempo presente, con i suoi movimenti, le sue anse… le sue profondità difficili da sondare – ‘storiografia del profondo’ – … L’altro libro da leggere è la Bibbia… il libro che contiene la chiave dell’interpretazione storica. Non si capisce niente senza di esso”. Bisogna fare la storiografia del profondo: tale pratica lo porta a intuire dei movimenti profondi della storia con grande anticipo rispetto ai contemporanei. Pur in una storia agitata alla superficie – scrive un anno prima di morire – “vi sono delle grandi e misteriose correnti che trascinano in un senso ben preciso: verso l’unità e la pace”.
Vorrei ricordare un aspetto delle intuizioni preveggenti di La Pira. Fin dagli anni Cinquanta affermava che il comunismo era ferito a morte e non avrebbe tardato a finire. Era un tempo in cui il blocco sovietico appariva granitico, tale che solo una guerra mondiale avrebbe potuto scuoterlo. Il professore non credeva alla logica dello scontro, ma a quella dell’incontro capace di esercitare un’attrazione sul “nemico”. La Pira non ridimensionava l’avversione al comunismo sovietico, per lui ostile alla libertà e alla vita religiosa. L’anticomunismo del professore è chiaro: non c’è niente in lui del compagno di strada dei fronti popolari in tutte le loro diverse edizioni o del cattolico comunista.
Piuttosto che affrontare il comunismo frontalmente, egli sentiva che bisognava attrarre il mondo russo, far emergere le contraddizioni e le attese che permanevano al fondo di esso. In questo spirito compie il viaggio a Mosca del 1959, dopo anni di contatti privilegiati con i sovietici (che avevano individuato in lui un importante interlocutore occidentale, tanto da consegnargli in anteprima il rapporto di Kruscev al XX congresso del PCUS, che aprì la destalinizzazione). Il sindaco percepisce che da Mosca vengono segnali nuovi che non vanno fatti cadere, anzi i sovietici – è il messaggio che invia agli americani – vanno aiutati:
“forse questa semente irresistibile di rinascita già opera nell’animo non pacificato dello stesso Krusciov: forse la personalità potente di Ivan III non è senza risonanze… c’è qualcosa che lo attrae irresistibilmente verso l’Europa, verso la storia di ieri, che è prefigurazione della storia di domani”.

 

Il comunismo: una questione epocale
Nel 1951 Giuseppe Dossetti si recò da La Pira per comunicargli la sua decisione di lasciare la politica: bisognava concentrarsi sulla vita religiosa, perché, nel volgere di qualche tempo, il comunismo avrebbe vinto anche in Italia. Ne seguì una lunghissima discussione tra i due, di cui fu testimone Ettore Bernabei. Alla fine, il professore stremato concluse: “il comunismo non vincerà mai, perché è ateo”. Negli anni Cinquanta, quando comunisti e sovietici sembrano una realtà granitica, scrive a Pio XII: “Il comunismo non vince più né in Italia né fuori…”. Il suo limite di espansione è raggiunto. In Italia bisogna allargare la politica sociale per strappare ai comunisti il sostegno del mondo dei disperati e dei poveri.
Nel quadro internazionale, il Professore crede che, sotto la glaciazione sovietica, germoglieranno fermenti di spiritualità e di libertà. Sono gli “uomini del sottosuolo”, per usare un’espressione di Dostoevskij, che metteranno in crisi il sistema. In particolare egli individua nella Polonia l’anello debole del sistema. Fin dal 1939, all’epoca dell’invasione tedesco-sovietica, il giovane La Pira aveva espresso simpatia per il popolo polacco scrivendo sulla rivista fiorentina “Principi”. Da quel momento non aveva perso di vista la Polonia, cogliendo il fervore religioso vissuto negli anni del regime comunista. Nel 1959 egli scrive alle claustrali, con cui condivideva le sue visioni geopolitiche, chiedendo loro di pregare:
“La Chiesa per un verso, l’impero comunista – sì, già allora parlava di impero con una terminologia invalsa dopo l’89 o che Aron usava più tardi – per l’altro verso: combattimento drammatico, che non ha nulla di meno, in sostanza, del combattimento drammatico tra la Chiesa e l’impero romano. Quale è il destino prossimo di questo gigantesco duello? Quali i sintomi della sua soluzione? La presenza del cardinale Wyszynski è, in proposito, estremamente significativa: è un segno ‘misterioso’, ma anche tanto luminoso dello svolgimento di questo duello e del termine che lo aspetta. Il cardinale Wyszynski è la Chiesa che, perseguitata, avanza e vince: è Pietro prigioniero cui si sono aperte miracolosamente le porte della prigione. L’impero comunista, nonostante tutto e malgrado le apparenze, è già colpito al cuore: le mura di Gerico, nonostante le apparenze, sono già abbattute…”
La prospettiva è che “sia ‘abbattuto’, ‘vinto’ – non con le armi, si capisce – e convertito l’impero romano odierno, la Babilonia odierna”. Bisogna cambiare strategia, evitare l’isolamento arroccato sovietico, aggredire “cordialmente” questo mondo: “Uscire da una posizione sterile di sospetto e di difesa ed assumere un atteggiamento ardito (sino a sembrare ingenuo!)… La guerra non si può e non si deve fare: ed altro? Allora bisogna con le armi della grazia e della speranza penetrare in Gerico ed alzare proprio nella piazza di Gerico il vessillo della luce e dell’amore…”. Questi propositi risuonavano ingenua improvvisazione negli anni della guerra fredda. Ma La Pira mette in campo una strategia dell’incontro e dell’attrazione per spingere non solo i dirigenti sovietici, ma la popolazione stessa, al confronto con l’Occidente, partendo da una convinzione che pochi condividevano.
E’ la convinzione, rifiutata dal pessimismo anticomunista e dalla stessa sinistra, che il sistema sovietico era minato alle fondamenta. E’ un’intuizione che, qualche tempo più tardi, è alla base della visione di Karol Wojtyla, non condivisa anch’essa dagli osservatori occidentali. Il Professore affermava con decisione (siamo nel 1959): “questo è l’anticomunismo autentico: spezzare l’ateismo; mostrarne la vecchiezza, la superficialità: e tentare di aprire alla Russia gli orizzonti preziosi della sua storia cristiana…”. In questa prospettiva, con rapporti cordiali, andava appoggiata la Chiesa russa, per lui un polmone di libertà spirituale nel grigio mondo sovietico (ma per l’opinione ecclesiastica coeva, un’istituzione nelle mani del KGB).

 

La forza dell’Europa
L’Europa ha un grande ruolo verso l’Est sovietico e il mondo. La sua visione dell’Europa richiama quella del generale de Gaulle e di Giovanni Paolo II (piuttosto rara all’epoca della guerra fredda): il futuro – scrive nel 1966, più di vent’anni prima della caduta del Muro – conduce alla unità e pacificazione di tutta l’Europa (tutta: dall’Atlantico agli Urali)…”. Ma l’Europa deve lasciarsi alle spalle il passato coloniale. Siamo negli anni complessi della decolonizzazione, in cui il sindaco è a fianco dei cosiddetti popoli nuovi. Lo è anche nella difficile questione dell’indipendenza dell’Algeria dalla Francia, che tanto divide l’opinione pubblica francese e cattolica.
Un mondo nuovo di soggetti nazionali, emersi dal colonialismo, si affaccia all’orizzonte. Il sindaco non condivide che la fine del dominio coloniale significhi il ritrarsi dell’influenza della Chiesa o un drastico ridimensionamento del ruolo europeo. L’Europa ha una missione nel mondo che si va organizzando, dopo la conferenza di Bandung del 1955, nel movimento dei non allineati. Anche in questo settore la politica europea dev’essere l’attrazione (tecnica e spirituale – egli precisa). Il Professore pensa che un volto simpatico dell’Europa la possa condurre ad esercitare una leadership in quello che allora veniva chiamato il Terzo Mondo, un insieme di paesi che, rifiutando i modelli del capitalismo occidentale, si trovavano alle strette con il marxismo proposto da Mosca. Scrive a Fanfani nel XXX:
“Dove volgeranno lo sguardo i popoli nuovi e le nuove nazioni? Verso la Russia? Verso l’America? Verso l’Europa (ma quale Europa)?”.
Infatti, nei paesi terzomondiali, egli coglieva esigenze spirituali. In particolare, nel mondo musulmano, di cui aveva colto l’emersione del protagonismo fin dagli anni Cinquanta. Infatti il sindaco aveva realizzato un contatto molto stretto con alcune personalità francesi sensibili all’islam, tra cui soprattutto il grande orientalista Louis Massignon, maestro del frate fiorentino Giulio Basetti Sani, il francescano marocchino Abd el Jalil o il turco cretese mons. Mulla. Si era convinto, prima del Vaticano II, che l’accostamento all’islam andava fatto a partire dai valori spirituali e nel rispetto della personalità musulmana. La forza dell’Europa, oltre la sua grande capacità “tecnica” (come diceva e che non sottovalutava) era quella di possedere un lessico spirituale e culturale, che la rendeva capace di entrare in contatto con i paesi nuovi, musulmani e non musulmani.
Il re del Marocco, Muhammed V, che visitò Firenze, era uno dei suoi interlocutori (il suo paese rappresentava – per il sindaco – un ponte tra Europa e islam). Ma La Pira ebbe un cordiale rapporto anche con il nazionalismo egiziano, esecrato da una parte importante dell’opinione europea. Bisognava, secondo lui, fare i conti con Nasser, che esprimeva la voglia di contare degli arabi. Con lui ha un rapporto personale e di fiducia. L’amicizia con alcuni leader fa parte integrante della sua strategia di pace.
Il visionario La Pira è tra i primi, fin dagli anni Cinquanta, a convincersi dell’esigenza che arabi e israeliani debbano trattare. L’amico degli arabi è – a differenza di molti cattolici del suo tempo – convinto che la nascita dello Stato d’Israele sia un fatto epocale, anzi dal chiaro significato spirituale. Dalle leggi razziste del 1938, La Pira ha colto il dramma ebraico e ha creduto che i cristiani debbano cambiare atteggiamento verso gli ebrei. Non è un caso che sia il fondatore dell’Amicizia ebraico-cristiana. Arabi e israeliani debbono dialogare per stabilire la pace in Medio Oriente. Martin Buber, grande pensatore ebraico, sostenitore di una soluzione federale arabo-ebraica, è con La Pira nelle sue iniziative fiorentine di dialogo.
Firenze, in un tessuto di incontri e attraverso le missioni del suo sindaco, diventa centro promotore di uno spazio mediterraneo, radicato nella tradizione di Abramo, pater omnium credentium, ebrei, cristiani e musulmani. La pace mediterranea, per La Pira, non vuol dire prevalenza degli uni sugli altri, ma coabitazione nel rispetto delle diverse identità. Il Mediterraneo, per storia e geografia, percorso da tensioni unitive, ma tanto diviso, obbliga a vivere insieme o a combattersi irriducibilmente. Il Mediterraneo, dove convivono identità religiose e storiche differenti può essere il laboratorio – uso un’espressione che mi è cara – della civiltà del convivere. Il dialogo è strumento e simbolo di questa civiltà.
Ma il sistema mediterraneo non è chiuso, anzi è un centro di gravitazione per Europa e Africa. La Pira – lo si è detto – guarda all’Africa indipendente, credendo che la vitalità del Sud si possa incontrare con la civiltà tecnologica del Nord. Gli è accanto, come interlocutore di grande rilievo, il poeta-presidente senegalese Leopold Sedar Senghor, sostenitore di Eurafrica, nuovo quadro di relazioni postcoloniali. E’ la personalità africana di più larga visione di quel periodo. La visione lapiriana della convivenza mediterranea e di Eurafrica si esprime in queste brevi righe del 1959:
“Abbiamo ‘favorito’ Nasser ed i popoli nuovi del mondo nuovo di Asia e Africa: ma per sottrarli alla attrazione atea ed attirarli nell’orbita teologica! Per mostrare loro il volto dell’Occidente autentico: quello cristiano!”.

 

Laico o clericale?
L’Italia e l’Occidente “cristiano”: egli diceva. In realtà nell’intreccio tra visioni spirituali, percezioni di correnti profonde, visioni profetiche, si è spinti a dubitare della laicità di Giorgio La Pira. Ernesto Balducci, in una bella biografia del sindaco (con cui aveva condiviso tanti momenti), sostiene che la sua visione fu marcata, come per Dante nel De monarchia, dall’incontro tra Chiesa e impero. Quindi, in un certo senso, sarebbe stato sempre alla ricerca di un nuovo Costantino. La Pira guarda con simpatia a de Gaulle e ne sostiene lo sforzo. Crede che ci sono uomini di Stato capaci di compiere una missione storica al di là delle contingenze: uno è il presidente francese; l’altro è Fanfani, che recepisce le idee geopolitiche del sindaco; altri sono Kennedy e lo stesso Kruscev. Il Professore ha una  comunanza di visioni con Enrico Mattei, il presidente dell’ENI, che tenta di fare dell’Italia una protagonista nella politica energetica internazionale. Il realismo lapiriano è consapevole che le grandi visioni hanno bisogno di uomini e di volontà politiche che se ne facciano carico.
Molto realismo e tanta spiritualità si intrecciano facendo del Professore un laico singolare, non solo perché viveva da consacrato. Indubbiamente, La Pira non è l’uomo della laicità della separazione alla francese. C’è in lui quasi un’eredità neoguelfa che impregna la sua visione dell’Italia, paese di tutti, cattolici e non cattolici, ma imbevuto di storia cristiana. E il cristianesimo per lui non è solo la tradizione, ma un futuro fresco per il paese. C’è anche una visione delle questioni spirituali, non solo cristiane, inseparabile dalla realtà politica e sociale: era originale, ma considerata arcaica in anni, soprattutto dopo il ’68, in cui si dava il fenomeno religioso come inevitabilmente declinante sotto l’urto della secolarizzazione. Certo il sindaco non è l’uomo della separazione tra spirituale e politica. Era estraneo ad una visione che riducesse storia e politica a fenomeni avulsi dallo spirito; ma rifiutava la confusione e credeva nella libertà di tutti. Da qui il suo antifascismo e il suo anticomunismo.
Era soprattutto amico della libertà: la libertà dei popoli coloniali, dei credenti nei regimi comunisti, la libertà dal bisogno di poveri e disoccupati. Nel 1961, incorrendo in un incidente giudiziario, La Pira volle la proiezione di un film francese contro la guerra, Tu ne tueras pas, proibito in Italia dalla censura. Dette in Palazzo Vecchio un premio ai direttori dei giornali che avevano protestato contro il provvedimento. Fu un gesto studiato e provocatorio in favore della cultura della pace, ma anche della libertà di espressione. Realista, spirituale, sostenuto dalla DC e senza tessera democristiana, cattolico obbediente ma con una visione chiara delle responsabilità della Chiesa, amante della libertà, La Pira fu un singolare laico, neoguelfo, cattolico papale, giudicato estremista, libero, creativo. Trascese, forte di alcuni riferimenti, le definizioni e gli incastellamenti: forse perché, radicato su di una linfa antica, guardava con passione al futuro, quasi desideroso di prevenirne e assecondarne i movimenti.

 

La storia va verso Oriente
La vittoria alleata nella seconda guerra mondiale aveva inaugurato una stagione di egemonia occidentale contrastata dal blocco sovietico-comunista, retto da un’ideologia anch’essa occidentale. Il cuore della guerra fredda, come si vide dai fatti d’Ungheria del 1956, era ancora in Europa. L’emersione del Terzo Mondo fu di grande rilievo per La Pira, ma non così determinante come l’orientamento della storia verso l’Asia, che La Pira coglieva. Questo sì avrebbe spostato la storia. Nel 1964 il sindaco fu colpito da una particolare coincidenza: Paolo VI andò – la prima volta di un papa – in Terra Santa; allo stesso tempo il primo ministro cinese Ciu en Lai si spostò sul Mediterraneo per una visita ufficiale in Egitto, Algeria e Marocco (la Cina comparve come potenza mondiale alle soglie dell’Europa). La Pira saluta questo viaggio con due messaggi. Del resto, fin dal 1955, aveva invitato ai colloqui di Firenze il sindaco di Pechino (nonostante l’Italia non avesse rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare). Il Professore non si illude:
“il comunismo cinese è durissimo; è stato tessuto con filamenti severi di sovversione; è bellicista; è strutturalmente e severamente ateo; e tuttavia chi può negare che questa scorza severa e pesante che avvolge alla superficie la vita di quella immensa nazione è destinata a spezzarsi…”.
Bisogna – conclude – “imbarcare i popoli dell’Asia (700 milioni di cinesi; 500 milioni di indiani)”. Il suo interesse si indirizza alla Cina: “la Gerico che bisogna ora assediare con la preghiera e col sacrificio è (dopo la Russia) la Cina; la muraglia che bisogna ora arditamente abbattere è la muraglia cinese… passare per così dire, da Mosca (senza mai lasciarla) a Pekino”. “Ciu en Lai: un grande! La Cina viene, cambia” – diceva La Pira (così ricorda l’indimenticabile Fioretta Mazzei, amica del professore e testimone privilegiata).
La Cina – siamo a metà anni Sessanta – è per La Pira la protagonista del tempo nuovo. Egli sentenzia con sicurezza. “la prua della storia punta verso Oriente”. Qui la Chiesa è assente. In questa prospettiva spinge Giovanni XXIII ad accettare l’invito a recarsi in Indonesia rivoltogli dal presidente indonesiano Sukarno (sarebbe un segno per il mondo musulmano, ma anche – aggiunge – “l’Indonesia alle porte della Cina: quante cose potrebbero derivare da questo viaggio!”). Molto colpito dalla frattura tra l’URSS e la Cina, il Professore considera centrale la questione cinese. Reclama attenzione al problema:
“questo è il ‘nodo’ della storia odierna del mondo: è il nodo della Cina: perché la storia… proceda verso i grandi fini di pace e di unità e di fraternità fra tutti i popoli della terra bisogna sciogliere questo nodo; bisogna “levare” questa pesante pietra che ostacola il cammino… Scioglierlo come? – continua – Con la guerra? No: scioglierlo con i grandi mezzi della giustizia, della verità e dell’amore…”.
L’ossessione lapiriana, se così si può dire, è far cadere le mura e aprire le porte, evitando contrapposizioni che rafforzino chiusure o esclusioni, come quella della Cina popolare dall’ONU. In questa prospettiva La Pira sente estremamente pericolosa la guerra tra il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud, con il coinvolgimento americano, sia per la portata del conflitto sulle popolazioni che come prefigurazione di uno scontro tra comunismo asiatico e Occidente. Proprio nel delicato quadrante vietnamita, il sindaco compie – ma non è qui il caso di parlarne nei dettagli – una ardita e realistica missione di pace. Infatti La Pira non solo parla di pace, ma opera concretamente per la pace, soprattutto favorendo i contatti laddove non esiste comunicazione, come fa tra israeliani e arabi. La pace – si potrebbe dire – è il grande scopo della sua vita, consapevole com’è di come si tratti di una realtà complessa che, assieme alla fine della belligeranza, richiede una profonda comprensione umana e culturale.

 

Da Firenze al mondo intero
Padre Balducci, a proposito di La Pira, specie dopo il ’68 (egli verso cui ebbe un atteggiamento di grande, – secondo alcuni – eccessiva attenzione), parla di un “collasso della profezia nella fabulazione più o meno arbitraria”. Ma La Pira ha inteso essere un profeta? Non certo, nel modo in cui lo si diceva, negli anni del postConcilio in cui spesso profezia veniva a coincidere con la novità, l’originalità o la contrapposizione. Uomo di grande familiarità con la Bibbia, stimolato dal rapporto con Martin Buber (grande studioso dei profeti), sapeva quale fosse la forza del profetismo biblico e che cosa rappresentasse lo spirito profetico nelle prime generazioni cristiane. E talvolta La Pira si espresse con un linguaggio allusivo, intuitivo, visionario, un po’ fabuloso, ma non fece il profeta.
A partire da un forte sentimento interiore, fatto di fiducia nel Dio che guida la storia, di speranza, di orrore per la guerra e di coscienza della forza del male e dell’inimicizia, lesse instancabilmente piccoli e grandi avvenimenti di ogni giorno. Costruì una visione della storia, partendo da una mappa mentale, cercando di individuare orientamenti, punti di conflitto, risorse positive, varchi di speranza, comunanze possibili e differenze irriducibili. C’è un’analogia – con tutt’altra storia – tra La Pira e Giovanni Paolo II, non solo nel giudizio sul comunismo e sull’Europa, ma anche su una teologia delle nazioni come motore della storia. Entrambi condividono l’idea che l’incontro è lo strumento per cambiare il corso della vicenda storica in un intreccio tra volontarismo dell’azione e fiducia in Dio.
Uomo del sogno – proprio nel senso di cui parlava Martin Luther King – fu anche un realista. Preoccupato del ripetersi della guerra, fu alla ricerca di piste di pace e di incontro. In un mondo che soffriva per mancanza di visione, fu l’uomo della visione, contrastata, discussa, dileggiata, ma capace di imporsi per purezza di intenzioni e passione travolgente. Fu anche un politico attento, ingenuo fin scaltro, diplomatico accorto senza che nessuno gli avesse conferito alcun incarico. Le sue visioni nascevano nel laboratorio artigianale delle intuizioni, degli incontri, delle riflessioni appassionate, della ricerca di un segreto della storia, nella sua modesta ma sincera rete di amicizie.
Ma riveniamo alla questione posta all’inizio: La Pira non è un uomo fuori dal nostro tempo con il suo laboratorio artigianale della visione, mentre iperinformati think-tank lavorano su tante settori della vita internazionale? Eppure la visione lapiriana ha colto tanto dell’orientamento della storia nella seconda metà del Novecento.
Il nuovo secolo si è aperto con due eventi: il tragico attentato dell’11 settembre (espressione della volontà di innescare uno scontro di civiltà e di religione tra Occidente e islam, con la sua conseguenza della guerra in Iraq), l’11 novembre, la globalizzazione del mercato con l’ingresso della Cina e dei suoi un miliardo e trecento milioni di abitanti nell’organizzazione mondiale del commercio. Grandi concentrazioni di informazioni e di specialisti non hanno impedito l’errore della guerra in Iraq. E’ ovvio che il mondo contemporaneo è complesso e di difficile lettura. Ma come affrontarlo senza visioni? Senza farle condividere alla gente, in un mondo in cui pochi possono destabilizzare interi paesi?
Ci vogliono visioni! E’ insostituibile la bottega artigianale in cui si elaborano visioni, che hanno al centro un uomo appassionato e che pensa. Disse Olivier Clément, parlando nel 1964 in Palazzo Vecchio: “la pace del mondo si realizza prima di tutto in sé; è trasformando se stessi che si aiuta la trasformazione del mondo”. Torna La Pira, che vive con la pace nel cuore e l’inquietudine di scrutare i tempi oltre la cronaca. La cronaca – sembra chiara e leggibile – ma ci imprigiona nella catena delle reazioni. La cronaca si illumina, quando si ha il senso dei tempi, degli orizzonti, delle tensioni che percorrono la vicenda umana. Era necessario al tempo della guerra fredda, ma lo è ben di più in un mondo globalizzato, unificato, ma allo stesso tempo abitato da tante, differenti, talvolta configgenti identità culturali, politiche, religiose. Non si tratta del lavoro di un intellettuale, ma di un insieme di pensiero, azione, relazioni. La bottega dell’artigiano è decisiva; non la biblioteca del ricercatore, ma un luogo connesso a una comunità umana. Ci fu La Pira e con lui Firenze:
“Questa Firenze – dice il sindaco nel 1963 – che ha avuto l’imperdonabile ardimento di dire al mondo intiero che l’inverno storico della guerra era finito per sempre e che la primavera storica della pace era spuntata per sempre; che ha osato parlare con estrema chiarezza dell’inevitabilità del disarmo e della pace; che ha dato una mano vigorosa… ai popoli del terzo mondo (Cina compresa)…”.
Giuseppe Dossetti ha affermato che non è stata Firenze a dare al suo sindaco una proiezione internazionale, ma lui l’ha inventata mentre la città gli fu di supporto. Concordo, ma sono convinto che da solo La Pira non sarebbe stato un uomo dell’universale, ma un trepido intellettuale. Ha parlato ed agito in nome di una comunità cittadina di grande prestigio storico; ha offerto la città come spazio alto dell’incontro. L’artigiano delle visioni e la sua città sono divenuti un laboratorio di civiltà del convivere. Genio personale, storia urbana, città hanno creato una miscela dinamica, che è divenuta una rete di rapporti e un’autorità.
Questa esperienza non è del passato, ma nel mondo globalizzato, mentre si affievolisce la funzione degli Stati, le città possono essere luoghi alti dell’incontro, crocevia, politici, finanziari, culturali. Le città possono tornare ad essere soggetti internazionali. Sì, perché oggi vicende storiche particolari, iniziative, risorse umane e di visione, possono qualificare una comunità – non solo una città – come un soggetto internazionale.
Tornare a guardare La Pira, in un differente quadro geopolitico, ribadisce oggi che è possibile avere visioni, realizzare una politica amica della visione, porsi come soggetti internazionali in un mondo senza confini e con molte fratture. Anzi, questo universo largo e confuso ha bisogno di crocevia di elezione più di ieri. Oggi, anche una piccola comunità di donne e di uomini può trovare un profilo internazionale e far molto per la pace, mentre diplomazie o organizzazioni internazionali affogano, come vediamo purtroppo dalle loro crisi.
Da un punto preciso della storia, una città, pochi uomini e donne uniti possono partire per incontrare l’altro, anche se ostile, cercando sempre l’uomo: “Questi ‘briganti’ – insegna il Professore – come Kruscev e Mao Tse Tung bisogna avvicinarli; bisogna guardarli con fede e sicurezza negli occhi; bisogna sentirli già vinti… E non bisogna aver paura di avvicinarli: di parlare con loro, di dialogare con loro, di fare, a visiera alzata, la scherma con loro…”. Il rapporto umano conta molto nel mondo globalizzato e ipertecnico. Questa è la storia di Giorgio La Pira, un uomo che qualificò Firenze e inventò, senza che nessuno glielo avesse chiesto, una politica di visione.
La storia è memoria e non lezione a nessuno. Mostra come, per una comunità unita a una visione appassionata del mondo, nonostante la debolezza materiale, è possibile interpretare le esigenze profonde del mondo, farsi crocevia delle genti, luogo simbolico e reale di pace e di civiltà a fronte dell’imbarbarimento. Il mondo ha bisogno di una Gerusalemme ideale. Quella reale è lacerata. La Pira parlava di una Firenze con funzione vicaria rispetto a Gerusalemme. E’ un modello e un paradigma che si ripropone a tante comunità umane.
Se si soffre per mancanza di visioni e di visioni condivise, non mancano in questo nostro tempo i tanti orgogli dei singoli e gli assordanti protagonismi del momento. La Pira, uomo antico (ma forse del futuro), lontano dall’orgoglio del protagonismo, ebbe l’audacia – non l’orgoglio – di mettere la sua comunità civica sul monte da cui vedeva il mondo.
Vorrei concludere con Luzi, dopo aver iniziato con la poesia di Wojtyla:
“Ricordate? Levò alti i pensieri
stellò forte la notte
inastò le sue bandiere
di pace e di amicizia
la città degli ardenti desideri
che fu Firenze allora…”.

Gualtiero Bassetti , Arcivescovo di Perugia e Città della Pieve

OMELIA IN OCCASIONE DEL XXXII ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SERVO DI DIO GIORGIO LA PIRA

Firenze, Basilica di San Marco, 5 novembre 2009

 

Siamo oggi a Ringraziare Dio per il dono grande di Giorgio La Pira, siamo qui nell’occasione del XXXII anniversario della sua morte convocati da Dio stesso che  ha manifestato la sua gloria nel Servo Suo.

Abbiamo ripetuto, nel responsorio del Salmo, «la gloria di Dio è l’uomo vivente» L’espressione che è di Sant’Ireneo prosegue spiegando che «la visione di Dio è la gloria dell’uomo». La Provvidenza ha voluto che oggi ascoltassimo questa parola e ci sembra che la stessa esperienza umana e cristiana di La Pira vi sia espressa.

Egli, potremmo dire, si metteva dalla parte del Paradiso, era uomo la cui fisionomia spirituale è tratteggiata dal salmo 26: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco; abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario. Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi».

Il Paradiso come realtà che ha orientato e spiegato tutta la vita del Professore, come la fonte dell’allegria, come la sorgente della forza (sappiamo quante avversità ebbe a sopportare con la forza di un leone), come il motivo della speranza (spes contra spem). Il paradiso come il fine della vita ma anche come già presente nella contemplazione di quel Dio da lui tanto cercato nella preghiera, nell’eucaristia, tanto amato nella Sua parola.

Di  paradiso ebbe a farne esperienza, in qualche misura, la notte di Pasqua del 1924, quando dopo la comunione sentì «nelle vene circolare una innocenza così piena, da non poter trattenere il canto e la felicità smisurata».[1]

Eppure, l’orientamento soprannaturale della sua vita, non lo ha rapito dalla terra: anzi la sua fu una personalità concreta, genialmente creativa.

Ripeteva spesso che «i veri materialisti siamo noi che crediamo nella risurrezione di Cristo», una fede che inclina coerentemente a prendersi cura di quello che Cristo stesso ha amato: «Cristo è anche uomo? Ma allora le cose dell’uomo sono cose di Cristo: i valori dell’uomo sono valori di Cristo: le pene e le gioie dell’uomo sono pene e gioie di Cristo»[2]. E ancora:  «La Pasqua è un fatto che pur trascendendo il tempo e lo spazio, il cosmo e l’uomo e la storia umana, è tuttavia come radicato nel tempo, nello spazio, nel cosmo e nella storia dell’uomo; trascende la realtà fisica, trascende la realtà umana e storica e tuttavia esso è inserito come lievito fecondatore, restauratore, orientatore di questa realtà cosmica, umana e storica»[3].

Operare nella storia è allora un vero e proprio prolungamento della salvezza che Cristo ha portato nel mondo non vivendo per se stesso né morendo per se stesso (Cf. Rm 14,7). Questa convinzione era, per Giorgio La Pira, davvero granitica. Il suo spendersi per tutti, il suo non vivere per se stesso è stato un vero e proprio atto di culto a Dio: l’amore concreto, fattivo al fratello è inscindibile dall’amore a quel Dio desiderato e amato.

«Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima verso le creature bisognose. Vi sono creature bisognose? Affamati? Assetati? Senza tetto? Ignudi? Ammalati? Carcerati? Bisogna tendere ad essi efficacemente il cuore e la mano (Matteo, 25,31-46): esempio di questa “propensione” all’intervento è fornito dal Samaritano: scese da cavallo e prese minutamente cura del ferito. E si badi: non si tratta soltanto (come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita dell’azione dei singoli: impegno di amore, cioè, che investe soltanto le singole persone: no, si tratta di un impegno che  parte dai singoli e che investe l’intiera struttura e l’essenziale finalità del corpo sociale»[4].

Questo significa non vivere solo per se stessi.

Il suo impegno a Palazzo Vecchio resta esemplare quanto al vivere per gli altri. «Tante altre famiglie  venivano a Palazzo Vecchio per esporre la drammaticità della loro situazione: povera gente sfrattata che cercava un tetto e un riparo. Cosa dovevo fare? Potrei uscirmene dicendo agli sfrattati: Mi dispiace ma io non posso farvi nulla  Il mio ragionamento — se devo prendere sul serio i miei doveri sostanziali di sindaco  — non può essere che un altro: non può essere che un “ragionamento” samaritano, di intervento: devo cioè cercare tutti i mezzi atti a sanare una situazione di pena che non comporta ritardo alcuno!» [5].

E se questa è la via di ogni riuscita umana, d’ogni vita che voglia dirsi sensata, lo è in maniera tutta particolare per chi è impegnato sul fronte della cura politica, istituzionale, amministrativa.

Oggi la carità fattiva di Giorgio La Pira che ha scelto i poveri sempre e con i poveri ha voluto morire, è contestazione implicita di ogni pigrizia, di ogni connivenza, di ogni omissione di chi potendo agire non agisce, di chi si allea con l’iniquità, di chi tradisce il mandato per il bene comune a motivo di privilegi personali o di parte, di chi fa alleanze con il male invece che con il bene, di chi ruba invece che amministrare, di chi amministra avidamente e resta inerte di fronte alla miseria dei più.

Nell’esercizio del governo della città e nel servire la pace internazionale, ebbe la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti [6]. Don Milani direbbe: I care, tu mi interessi! E oggetto dell’interesse di La Pira fu la persona umana in ogni situazione di umanità diminuita, di povertà. Stare dalla parte di chi non ha e di chi non è, sempre!

Il patrono della Cattedrale di Perugia è san Lorenzo, il diacono martirizzato a Roma dopo aver presentato all’imperatore che gli chiedeva conto dei tesori della chiesa, i poveri e gli straccioni dell’urbe. Non posso qui, oggi, non ripensare al giovane negro di Harlem che intona un canto sulla bara di La Pira dando così voce agli ultimi della terra, non posso non ricordare che furono gli operai della Pignone (la sua Pignone) a sollevare la bara del loro Sindaco al termine della liturgia funebre: come Lorenzo, scelse anch’egli i suoi tesori, la sua compagnia.

Oggi il nostro Sindaco è in mezzo a noi vivente, sempre vivo per intercedere per noi (cf. Eb 7,25) e la sua preghiera efficace sostiene la nostra fatica e fa lievitare la nostra speranza trasformandola in allegria; ma lui stesso ci chiede di non fermarci a lui, e di riconoscere il motivo della sua gioia che consiste nell’amore misericordioso di Dio, un amore che cerca i suoi figli, che li raggiunge, (ci raggiunge), nei deserti della vita dove non trovano, (non troviamo) più la strada. Siamo noi la dramma perduta, siamo noi la pecorella smarrita, ma siamo sempre noi la festa di Dio: in fondo è questo il paradiso.

La gioia di La Pira, la sua allegria contagiosa  e disarmante, mai superficiale, nasceva dal sapersi salvato, dal sapersi ritrovato da Dio, dalla certezza che non v’è peccato, non v’è miseria morale capace di arrestare l’amore di Dio per la sua creatura. L’amore è sempre più forte della morte, Se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Se Dio ha attraversato i deserti dell’umanità per ritrovarci, se accetta di essere pensato come una povera donna che ripone tutta la sua ricchezza in una dramma, se vuole essere conosciuto come pastore al quale non affideremmo mai il nostro gregge (lasciare novantanove pecore per cercarne una … assolutamente inaffidabile per il tornaconto umano), se insomma Dio è totalmente in nostro favore, ebbene allora l’eccomi  del Sindaco Santo è davvero la risposta più sensata e razionale che l’uomo possa dare alla questione della vita e della morte.

Facciamo festa per questa buona notizia che è, in ultimo, la vera ragione del nostro essere qui, perché è la nostra santità, la nostra umanità pienamente fiorita, il sogno di Dio per noi. Non siamo venuti a commemorare un grande del passato, o ad ammirare un personaggio bello sì, ma comunque altro da me. Siamo qui per rispondere eccomi alla voce di Dio che ci interpella personalmente, siamo qui per riaffidare la nostra povertà alla estrema potenza di Dio perché anche la nostra vita deve fiorire come è fiorita quella di La Pira. Francesco d’Assisi, tanto amato dal Professore, alla fine della vita ai suoi frati disse: Io ho fatto la mia parte, Cristo vi insegni a fare la vostra.

Oggi, nella persona di La Pira, Cristo ci mostra ancora la via: coraggio allora e in cammino fino al compimento dell’amore, quando alla sera della vita possa compiersi anche per noi quello che la Chiesa prega al termine del rito delle esequie: che ognuno di noi, redento dalla morte, assolto da ogni colpa, riconciliato con il Padre, e recato sulle spalle dal buon Pastore, partecipi alla gloria eterna nel regno dei cieli.

La Vergine Maria patrona dei poveri, Donna del Paradiso, cammina con noi e ci indica la strada al monte del Signore  (Is 2,3), il suo passo sostenga il nostro, la sua cura supplisca la nostra debolezza e ci accolga là dove, finalmente, non si impara più l’arte della guerra (cf. Is 2,4).

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[1] G. La Pira, «Lettera a Salvatore Pugliatti» Settembre 1933, in Lettere a Salvatore Pugliatti,  138.

[2] G. La Pira, «Anche Cristo è un uomo», 1954, in Coscienza,  8.

[3] G. La Pira, «Fede, Speranza e Carità», 1950, in Le città sono vive, 164.

[4] G. La Pira, «Una società cristiana permette», 1953, in Giorgio La Pira sindaco, I,  297.

[5] G. La Pira, «Mi denunzieranno per gli sfrattati?», 1995, in Giorgio La Pira sindaco, II,  23-24.

[6] BENEDETTO XVI, Omelia d’inizio pontificato, 24.05.2005.

[7] GIOVANNI PAOLO II, Sollecitudo rei socialis 38.

XII Colloquio dei romanisti dell’Europa e dell’Asia

Irkutsk, 14-16 ottobre 2009

 

1. Il Colloquio si è tenuto nei giorni 14-16 ottobre 2009 ad Irkutsk, nella Federazione Russa, organizzato dall’Istituto giuridico dell’Università statale di Irkutsk in collaborazione con l’Università di Roma, l’Unità di Ricerca “Giorgio La Pira” del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Gruppo di ricerca sulla diffusione del Diritto romano e con il contributo dell’Istituto di Storia russa dell’Accademia delle Scienze di Russia.

Hanno partecipato personalmente o con contributi scritti, studiosi appartenenti ad accademie, istituti e università di Cina, Grecia, Danimarca, Italia, Kazakistan,  Moldavia, Romania, Polonia, Russia, Serbia, Slovenia, Tagikistan, Turchia e Ucraina. In un volume di pre-atti, distribuito ai partecipanti, sono state raccolti e pubblicati i riassunti delle comunicazioni, pervenuti alla segreteria, e le introduzioni di Oleg Ličičan, direttore dell’Istituto giuridico dell’Università statale di Irkutsk, e di Pierangelo Catalano, responsabile dell’Unità di Ricerca “Giorgio La Pira” del CNR; in apertura del volume è stato anche pubblicato un articolo di Tatiana Alekseeva, Preside della Facoltà di Giurisprudenza e Vicedirettore della Sede di San Pietroburgo dell’Università Statale “Scuola Superiore di Economia, su Professori di Diritto romano di San Pietroburgo al vertice del potere russo” (il Presidente della Federazione Russa D.A. Medvedev, il Ministro della Giustizia  A.V. Konovalov e il Presidente della Suprema Corte Arbitrale A.A. Ivanov). In una seconda raccolta, anch’essa distribuita, sono stati pubblicati alcuni testi completi delle comunicazioni e il discorso di saluto di Machkam Azamovič Machmudov, presidente della Corte Costituzionale della Repubblica del Tagikistan, accademico della Repubblica del Tagikistan, organizzatore, nel 2005, del X Colloquio a Dušanbe.

 

2. Persona e popolo nel sistema del diritto romano.

La seduta del mattino, dedicata a “Persona e popolo nel sistema del diritto romano”, è stata presieduta da Oleg P. Ličičan  e da Aleksandr S. Ševčenko, dell’Università Statale dell’Estremo Oriente di Vladivostok, organizzatore dell’VIII Colloquio, svoltosi a Vladivostok nel 2000. Hanno presentato comunicazioni: N. Deretić, dell’Università di Novi Sad, La politica dei Romani riguardo alla popolazione; M. Zabłocka, dell’Università di Varsavia, Capacità umana e ‘ius trium liberorum’;  J. M. Zabłocki, dell’Università Cardinale Stefan Wyzynski di Varsavia,  ‘Consortium vitae’; G. Lobrano, dell’Università di Sassari, La ‘res publica’ nei “Digesta” di Giustiniano; L. Kofanov, Centro per lo studio del Diritto romano di Mosca, ‘Persona publica’, ‘societas publica’ e ‘status civitatis’ nella Roma repubblicana.

I lavori sono proseguiti nel pomeriggio presieduti da Aleksandr S. Ševčenko. Hanno svolto comunicazioni: V. Zubar’, dell’Accademia nazionale giuridica di Odessa, Lo studio di Savigny sull’essenza della persona giuridica; V.V. Treplavlov, dell’Accademia delle Scienze di Russia, Mosca, La formazione dello Stato multinazionale in Russia: sintesi dei sistemi giuridici; G. Maniscalco Basile, dell’Università “Roma Tre”, Popolo e Impero alle origini della Rus’; M. Brutti, dell’Università di Roma “La Sapienza”, Cittadini, stranieri, ‘aequitas’: i modelli del Diritto romano;  A.Tarwacka, dell’Università Cardinale Stefan Wyzynski di Varsavia, Le radici della nozione ‘delicta iuris gentium’ nel pensiero giuridico degli antichi Romani; N.B. Sredinskaja, dell’Istituto di storia di San Pietroburgo dell’Accademia delle Scienze di Russia, Le norme di Diritto romano sulle persone nell’esperienza giuridica dell’Italia settentrionale  del XIV-XV secolo.

Sul tema della seduta hanno partecipato con riassunti scritti (v. supra): E.B. Berg, dell’Accademia giuridica di Ekaterinburg, Persone giuridiche – enti non commerciali nel diritto romano, A.P. Belikov, dell’Università statale di Stavropol’, La combinaison des intérêts du citoyen et des Etats dans le droit romain de la période de la République; E.G. Nekit, dell’Accademia giuridica di Odessa, Le categorie ‘fides’ e ‘aequitas’ come fondamento dei rapporti giuridici fiduciari; V. Ciucă, dell’Università di Iaşi, ‘Bona fides’ dans une herméneutique inédite; I.V. Petrova,  dell’Istituto sociale del Caucaso Settentrionale di Stavropol’, Il fenomeno della produzione giudiziaria del diritto nell’antica Roma.

Alla fine della giornata è intervenuta, B. Karaman, dell’Università di Galatasaray, Istanbul, per portare a conoscenza dei partecipanti la difficile situazione dell’insegnamento del diritto romano in Turchia, dove il Consiglio dell’Insegnamento Superiore (Yükseköğretim Kurulu), il 27 agosto 2009, ha approvato una nuova struttura dei dipartimenti universitari  che “mette in grande pericolo l’insegnamento del Diritto nelle facoltà giuridiche, la continuità della dottrina romanistica turca e la formazione dei nostri futuri colleghi”.

3. Difesa dei diritti civili e difesa dei debitori.

La seduta del 15 ottobre, dedicata al tema  “Difesa dei diritti civili e difesa dei debitori”, è stata presieduta, al mattino, da Antun Malenica, dell’Università di Novi Sad. Hanno svolto comunicazioni: XuGuodong, dell’Università di Xiamen, Le imposte presso i Romani: dall’origine all’ascesa di Diocleziano al trono; W. Wołodkiewicz, dell’Università di Varsavia, L'”Edictum de pretiis” di Diocleziano e la difesa dei diritti; M. Sič, dell’Università di Novi Sad,  La costituzione di Graziano (C. Th. 4, 20, 1) e la condizione d’innocenza della ‘cessio bonorum’; P. Niczyporuk, А. Таlеcка, dell’Università di Białystok, La vendita all’asta dei beni come una delle forme dell’attività dei banchieri nell’antica Roma; S.Aličić, dell’Università di Novi Sad, Responsabilità aquiliana per la distruzione dei documenti nel Diritto romano classico; A. I. Bibikov, dell’Università statale di Ivanovo, La morte del debitore e il destino della fideiussione nella trattazione della giurisprudenza contemporanea e romana; R. Cardilli, dell’Università di Roma ‘Tor Vergata’, Sul rapporto tra ‘actio’ e ‘ius’: riflessione critica sull’azione come difesa del diritto; D.O. Tuzov, dell’Università statale di Tomsk, Sulla ‘rescissio’ delle sentenze giudiziarie in diritto romano: effetto costitutivo o accertamento dichiarativo di nullità?.

Nel pomeriggio, alle ore 15.30, sullo stesso tema, con la presidenza di XuGuodong, dell’Università di Xiamen, hanno presentato comunicazioni: S. Šarkić, dell’Università di Novi Sad, La défense des débiteurs dans le droit médiévale serbe; A. Malenica, dell’Università di Novi Sad), La difesa delle persone nel Codice dello tzar Dušan;   V.V. Trofimov, dell’Università statale di Tambov “G. R. Deržavin”,  La giustizia commutativa come idea guida del diritto contrattuale (tradizione giuridica romana); A.V. Klimovič, dell’Università statale di Irkutsk, A proposito della ‘Legis actio per condictionem’. I partecipanti hanno potuto consultare, nel volume dei pre-atti distribuito (v. supra), i riassunti di A. G. Chalikov, dell’Università statale nazionale del Tagikistan, I diritti della persona nel sistema giuridico romano: particolarità dell’origine, del riconoscimento e meccanismi di difesa;  A.A. Elagina, del Centro per la terminologia e la traduzione di Omsk, Il diritto di asilo dei templi e la possibilità di uso di tale diritto da parte dei debitori (in Tacito); V.K. Volčinski, dell’Università di Chişinău, L’evoluzione della posizione giuridica del debitore nei rapporti giuridici pignoratizi ed ipotecari dell’antica Roma; A.N. Gužva, dell’Università di Char’kov,  L’interesse del locatario nel contratto di locazione secondo i giuristi  romani.

 

4. Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale.

Nel secondo pomeriggio le comunicazioni hanno riguardato il tema “Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale”, hanno tenuto comunicazioni: A. I. Kosarev, dell’Università statale di Mosca, La principale contraddizione tra stabilità ed evoluzione nella storia del Diritto romano e del Diritto musulmano;  M.E. Byčkova, dell’Accademia delle Scienze di Russia, Mosca, Il posto di Roma e di Costantinopoli nella formazione dell’idea del potere statale in Russia; D. Papadatou, dell’Università di Tessalonica, La réception du Droit romain dans le droit successoral du Code civil grec; B. Karaman, dell’Università di Galatasaray, Istanbul, Larecezione del Codice civile svizzero nella Turchia repubblicana; A. S. Karcov, dell’Università statale di San Pietroburgo, Recezione del diritto romano in Russia: nuovissime tendenze.

Anche la mattina del 16 ottobre è stata dedicata al tema  “Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale”. Nella  seduta, presieduta da Witold Wołodkiewicz, dell’Università di Varsavia, hanno presentato comunicazioni: M. Stus, dell’Università  Jagielloński di Cracovia, L’argument historique, le Droit romain et la codification du droit privé. Expériences  polonaises de l’entre-deux-guerres; R. Jaworska-Stankiewicz, dell’Università di Stettino, ‘Delegatio’ nel Diritto romano e nel Diritto polacco. Cenni sulla problematica; W.Rozwadowski, dell’Università Adam Mickiewicz di Poznań, Diritto civile polacco e tradizione romanistica; A.R. Jurewicz, dell’Università di Warmia-Masuria di Olsztyn, ‘Respublica Polona’ ‘curator morum’; Teodor Sâmbrian, dell’Università di Craiova, I principi di Diritto romano nella legislazione romena sull’adozione. Nella seconda parte della seduta, presieduta da T. Sâmbrian, hanno svolto comunicazioni: D. Ju. Poldnikov, dell’Accademia russa di giustizia di Mosca, La formazione della rappresentanza diretta nel Diritto romano recepito; Li Fei, dell’Università di Xiamen, Studi sull’evoluzione del significato di ‘fructus’: dal diritto romano al diritto civile moderno; I. Castellucci, dell’Università di Macao e dell’Università di Trento, La tradizione del Diritto romano e il moderno diritto transnazionale degli affari;   N.V. Apolinskaja, dell’Università statale di Irkutsk, Il concetto di diritto di proprietà nella giurisprudenza romana e in quella contemporanea. Sul tema della seduta sono stati pubblicati nel volume dei pre-atti (v. supra) i riassunti di V. V. Sonin, dell’Università Statale dell’Estremo Oriente di Vladivostok, Transito tra civiltà: gli emigrati-giuristi russi come rappresentanti della tradizione giuridica romana in Cina negli anni 20-30 del XX secolo; Е. О. Charitonov, Е. I. Charitonova, dell’Accademia giuridica nazionale di Odessa, Tipi di recezione del Diritto romano privato e sistemi di diritto privato in Europa;  T. G. Mineeva, V. B. Romanovskaja, dell’Università statale N. I. Lobačevskij di Nižnij Novgorod, Il Diritto naturale in Russia: da Simeon Polockij a A. P. Kunicyn.

 

5. Necessità dell’insegnamento del Diritto romano.

La seduta del pomeriggio, dedicata al tema “Necessità dell’insegnamento del Diritto romano”, è stata presieduta da Aleksandr S. Ševčenko, dell’Università Statale dell’Estremo Oriente di Vladivostok. Hanno presentato comunicazioni: J. Kranić, dell’Università di Lubiana,  Il posto del Diritto romano nel sistema del programma di Bologna dello studio del diritto; M. Kuriłowicz, dell’Università Marie Curie-Skłodowska di Lublino, Aspetti etici e simbolici nell’insegnamento del Diritto romano, G. Taddei Elmi, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze, Il progetto di un archivio digitale sulla letteratura giuridica in lingua russa in tema di Recezione/Diffusione/Insegnamento del diritto romano nell’ordinamento giuridico russo odierno; S. Esetova, dell’Università statale M. Utemisov di Ural’sk,  L’insegnamento del Diritto romano negli Istituti superiori di istruzione del Kazakistan: problemi e prospettive; D. Tamm, dell’Università di Copenaghen, Pourquoi Droit romain? Arguments et reflexions sur l’importance du Droit romain dans  les Pays Nordiques. Sul tema hanno inviato scritti: T. A. Filippova, dell’Università statale dell’Altai di Barnaul,  A proposito dei nuovi approcci all’insegnamento del Diritto romano negli istituti giuridici di  formazione universitaria;  A. Mandro, dell’Università di Tirana, Necessità dell’insegnamento del Diritto romano. Sfide dello studio del diritto romano. Il caso dell’Albania; M.E. Najmušin, I. I. Ivanickaja, dell’Accademia statale di Syktyvkar, Lo studio della storiografia del Diritto romano come elemento di perfezionamento del metodo di insegnamento della disciplina; M. D. Bob, dell’Università “Babeş- Bolyai” di Cluj-Napoca, Enseigner le Droit romain au XXIème siècle : quelques idées et propositions.

 

50° anniversario del viaggio di La Pira a Mosca

Mosca -Accademia delle Scienze di Russia

 

1. Il 50° anniversario del viaggio di La Pira a Mosca è stato ricordato il 20 ottobre 2009, nella Sala Rossa del Presidium dell’Accademia delle Scienze di Russia, per iniziativa dell’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia e dell’Università di Roma “La Sapienza” in collaborazione con l’Unità di Ricerca “Giorgio La Pira” del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il Seminario è stato dedicato al tema “Mosca, la città e la pace nel pensiero di G. La Pira”.

2. I lavori sono stati aperti , da Andrej N. Sacharov, direttore dell’IRI RAN, membro corrispondente della RAN e da Pierangelo Catalano, dell’Università di Roma “La Sapienza”,  responsabile dell’Unità di Ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR. Hanno pronunciato indirizzi di saluto il rappresentante del Comune di Mosca I. A. Valuev e il rappresentante dell’Ambasciata d’Italia, consigliere per gli affari culturali e direttore dell’Istituto italiano di cultura, Alberto di Mauro. E’ poi stata data lettura dei  messaggi di saluto inviati dall’Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma Umberto Croppi, dal Magnifico Rettore dell’Università di Roma “La Sapienza” Luigi Frati e dal Sindaco di Venezia Massimo Cacciari.

3. Nella seduta mattutina sono intervenuti con comunicazioni: Leonid N. Nežinskij, dell’IRI RAN, Particolarità e specificità della posizione internazionale dello stato sovietico nei decenni post-bellici; Giovanni Lobrano, dell’Università di Sassari,  Civitas e Urbs nella lezione romanistica di Giorgio La Pira; Oleg N. Barabanov, dell’Istituto statale di Mosca delle relazioni internazionali MGIMO (Moskovskij Gosudarstvennyj Institut Meždunarodnych Otnošenij), Il ruolo di G. La Pira nella tradizione politica italiana; Irina A. Chormač, dell’IRI RAN, Il ruolo di Giorgio La Pira nel rafforzamento delle relazioni tra Unione Sovietica e Italia. Al termine degli interventi si è tenuta una discussione nella quale sono intervenuti Pierangelo Catalano e Nina V. Sinizyna, dell’IRI RAN.

3. I lavori sono proseguiti nel pomeriggio, con le comunicazioni di  Giancarlo Taddei Elmi, dell’ITTIG – CNR, Firenze, “Far convergere le città”, “sanare le città”: i discorsi di Leningrado e Torino; Riccardo Cardilli, dell’Università di Roma “Tor Vergata”, Dalla violenza alla non violenza e al diritto come “legge storica”  in Giorgio La Pira; Massimo Brutti, dell’Università di Roma “La Sapienza”, Il messaggio pacifista di Giorgio La Pira; Giovanni Maniscalco Basile, dell’Università “Roma Tre”, Giorgio La Pira tra utopia e teoria giuridica. Per le conclusioni dei lavori è intervenuto Pierangelo Catalano.

 

IV CONVEGNO NAZIONALE GIORGIO LA PIRA

SPES CONTRA SPEM 4

 

Palermo 13-14 ottobre 2017

Venerdì 13 ottobre –  Aula Magna della Scuola di Giurisprudenza , via Maqueda

ore 15         Arrivi e registrazione

ore 15.30    Inizio dei lavori – Presiede Salvatore Xibilia, Centro La Pira, Siracusa.

 Benvenuto da parte dei co-promotori: Leoluca Orlando per il Comune di Palermo, Mario Primicerio per la Fondazione La Pira

ore 15.45    Saluti istituzionali

ore 16         Saluto introduttivo di Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

ore 16.30  Relazione “Giorgio La Pira e la città” S.E. Card.Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

ore 17.15    Interventi: 

 Centro Studi Giorgio La Pira, Cassano Ionio (CS)

 Centro Culturale Giorgio La Pira, Pavia

 Centro Sociale Santa Chiara, Palermo

  Centro Culturale Giorgio La Pira, Motta di Livenza (TV)

ore 18   “Le attese della città, oggi” Prof. Carlo Cellamare, Laboratorio di Studi Urbani “Territori dell’abitare”, Università La Sapienza, Roma

ore 18.30  Interventi:

Gruppo La Pira, Azione Cattolica di Cagliari

AGESCI, Palermo

Centro Socio-Culturale G. La Pira, Pomigliano d’Arco (NA)

                 

Sabato 14 ottobre, sessione del mattino – Palazzo delle Aquile

ore 9.30      Inizio dei lavori – Presiede Leoluca Orlando, Sindaco di Palermo

ore 10         Introduzione : Immagini di La Pira sindaco” – Vanessa Roghi, storica del presente

ore 11      Tavola Rotonda “Essere Sindaco oggi” con la partecipazione dei Sindaci di Palermo, Caltanissetta, Messina, Pozzallo, Firenze

ore 13         Pranzo

Sabato 14 ottobre, sessione pomeridiana – Aula Magna della Scuola di Giurisprudenza , via Maqueda

ore 15         Inizio dei lavori – Presiede Anna Staropoli, Istituto Arrupe, Palermo

ore 15.15   “Il Mediterraneo, oggi” Prof.ssa Bruna Bagnato, Scuola di Scienze Politiche, Università di Firenze

ore 16.15   Interventi:

Associazione La Pira, Catania

 Circolo La Pira Etna Sud, Nicolosi

 Laici missionari comboniani

Officina politica Giorgio La Pira, Caltanissetta

Federazione Chiese Evangeliche, Tavola Valdese, Comunità di Sant’Egidio

ore 16.45    Il Mediterraneo e la sicilianità nelle azioni di Giorgio La Pira” – Vincenzo Sorce, Presidente di Casa famiglia Rosetta

ore 17.15    Interventi:

Azione cattolica Palermo

 Gruppo FUCI Giorgio La Pira, Messina

Centro Mediterraneo Giorgio La Pira, Pozzallo

ore 18         Discussione e conclusioni

 

INDICE RIEPILOGATIVO DI TUTTI GLI INTERVENTI

Fondazione La Pira Introduzione 1
PARTE PRIMA
G. Bassetti Giorgio La Pira e la città 2
M. Trufelli Il saluto dell’Azione Cattolica 3
C. Cellamare Una città per l’uomo: le attese della città, oggi 4
M. Bruno Il progetto Città 3.0 5
P. A. Carnemolla Il valore della città in Giorgio La Pira 6
F. Adenti La città cantiere di partecipazione 7
G. Scialò Città, geografie umane dove costruire ponti 8
R. Sedda Giocare la città 9
G. Meli, G. Messina La Sicilia possibile 10
Gruppo Universitari Opera La Pira I giovani e la città 11
G. Mazzaglia Riflessioni sul convegno “Laudato si’ e grandi città” 12
D. Cangelosi Un progetto di integrazione pacifica a Palermo 13
M. Agostino La Tavola Rotonda “Essere sindaco, oggi” 14
PARTE SECONDA
B. Bagnato Il Mediterraneo oggi 15
A. Staropoli Per una visione lapiriana del Mediterraneo 16
S. Di Mauro Mediterraneo, non solo Africa 17
A. Nastasi Mediterraneo: ipotesi di futuri scenari 18
M. Bernardini, C. Cianciolo Mediterranean Hope e i corridoi umanitari 19
D. Guarino Migrazioni: un’emergenza per la nostra umanità 20
Gruppo “Una finestra sul Mediterraneo” Lo sguardo dei giovani sul grande lago di Tiberiade 21
A. Raneri, T. Santospirito Accoglienza, integrazione e il ruolo dell’Università 22
M. Certini Studenti internazionali, ponte di cultura 23
M. De Cicco Popoli in cammino… verso la speranza 24
L. Drogo Migrazioni, accoglienza, riconoscimento 25
G. Anastasi Tracciare sentieri per costruire le paci 26
A. Danese Esperienze di migranti in una piccola città veneta 27
D. Santetti Essere in uscita 28
Y. Abd el Hadj L’educazione interreligiosa nella società multiculturale 29
PARTE TERZA
V. Sorce Giorgio La Pira tra sicilianità e mediterraneità 30
F. Garofalo Spiritualità e politica: l’attualità di Giorgio La Pira 31
F. Rovello L’eredità di La Pira per un impegno culturale e politico 32
G. Pugliese Giorgio La Pira da Pozzallo al mondo 33
G. Dormiente La Pira con gli occhi dei poeti 34
C. Parenti Il rapporto tra Giorgio La Pira e don Giulio Facibeni 35
C. Cefaloni La “magra potestà delle prediche” davanti alla guerra 36
R. Castellani Quello che ci dice oggi Giorgio La Pira 37

5 Novembre 2014

Palazzo Vecchio

Salone dei Cinquecento

 

Giornata

“La questione lapiriana: la povertà oggi.

Dalla povertà allo sviluppo e all’eguaglianza”

Ore 10

Apertura della  Giornata con Saluti Istituzionali: Sindaco di Firenze

Presiede Mario Primicerio, Presidente della Fondazione Giorgio La Pira

Introduzione

Giulio Conticelli, Vice Presidente della Fondazione Giorgio La Pira

Ore 10.30

Romano Prodi

“L’Africa e i poveri: quale sviluppo?”

Ore 11

Giovanni Andrea Cornia (Università di Firenze)

“Sud America e Nord America tra nuove e vecchie povertà”

Ore 11.30

Elisabetta Basile (Università “La Sapienza” di Roma)

“La lotta alla povertà in India: la condizione femminile”

Ore 12

Marco Impagliazzo (Presidente della Comunità di Sant’Egidio – Università per Stranieri di Perugia)

I poveri nelle città dell’Europa: le nuove responsabilità”

Ore 12.30

Conclusioni dell’On. Lapo Pistelli

Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

Ore 13 Messaggio 2014 di San Procolo per i poveri

In collaborazione con:

Società Italiana Economisti dello Sviluppo

Comunità di Sant’Egidio

CARITAS della Toscana

***

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

Ore 15

Inaugurazione della Mostra

“La Pira, l’Europa dei popoli e il mondo: le pietre del dialogo”

in occasione della Presidenza Italiana dell’Unione Europea

 

in collaborazione con gli Archivi Storici dell’UE

***

Ore 18

Basilica di San Marco

Santa Messa presieduta da Mons. Giancarlo Perego

Direttore Generale della Fondazione “Migrantes” – CEI

Ecco a seguire il programma del Seminario Internazionale organizzato dal Circolo “Verso l’Europa” per il fine settimana dell’11-12-13 Ottobre 2014:

 

Giorno 1 Aprile 2014, Mons. Loris Francesco Capovilla, già segretario di Sua Santità Giovanni XXIII, amico di Giorgio La Pira e da pochi mesi nominato Cardinale da Papa Francesco, ha scritto così alla Fondazione sottolineando il suo vivo ricordo del Professore:

Breve scheda biografica di Giuseppe Dossetti

Giuseppe Dosetti nacque a Genova il 13 febbraio 1913 da Luigi, farmacista e da Ines Ligabue. Il padre era piemontese e la madre di Reggio Emilia e si trovavano a Genova solo per il lavoro del padre. Già nel giugno di quell’anno la famiglia si trasferì a Cavriago, un piccolo paese del Reggiano, dove Luigi aveva rilevato la locale farmacia. La madre aveva una fortissima spiritualità che trasmise ai figli, il secondo dei quali, Ermanno, nacque il 16 marzo 1915. I fratelli frequentarono le scuole superiori a Reggio Emilia, dove Dossetti conseguì brillantemente la maturità classica nel 1930. Quegli anni furono formativi ed assai importanti per lo sviluppo della forte personalità di Dossetti. Il clima culturale del liceo era quello della provincia colta italiana sotto il fascismo, con docenti qualificati e di ampi interessi culturali. L’aura dominante era la tipica versione ibrida del fascismo/nazionalismo, che portava a seguire le scansioni più o meno liturgiche imposte dal regime. A dispetto di affermazioni autobiografiche sulla maturazione di un irriducibile antifascismo (cfr Ho imparato a guardare lontano, 2008), esiste documentazione ( cfr Galavotti, 2006) che testimonia una sua partecipazione da giovanissimo a qualche evento della cultura locale fascista. Il fatto è meno contraddittorio di quanto a volte si è sostenuto. Come moltissimi della Sua generazione, nella prima giovinezza egli seguì, sia pure marginalmente, il flusso del conformismo lealista senza farsi coinvolgere in una vera e propria adesione all’ideologia fascista. Più maturava e più cambiava pelle lo stesso fascismo, che dopo il 1936 andò accentuando un certo radicalismo identitario, più Dossetti si allontanava anche da quella adesione superficiale, giungendo alla fine a una severa condanna di quell’ideologia e di quel regime. La politica costituiva a quel tempo un interesse del tutto marginale: la Sua concentrazione riguardava piuttosto il settore della vita spirituale e religiosa. La svolta avvenne nel 1930, quando iniziò il suo intenso impegno nelle file dell’Azione Cattolica, soprattutto sotto la direzione di Dino Torreggiani, una figura carismatica di sacerdote molto impegnato nel sociale ma anche attento a promuovere un impegno di ascesi personale. Con lui Dossetti lavorò lungo tutto il suo percorso universitario all’oratorio S. Rocco, in un’azione che faceva convivere l’attenzione agli emarginati con una ricerca di severa perfezione interiore. In parallelo sviluppò interessi verso lo studio della Bibbia, godendo della presenza a Reggio Emilia di Leone Tondelli, biblista di un certo spessore che fu tra i collaboratori dell’Enciclopedia Italiana. Nell’ottobre 1930 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. I risultati dei suoi studi universitari furono brillanti, ma fu pochissimo coinvolto nella vita dell’ateneo: per nulla sul versante studentesco, poco anche su quello del contatto con i docenti.

Scelse una tesi in diritto canonico con Arturo Carlo Jemolo, che fu chiamato all’Università di Roma, dove insegnò dal 1° novembre 1933 e dunque per la laurea ebbe come relatore il successore di Jemolo, Cesare Magni. Si laureò con lode il 16 novembre 1934 con la tesi “La violenza nel matrimonio canonico. Svolgimento storico e disciplina vigente: un’indagine sul canone 1087 del Codex Juris Canonici pio-benedettino, che stabilisce l’invalidità del matrimonio celebrato sotto il ricatto della violenza o di un timore grave”. Il testo, molto complesso e già ricco di un ben costruito storico sull’evoluzione della dottrina in materia, divenne fondamentale nella sua produzione di giurista. È probabile che il tema scelto fosse una via per elaborare la questione del primato della sostanza e della coscienza sulla forma istituzionale ovvero il sacramento del matrimonio non è un fatto magico, ma un atto di adesione dell’animo ad una forma, per quanto particolare, di consacrazione. Al tempo stesso è proprio il diritto che, nella formulazione del Codex e prima nella elaborazione dottrinale, conferisce forza sociale a quel primato.  L’esperienza di quella ricerca convinse Dossetti a proseguire sulla via degli studi: nel novembre 1934 si presentò ad Agostino Gemelli chiedendo di essere accolto presso l’Università cattolica del Sacro Cuore. La decisione fu forse presa anche con la mediazione del suo amico Sergio Pignedoli.

Gemelli lo accolse come perfezionando in diritto romano sotto la direzione di Biondo Biondi, che gli affidò una ricerca sul senatoconsulto di Nerone. In Cattolica  trovò un ambiente intellettuale stimolante e strinse rapporti duraturi con Antonio Amorth, assistente di diritto amministrativo e con Giuseppe Lazzati, assistente al seminario di filologia classica, ma soprattutto dirigente della Gioventù Italiana di Azione Cattolica milanese. In quell’ambiente sembrò esservi il contesto favorevole per un’esperienza per lui molto attraente, quella dei laici consacrati. Gemelli aveva fondato, con Francesco Olgiati, il sodalizio dei Missionari della regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, i cui membri laici, divisi in un ramo maschile ed uno femminile, si consacravano in segreto facendo voto di castità e promessa di povertà, obbedienza ed apostolato. Dossetti vi fu ammesso nel 1936, quando a Reggio Emilia questo tipo di movimenti era in crisi: l’Opera del Divino Amore di Angelo Spadoni fu sciolta per sospetti verso le sue pratiche mistiche; la riorganizzazione dell’universo ecclesiastico che ne seguì mise fine anche all’esperienza di Dino Torreggiani e dell’oratorio di S. Rocco. Nello stesso 1936 Gemelli consentì a Dossetti di passare come assistente volontario alla cattedra di diritto canonico retta da Vincenzo Del Giudice. La nuova collocazione gli permetteva di riprendere il tema della tesi di laurea; fu un lavoro lentissimo, come gli rimproverava continuamente Gemelli: solo nel 1942 approdò ad un’edizione provvisoria come monografia per la libera docenza, che conseguì con lusinghiero giudizio e l’anno seguente come libro per le edizioni di Vita e Pensiero. Non era però quello il centro dell’attività di Dossetti. Non lo soddisfaceva l’esperienza della consacrazione nel sodalizio dei Missionari, che nel 1937-38 visse una crisi interna, quando il responsabile maschile, Giovanni Spagnolli, ruppe il voto di castità per sposare una ragazza dello stesso sodalizio e Gemelli nominò al vertice Luigi Gedda, presidente nazionale della GIAC. Il movimentismo di quest’ultimo a scapito di una solida formazione interiore lo mise in conflitto con Lazzati, presidente della GIAC milanese, che uscì dal sodalizio, presto seguito dallo stesso Dossetti. Nonostante ciò, continuò la collaborazione col rettore della Cattolica, che lo coinvolse in importanti iniziative. Innanzitutto gli fece scrivere, nel 1939, una memoria poi inviata come opera dello stesso Gemelli all’appena eletto papa Pio XII, sulla specificità delle «associazioni di laici consacrati a Dio nel mondo». Si tratta di un contributo doppiamente importante, sia perché fu alla base delle decisioni di Pio XII a favore del riconoscimento degli Istituti secolari, sia perché sviluppò come fattore caratteristico di quel tipo di sodalizi i concetti di donazione e di olocausto che tanta importanza avrebbero avuto nel pensiero di Dossetti. In quella fase maturò il suo giudizio radicalmente negativo sul fascismo.

Nel 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, Dossetti vinse il concorso per assistente di ruolo alla cattedra di diritto canonico, ma iniziò anche, sia pure inizialmente in sordina, una riflessione sul significato della guerra che stava sconvolgendo il mondo. Nell’ottobre 1941 un gruppo di persone, moderate da Dossetti, tra le quali Amintore Fanfani, Amorth, Lazzati, il gesuita Carlo Giacon, Sofia Vanni Rovighi, poi Carlo Colombo, occasionalmente Giorgio La Pira e altri, iniziò a radunarsi tutti i venerdì in casa di Umberto Padovani, docente di filosofia alla Cattolica, per riflettere sulla crisi indotta dalla guerra e sulla inevitabilità e sulla auspicabilità, di un regime democratico a cui i cattolici avrebbero dovuto dare il loro apporto convinto. Da queste discussioni Dossetti registrò una serie di posizioni in un documento che andò perduto durante la sua azione nella resistenza. Quel lavoro ottenne una sorta di validazione nel radiomessaggio per il Natale 1942, in cui il pontefice, discutendo su «l’ordine interno degli stati», si espresse in maniera criptica sulla democrazia come migliore forma della vita politica. La necessità di capire gli obiettivi di Pio XII non sfuggì a Gemelli, che mise al lavoro un’equipe della sua università, in cui incluse Dossetti, per un’interpretazione del testo. La tesi di Dossetti, secondo cui Pio XII si apprestava a superare la tradizionale dottrina di Leone XIII della ‘indifferenza’ della Chiesa per le varie forme politiche a favore di un riconoscimento del sistema democratico come il più aderente alla dottrina cattolica, fu riservatamente sottoposta al Papa, la cui sibillina risposta fu che per il momento la questione era sospesa, facendo così intendere che si coglieva nel segno, sia pure in prospettiva, cosa confermata dai successivi pronunciamenti pontifici. Dossetti, che sempre nel 1942 ebbe un primo incarico in diritto ecclesiastico e canonico all’Università di Modena , dovette confrontarsi con l’evoluzione della situazione italiana dopo la caduta del regime fascista e l’armistizio dell’8 settembre 1943. Del movimento di resistenza armata, rapidamente sviluppatosi in Emilia, fecero parte anche giovani cattolici, come fu il caso, nel Modenese, del gruppo capeggiato da Ermanno Gorrieri, che si rivolse a Dossetti come ad un riferimento politico-ideale. In un primo momento Dossetti ritenne che i cattolici, di fronte ad una guerra civile, avrebbero dovuto schierarsi certamente a favore di un regime democratico ma non partecipare alla lotta armata. Presto però si rese conto della difficile pratica di questa scelta e si lasciò coinvolgere, insieme con il fratello Ermanno, nel movimento di resistenza: entrò prima nel Comitato di Liberazione Nazionale  della sua Cavriago e poi, nel dicembre 1944, nel CLN provinciale di Reggio Emilia, di cui fu eletto presidente.

La scelta di essere un ‘partigiano disarmato’ derivava semplicemente dalla sua personale posizione di uomo ‘consacrato’ (era terziario francescano), ma dal febbraio 1945 fu in montagna con le formazioni armate partigiane e partecipò ad azioni militari come la battaglia di Ca’ Marastoni (1° aprile 1945) da lui rievocata nel suo discorso alla Costituente del 21 marzo 1947. Nell’azione partigiana Dossetti si impegnò a dare contenuto politico alla presenza cattolica, inquadrandola nel nuovo partito in formazione della Democrazia Cristiana e sottraendola alle tentazioni di un vago movimentismo legato ad impulsi provenienti da alcuni settori del clero; operò inoltre allo scopo di coinvolgere nella direzione della lotta partigiana elementi di comune fiducia in un futuro sviluppo democratico dello Stato espungendo conati ribellistici e giustizialismi giacobini. A conclusione della lotta di liberazione, nell’aprile 1945, fu confermato presidente del CLN di Reggio Emilia, a riprova del prestigio che si era guadagnato nonostante la predominanza politica del Partito Comunista Italiano  tra le forze partigiane: in quel ruolo agì per contenere gli eccessi vendicativi presenti in una provincia esacerbata non solo dai lunghi mesi di guerra civile, ma dai ricordi della violenza fascista nel ventennio precedente. Sempre nell’aprile 1945, col secondo decreto di costituzione della Consulta nazionale fu nominato tra i membri di quell’organismo in quota CLN. L’attività di Dossetti alla Consulta fu scarsa, mentre cresceva la considerazione di cui godeva nella DC: il 12-15 maggio 1945 presiedette il convegno nazionale dei gruppi giovanili DC ad Assisi e nel Consiglio nazionale del partito, tenutosi  il 3 agosto e che era indirizzato all’apertura nei confronti delle forze del Nord liberato, fu cooptato insieme con Giulio Andreotti come secondo esponente del movimento giovanile. Nella contestuale elezione della nuova direzione fu eletto vicesegretario insieme con Attilio Piccioni e Bernardo Mattarella. Con questa nomina Dossetti si trasferì a Roma per lavorare alla direzione del partito e chiamò a collaborare con lui il suo collega in Cattolica Fanfani, a cui affidò la direzione dell’ufficio Studi Propaganda e Stampa. Intanto, il 1° settembre 1945, partecipò al congresso del CLN Alta Italia  al Teatro Lirico di Milano e si pronunciò per lo scioglimento dei CLN come responsabili a livello locale della direzione politica postbellica che doveva tornare ai normali organi dello Stato.

La sua attività nel partito puntò su due obiettivi: fornire alla DC una base ideologica all’altezza delle sfide dei tempi ed indirizzarla verso una scelta repubblicana in vista della decisione sul regime politico che si imponeva con la fine delle ostilità. Su questo punto entrò in contrasto con Alcide De Gasperi, che invece puntava alla scelta cosiddetta ‘agnostica’: il partito non si schierò né per la monarchia né per la repubblica, lasciando libertà di scelta ai suoi elettori. Dossetti interpretò questa tattica come una decisione favorevole alla monarchia ed ostile all’impegno filorepubblicano espresso dalla grande maggioranza dei quadri. Pertanto indirizzò una dura lettera a De Gasperi  in cui gli contestava la decisione e si dimise dalla vice-segreteria e dalla direzione del partito. Nonostante questo, al primo congresso nazionale della DC tenutosi il 24-27 aprile 1946,  risultò quarto fra gli eletti al Consiglio nazionale. Continuò pertanto la sua propaganda repubblicana in vista del referendum del 2 giugno e delle connesse elezioni per l’Assemblea Costituente, nelle quali fu eletto nel collegio Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia con 29.793 preferenze. In quella fondamentale assemblea Dossetti giunse rapidamente ad una posizione di guida non conferitagli dal partito, ma guadagnata sul campo sia per la sua abilità nella conduzione dei lavori, sia per la sinergia che stabilì con il suo gruppo di giovani amici: La Pira, Fanfani, Lazzati, Aldo Moro, ben presto soprannominati ‘i professorini’;  sia, non da ultimo, per un certo favore con cui alcuni ambienti vaticani lo guardavano in quanto capace di imporsi naturalmente come punto di riferimento in un contesto così difficile. Il contributo di Dossetti e del suo gruppo alla Costituente fu notevole. Si deve a lui l’orientamento del lavoro della Commissione incaricata di preparare la bozza di Costituzione tramite  la Commissione dei 75 presieduta da Meuccio Ruini per un lavoro su tre sottocommissioni: sui diritti ed i doveri dei cittadini; sull’organizzazione costituzionale dello Stato; sui diritti ed i doveri in campo economico e sociale. I dossettiani (Dossetti, La Pira, Moro) si concentrarono sulla prima, che in realtà si occupò di disegnare il sistema di valori a cui si ispirava il nuovo testo. Fanfani agì solitario nella terza ottenendovi però una posizione centrale, mentre nella seconda Dossetti stabilì un buon rapporto con il costituzionalista Costantino Mortati, che si fece propugnatore di alcune istanze molto sentite dal gruppo. Accanto agli interventi personali, costanti in sede di prima sottocommissione, Dossetti si dedicò ad un delicato ma importantissimo lavoro di regia degli interventi nel suo gruppo, lasciando una forte impronta sulla scrittura della Carta: l’impostazione personalistica del riconoscimento dei diritti di cittadinanza, la definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro», i limiti costituzionali al potere dello Stato, il rilievo dato ai moderni partiti come pilastri del sistema democratico.

Si fece carico del lavoro più delicato: come dar corso alla richiesta perentoria del Vaticano di un riconoscimento costituzionale dei Patti Lateranensi e in specie del Concordato del 1929, aggirando l’ostilità verso un accordo ritenuto strumento di consolidamento del fascismo e dal contenuto illiberale in alcune norme del Concordato. Su questo terreno giocò una partita quasi spericolata. Come oggi è noto, il Vaticano non sentiva ragioni su quel terreno e premeva sui dossettiani, che apparentemente si dichiaravano pronti a prendere in considerazione i ‘suggerimenti’ dei vertici ecclesiastici, ma in realtà li piegavano alle loro intenzioni. In sede di sottocommissione tentò di risolvere la questione inserendo la ricezione degli accordi tra Stato e Chiesa in un vasto quadro di riconoscimento dei rapporti dello Stato con gli altri ordinamenti internazionali. Fu sconfitto sia per l’incomprensione da parte delle sinistre sia per la pronta reazione dei rappresentanti della maggioranza DC, ben contenti di scalzare il giovane professore dalla posizione di interlocutore privilegiato del Vaticano; Dossetti tentò in extremis di interpretare comunque in quel senso il testo che sarebbe diventato l’articolo 7 della Costituzione. Nel già citato discorso in aula del 21 marzo 1947 sostenne che la costituzione ratificava il metodo concordatario e solo come conseguenza relativa il Concordato del 1929; che vi era stata una renovatio di quel patto originario perché ora erano diversi i contraenti, il primo essendo il nuovo Stato democratico, il secondo una Chiesa che si era scoperta teologicamente ‘Chiesa del verbo incarnato’; che quel passaggio era necessario perché i cattolici, rimasti a lungo ai margini della nuova Italia per la questione romana, potessero ora a pieno titolo essere protagonisti della ricostruzione democratica. Nessuna di questi tesi ebbe molta fortuna sul momento, ma tutte sono importanti per capire l’evoluzione del pensiero dossettiano. Dossetti aveva infatti ripreso il cammino sul tema della presenza dei cattolici nella società civile. Nel settembre del 1946 fondò un movimento dal nome significativo di Civitas Humana, una sorta di secolarizzazione del sistema delle associazioni dei laici consacrati. Si trattava infatti di formare una nuova classe dirigente di cattolici impegnati a partire da un assioma che sarebbe diventato fondamentale nel lungo percorso di Dossetti: «ad ogni grande rinnovamento della struttura di una civiltà corrisponde e presiede deve corrispondere e presiedere un rinnovamento della Chiesa» (cfr Scritti politici, 1995, p. 311). Per rispondere alla domanda che individuava nella crisi di civiltà culminata nella seconda guerra mondiale, era necessario che il cattolicesimo desse una testimonianza rigorosa e senza compromessi della fede nella necessità di un radicale rinnovamento. Ciò lo portava inevitabilmente in rotta di collisione col progetto politico di De Gasperi, che nella DC vedeva non un movimento di testimonianza del radicalismo evangelico, ma un partito politico il cui fine era la conquista della maggioranza di governo per la gestione di una difficile transizione che andava realizzata tenendo conto della normalità delle regole della politica. Così il 4 settembre 1946, con una lettera a De Gasperi, Dossetti si dimise nuovamente dal Consiglio nazionale. In quel momento era quasi interamente assorbito dai lavori della Costituente a cui si dedicava con tutto il suo gruppo che nel frattempo aveva trovato una sede comune in via della Chiesa nuova 14 presso le sorelle Portoghesi, divenuta nota come ‘comunità del porcellino’. Tuttavia il lavoro alla Costituente andava verso la conclusione, cosa che rilanciava il problema dell’azione nel partito. A questo fine Dossetti e i suoi amici fondarono una rivista quindicinale di presenza intellettuale che, scartato l’ambizioso ma criptico titolo di Metodo nuovo, assunse la testata Cronache sociali con il primo numero, del 5 maggio 1947. La rivista voleva rivitalizzare la presenza politica dei cattolici in un’ottica diversa da quella del partito guidato da De Gasperi. Ne è testimonianza il celebre articolo “Fine del tripartito?” pubblicato sul secondo numero a commento della rottura dell’alleanza governativa fra la DC e le Sinistre: criticando duramente l’ambiguità politica del PCI e dunque sostenendo l’impossibilità di proseguire in quella collaborazione, Dossetti auspicava che la DC si assumesse da sola l’eredità degli orientamenti politici che avevano animato l’esperimento dell’alleanza fra i grandi partiti popolari. De Gasperi, al contrario, puntava ad avviare un’alleanza con i partiti centristi, eredi sostanzialmente degli equilibri espressi dalla classe dirigente prefascista. Nonostante la presa di distanza dalla dirigenza della DC, nel II Congresso nazionale del partito che si svolse a Napoli, 15-19 novembre 1947, Dossetti fu rieletto in Consiglio nazionale e poi nella Direzione, tuttavia l’esperienza politica, concludendosi ormai la fase della Costituente, non era più al centro della sua attenzione. Nel febbraio 1948 chiese alla Segreteria di Stato in Vaticano, con un documento scritto, di essere esentato dalla candidatura alle successive elezioni politiche. Pochi giorni dopo Pio XII gli fece comunicare dal sostituto presso la Segreteria di Stato Angelo Dell’Acqua il desiderio che continuasse la sua attività politica. Accettata la candidatura nelle liste della DC, nella tornata del 18 aprile 1948 fu eletto con 44.677 voti di preferenza. Tornò a battersi per la sua idea della missione del partito cattolico: in forza della chiara maggioranza allora ricevuta avrebbe dovuto governare da solo per realizzare un programma radicalmente innovatore senza sottostare ai compromessi imposti dai partiti moderati. Ciò lo riportò in rotta di collisione con De Gasperi, tanto che non solo non ne sostenne il candidato alla presidenza della Repubblica , ma fu per tanti versi il deus ex machina nel determinare l’elezione a quella carica di Luigi Einaudi, tagliando fuori dalle trattative il PCI.  Un altro punto di rottura con la politica del presidente del Consiglio fu nel dibattito sull’adesione al Patto atlantico: Dossetti riteneva che l’Italia dovesse star fuori dallo schieramento bipolare uscito dalla guerra per poter operare come ponte fra Ovest ed Est, ma finì sconfitto ed isolato nel partito. Nel marzo 1949 in sede di gruppi parlamentari votò contro, con altri membri del suo gruppo, ma agli inizi di aprile nel voto in aula si espresse, con i suoi, a favore della ratifica. Si giunse così al momento culminante di verifica della proposta politica dossettiana, che ora si muoveva verso l’affermazione del ‘partito programmatico’, contro le visioni dell’unità confessionale a tutti i costi  e del ‘partito nazionale’ sulla base del cattolicesimo come collante culturale, visione che era in fondo quella di De Gasperi. Nel III Congresso nazionale del partito tenutosi a Venezia il 2-6 giugno 1949, Dossetti diede battaglia per ottenere una pronuncia a favore del ‘terzo tempo sociale’, cioè di un vasto e radicale progetto di riforme. Ottenne una piccola affermazione personale, ma politicamente il congresso fu vinto da De Gasperi, che finse di accettare una mediazione con i dossettiani, ma li divise attirando Fanfani nell’area governativa e lasciando Dossetti nel limbo di un suo incerto ruolo di guida spirituale sulle correnti progressiste del movimento cattolico. Dossetti appariva emarginato; lo richiamò sulla scena politica la grave crisi sociale tra la fine del 1949 e l’inizio del 1950, che comportò una forte presenza ideologica capace di mobilitare la politica nazionale degasperiana. Era l’esigenza di dare risposta a quella che La Pira definì in un famoso articolo “L’attesa della povera gente” ( cfr Cronache sociali, 15 aprile 1950): una politica di impronta in senso lato keynesiana, che superasse l’egemonia esercitata dagli economisti liberali devoti al monetarismo classico. Nel Consiglio nazionale del 16-19 aprile 1950 Dossetti fu eletto vicesegretario accanto al nuovo segretario, Guido Gonella, anche con una certa apertura di De Gasperi che plaudì, non è chiaro quanto strumentalmente, alla sua forza di animatore. In quella nuova fase Dossetti si impegnò con passione sia per sostenere un vasto programma di riforme sia per rianimare il partito come centro di elaborazione politica e non semplice supporto organizzativo del consenso al governo. Il secondo punto riaprì presto la frattura con De Gasperi, mentre la situazione internazionale si inaspriva con lo scoppio, nel giugno 1950, della guerra di Corea e sul piano interno al partito la corrente maggioritaria degasperiana si organizzava per emarginare la componente dossettiana. Dossetti tornò a essere preso dalle sue riflessioni di natura religiosa su quella che gli appariva nuovamente come una crisi storica decisiva.

Nell’ottobre 1950 era tornato ad una più intensa presenza nella vita consacrata, entrando nell’Istituto secolare dei Milites Christi fondato da Lazzati. Fra il marzo e l’aprile 1951 si aprì uno scontro interno alla DC, che culminò nel Consiglio nazionale di Grottaferrata tenutosi dal 29 giugno al 3 luglio, dove avvenne un primo confronto, non ancora risolutivo, fra le correnti. Il 12 luglio il gruppo parlamentare votò una censura alla linea economica del ministro Giuseppe Pella, dalla quale derivò una crisi di governo. Dal 4 al 5 agosto e dal 1° al 2 settembre 1951 Dossetti raccolse al Castello di Rossena, presso Reggio Emilia, un ampio gruppo di persone con le quali aveva condiviso l’avventura politica e le prospettive culturali che l’avevano ispirata e annunciò la decisione di ritirarsi dalla vita politica. La spiegazione insisteva, ancora una volta, sulla crisi storica che si viveva e sull’inadeguatezza degli strumenti politici tradizionali per rispondervi, a cominciare dal partito. Su queste premesse si dimise dal Consiglio nazionale e dalla direzione della DC. Nel luglio 1952 seguirono le dimissioni dal Parlamento. Il 12 novembre 1951 aveva pronunciato al convegno dell’Unione dei giuristi cattolici a Camaldoli un impegnativo discorso su “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, una definizione delle sue riflessioni sul contesto dell’azione politica nel mondo contemporaneo”. Da quel momento Dossetti lavorò alla creazione di un’istituzione dedicata alla ricerca storico-teologica: sullo sfondo, come si precisò sempre meglio, il problema di quella riforma della Chiesa che fin dal 1946 aveva giudicato incapace di affrontare la sfida della crisi storica. A questo scopo nell’autunno del 1952 fondò a Bologna, nella sede in via S. Vitale 114, un centro di documentazione; la scelta della città fu dovuta all’insediamento, avvenuto a giugno, del vescovo Giacomo Lercaro, con cui aveva già stabilito un rapporto. Attorno al ‘Centro’ Dossetti creò un gruppo di giovani ricercatori, sempre sotto la spinta del discorso su quella che aveva chiamato «la catastrofe civile e la crisi della Chiesa»: aprì un filone di ricerca sui concili e in particolare sul Concilio di Trento, prendendo contatti, dal dicembre 1954 ,con Delio Cantimori e soprattutto con Hubert Jedin, la cui tesi dell’età del Concilio di Trento come ‘riforma cattolica’ piuttosto che come ‘controriforma’ si adattava bene all’interpretazione dossettiana del momento storico. Da quell’impegno Dossetti fu presto distratto dalla decisione del cardinale Lercaro di volerlo candidato, nel 1956, a sindaco di Bologna. Non riteneva fondata la convinzione del cardinale, secondo il quale Bologna era una città favorevole al PCI prevalentemente a causa dell’assenza di una guida cattolica aperta ai problemi sociali e carismatica, ma accettò la candidatura per obbedienza.

Accolto dalla DC bolognese come capolista, impostò la sua azione su due direttrici: un programma nettamente politico-riformatore, steso con un gruppo di tecnici e pubblicato come Libro bianco su Bologna; una campagna elettorale con una connotazione nettamente di sinistra, attaccando il PCI come partito in fondo moderato, partito rosa più che rosso e rifiutando un qualsiasi coordinamento con i partiti anticomunisti del centro-destra. Il risultato elettorale confermò la sua analisi: fu sconfitto e la maggioranza rimase nelle mani del PCI e del sindaco Giuseppe Dozza. A dispetto delle dichiarazioni di uno stizzito Lercaro, secondo il quale Bologna era corsa «a sbattezzarsi», egli aveva raggiunto in un certo senso il suo obiettivo politico: dimostrare che era finita l’era della cristianità, che i cattolici erano ormai minoranza  e che dunque non aveva più senso parlare di una presenza politica in senso proprio cattolica e determinante nel quadro italiano. Si chiudeva così la fase del Dossetti politico e si apriva quella del riformatore cristiano. Già alla fine del 1955 aveva fondato una sua comunità monastica, la Piccola famiglia dell’Annunziata ed aveva manifestato il desiderio di essere ordinato prete. Per sottolineare la radicalità della svolta lasciò, alla fine del 1956, il ruolo di professore universitario e, il 25 marzo 1958, il Consiglio comunale di Bologna, ai lavori del quale aveva nel frattempo regolarmente partecipato con impegno. Il 6 gennaio 1959 fu ordinato sacerdote. Quasi contemporaneamente, il 25 gennaio 1959, Giovanni XXIII indisse il Concilio ecumenico: Dossetti mise al lavoro un gruppo di studiosi per produrre una raccolta dei decreti dei concili: uscì in volume col titolo Conciliorum Oecumenicorum Decreta e fu consegnato in udienza al pontefice, il 2 ottobre 1962, da Dossetti stesso e dai curatori Giuseppe Alberigo, Paolo Prodi, Boris Ulianich, Jedin, Claudio Leonardi, Perikles P. Joannou. Dal 31 agosto 1961 il Centro di documentazione di Dossetti si strutturò come Istituto per le scienze religiose, emanazione dell’Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia di cui Dossetti assunse la presidenza. Il lavoro di animazione della fase preparatoria del Concilio era stato intenso: Dossetti aveva organizzato a Bologna presso il suo istituto incontri e confronti con molti dei grandi protagonisti della cultura teologica riformatrice, cooperando anche con il cardinale Lercaro alla preparazione della grande assise; tuttavia, quando il Concilio si aprì l’11 ottobre 1962, egli non fu direttamente coinvolto. Solo il 5 novembre 1962 il vescovo di Bologna lo chiamò a Roma per lavorare come suo perito esterno. Dall’estate del 1963 iniziò un coinvolgimento più intenso. Il Concilio era in affanno per una farraginosa organizzazione dei lavori e per i contrasti fra la Curia romana ed i padri conciliari riformatori: la Curia riteneva che il Concilio dovesse semplicemente ratificare i documenti che da essa provenivano. A Dossetti, data la sua esperienza di costituente, si chiese l’elaborazione di un regolamento dei lavori dell’assemblea: nel testo che preparò, la direzione dei lavori era affidata a quattro moderatori . Paolo VI approvò l’impianto e Dossetti fu chiamato come segretario dei quattro moderatori senza tuttavia essere nominato perito conciliare  sebbene vi fossero oltre 600 persone che si fregiavano di quel titolo. Il 30 ottobre 1963 ottenne dai moderatori e, non senza fatica, da Paolo VI che l’assemblea si esprimesse preventivamente su alcuni nodi ecclesiologici, come la sacramentalità della consacrazione episcopale, la collegialità, il diaconato. Il 4 dicembre 1963 il Papa licenziò solennemente il decreto De Liturgia in cui sanciva «unitamente ai padri conciliari quanto è stato sinodalmente approvato», utilizzando la formula, elaborata da Dossetti con la collaborazione di Jedin e di Carlo Colombo, che sembra segnare la vittoria della tradizione conciliarista contro il centralismo curiale romano.

L’impegno nell’officina del Concilio proseguì intensamente con il consueto lavoro, più o meno dietro le quinte, a sostegno delle battaglie più difficili, come quella sulle relazioni fra la Chiesa ed il popolo ebraico o la preparazione, nel febbraio 1965, del discorso del vescovo Luigi Bettazzi per la canonizzazione in Concilio di Giovanni XXIII . Intanto il 30 settembre 1964 Dossetti era stato nominato formalmente perito del Concilio. Chiusasi la vicenda conciliare, l’8 dicembre 1965, rientrò a Bologna per collaborare col vescovo alla riorganizzazione della diocesi secondo i dettami conciliari. A questo fine il 2 gennaio 1967 Lercaro lo nominò provicario della diocesi: avrebbe voluto conferirgli un diritto di successione all’episcopato, ma il Vaticano si oppose. Il 6 gennaio 1968, nel discorso per la celebrazione della prima giornata della pace indetta da Paolo VI, Lercaro condannò duramente i bombardamenti americani sul Nord Vietnam, cosa che irritò il pontefice, convinto che ciò potesse far naufragare un confuso piano di mediazione vaticana nel conflitto. In conseguenza, il 2 febbraio Lercaro fu rimosso dalla diocesi di Bologna. L’11 febbraio Dossetti abbandonò tutti gli incarichi diocesani e iniziò un’ulteriore fase della sua esperienza, concentrandosi totalmente sul problema della vita monastica. Nell’estate del 1972 si stabilì a Gerico, nei territori occupati da Israele, con un gruppo di fratelli della sua comunità. Questa scelta di una migrazione in Oriente alla ricerca delle radici profonde del cristianesimo, da indagarsi anche nella mistica di altre religioni orientali, sembrò un addio definitivo all’Italia, ma in realtà i rapporti non si interruppero mai. Una serie di avvenimenti riportò all’attenzione la sua vicenda e iniziarono a uscire studi sulla sua esperienza politica. Frutto di questa nuova attenzione pubblica fu, il 22 febbraio 1986, il conferimento a Dossetti dell’‘Archiginnasio d’Oro’ da parte del Comune di Bologna, in occasione del quale pronunciò un importante discorso autobiografico. Gli eventi internazionali e nazionali lo riportarono ad esercitare quella lettura profetica della storia (antistoricistica) che aveva connotato tutta la sua presenza intellettuale. Le elezioni del marzo 1994, con la vittoria di una nuova maggioranza politica che faceva perno su Silvio Berlusconi e le ventilate proposte di una più o meno radicale revisione dei principi fondanti della Costituzione, allarmarono Dossetti, che rispondendo il 16 aprile ad un invito del sindaco di Bologna, Walter Vitali, a partecipare alla celebrazione della ricorrenza del 25 aprile, propose la costituzione di «comitati impegnati e organicamente collegati per una difesa dei valori fondamentali espressi dalla nostra Costituzione» . L’invito fu accolto e Dossetti impegnò gli ultimi due anni della sua vita in ripetuti interventi pubblici contro l’ipotesi di una riscrittura radicale della Carta costituzionale, che ammetteva potesse essere rivista in alcune parti, ma respingendo quella che definiva una «mitologia sostitutiva» . Morì a Monteveglio (Bologna) il 15 dicembre 1996.

 

Civita Castellana, 29 ottobre 2013                                  f.to Emilio Corteselli

 

COMITATO SCIENTIFICO: Presidente Prof. Giovanni Bianco; Prof. Giorgio Grasso; Prof. Angelo Barba; Prof. Aurelio Rizzacasa; Prof. Giovanni Galloni (membro onorario).

N.B. La nota biografica di cui sopra prende ampiamente spunto da uno scritto di Paolo Pombeni, presente sul sito della Università di Bologna.