ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI GIORGIO LA PIRA

  1. SAN MARCO – 5 NOVEMBRE 2016

Liturgia della XXXII domenica del tempo ordinario (C)

Letture: 2 Mac 7, 1-2.9-14; 2 Ts 2, 16-3,5; Lc 20, 27.34-38

 

«Potete farci morire, ma non si può far morire la resurrezione!». Fu la dichiarazione fatta da un giovane, al tempo della dittatura di Haiti, quando i miliziani volevano impedire ai giovani di parlare liberamente e li minacciavano di tortura e di morte. Questa dichiarazione è simile a quella di questi sette giovani martiri anonimi della prima lettura di questo giorno. Manifestano una convinzione forte, che non esita ad opporsi al re, perché si fonda sulla fede nella fedeltà di Dio e sull’esperienza che il popolo di Israele ne ha fatto nel corso della sua storia. «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati». «Dopo che saremo morti per le sue leggi, il re del mondo ci risusciterà per una vita eterna». È la stessa fedeltà di cui parla l’apostolo Paolo ai Tessalonicesi: «Il Signore è fedele», e che ribadisce così il salmo che abbiamo cantato «custodiscimi come pupilla degli occhi».

In questo giorno in cui facciamo memoria di Giorgio La Pira e della sua prova di santità, la liturgia domenicale ci mette di fronte al cuore della nostra fede: la resurrezione dei morti, con la potenza della grazia di Dio. Giorgio La Pira era soprattutto un uomo di fede e di preghiera. E questa stessa convinzione lo animava «che non si può far morire la resurrezione», o piuttosto che non si poteva impedire al credente di dare incessantemente una prova concreta di questa forza invincibile della vita, con la grazia di Dio, che tende a trasformare il mondo: «Se Cristo è risorto – e lo è – questo Corpo glorioso risorto investe inevitabilmente l’intiera creazione materiale (noti: materiale) e spirituale, politica e civile del mondo. Questo corpo glorioso agisce appunto come lievito trasformatore, come causa attrattiva e trasformatrice, su tutta la realtà cosmica e storica», scriveva La Pira.

La fede dei martiri di Israele, del salmista e dell’apostolo Paolo, si fonda sull’esperienza della fedeltà di Dio e sulla fiducia inalterabile in questa fedeltà («all’ombra delle tue ali, nascondimi»). «Io, nella tua giustizia, contemplerò il tuo volto, al risveglio, mi sazierò della tua immagine». Ma non si tratta soltanto, nella bibbia, della fedeltà di Dio «per domani». La storia santa racconta come questo Dio – cantato dai profeti quando lasciano prevedere la resurrezione – manifesta la sua fedeltà concretamente nella storia del popolo che ha scelto. La giustizia di Dio stabilisce il popolo nella sua unità, reintegrando la giustizia tra i membri di questo popolo. Prendendo, prioritariamente, la parte di quelli che sono poveri, vittime di ingiustizie, esposti all’ingiustizia a causa della loro vulnerabilità.

Poiché questa fedeltà è la melodia di base della storia santa di Dio con il suo popolo, Giorgio La Pira ha voluto impegnare tutta la sua vita per essere un’interprete di questa melodia. È così, credo, che si può comprendere il suo impegno con i poveri, la sua difesa dei lavoratori, le sue battaglie senza sosta per strutture politiche più giuste, i suoi impegni per la pace nel mondo. «Impegnarsi con Cristo significa impegnarsi per i deboli, per gli oppressi, per i poveri, per coloro, cioè, sui quali grava il peso schiacciante di un “ordine costituito”». La sfida di mettersi al seguito di Gesù Cristo, la sfida della vita con Cristo, è questa determinazione a cercare incessantemente di conformare la propria azione alla fedeltà di Dio per il suo popolo, manifestata dalla vita di Cristo donata perché il mondo abbia la vita. Adeguando la propria azione alla fedeltà di Dio, contemporaneamente si regola la propria preghiera e la propria vita alla fedeltà dell’amore di Dio per ciascuno.

Il vangelo di questo giorno ci mostra che, al tempo di Gesù, la fede nella resurrezione non era condivisa da tutti i gruppi del popolo di Israele. Se i Farisei vi credevano fermamente, i Sadducei non vi credevano per niente. E ciò spiega la loro discussione con Gesù, che vogliono indurre alla contraddizione. «Di chi sarà la donna?», questa donna che, per avere seguito la legge del popolo che consiste nel dare una discendenza ad una famiglia, è stata moglie successivamente dei fratelli di suo marito. Ma Gesù, lo avete notato, non vuole entrare in questa discussione falsa. In compenso, mette la questione in un’altra prospettiva, quella del futuro promesso da Dio. L’umanità prevede il futuro attraverso la successione delle generazioni. Dal punto di vista di Dio, occorre prevedere il futuro come adempimento, misterioso, di una promessa. E questa promessa è quella della comunione di tutti, nella presenza, nella misericordia, nella luce e nell’amore di Dio. Questo adempimento è l’azione della parola di Dio, in altre parole del mistero della vita, della passione e della resurrezione di Cristo che sta lavorando nel cuore dell’umanità. Il tempo presente è il tempo nel quale questo mistero si sta già realizzando.

Questo ci fa comprendere, credo, da dove veniva la forza dell’impegno di Giorgio La Pira in tutte le opere che ha intrapreso. Come se il suo impegno, per lui che era così fortemente radicato nella Parola, fosse un modo di dire a sua volta ciò che l’apostolo Paolo scriveva: «Che la parola del Signore corra e sia glorificata», che la grazia della Parola, la grazia della vita diffusa di Cristo, prosegua la sua opera… E che ciascuno di coloro che vogliono testimoniare la prossimità del regno di Dio e che vogliono partecipare alla cooperazione fattiva di Dio e dell’uomo (come diceva La Pira), osi credere di essere chiamato a impegnare la sua vita e la sua azione perché questa Parola si compia!

 

Fr. Bruno Cadoré o. p.

Maestro dell’Ordine

Messa in memoria del servo di Dio Giorgio La Pira nel XXXVIII anniversario della sua morte

Basilica di S. Marco

5 novembre 2015

Giovedì della XXXI settimana del tempo ordinario (anno dispari)

(Rm 14,7-12; Sal 26; Lc 15,1-10)

OMELIA

La pagina della lettera dell’apostolo Paolo che la liturgia propone oggi come prima lettura indirizza verso il centro stesso della fede. Essere cristiani significa rapportarsi alla persona di Gesù Cristo in modo tale da spossessarsi del proprio io fino a orientare verso di lui tutta l’esistenza: «sia che viviamo, sia che moriamo», in vita e in morte, cioè fino alla morte. All’uomo ripiegato su se stesso e preda di un avvilente egocentrismo si propone l’alternativa di un’esistenza trasfigurata perché illuminata dalla persona di Cristo a cui ci si sottomette in piena libertà.

Di questo era ben consapevole Giorgio La Pira, che dalla fede in Cristo, dalla consegna di se stesso a lui, ha tratto il significato della propria vita e l’ispirazione di ogni sua scelta. Ancora giovanissimo, scriveva alla zia Settimia: «La finalità della mia vita è nettamente segnata: essere nel mondo il missionario del Signore: e quest’opera di apostolato va da me svolta nelle condizioni e nell’ambiente in cui il Signore mi ha posto». E trent’anni più tardi, all’amico Fanfani, spiegava così, in una lettera, la sua “strana” attività politica: «Vedi caro Amintore, io non sono un sindaco, come non sono un deputato o un sottosegretario. […] La mia vocazione è una sola, strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell’Evangelo».

Ma per La Pira l’appartenenza a Cristo, vissuta con tanta intensità e pienezza, non si fermava alla propria persona: per lui Cristo è il perno intorno a cui ruota l’intero cammino dell’umanità. Lo scrive, in maniera chiara, sulla rivista Cronache sociali: «Se Cristo è realmente risorto – come lo è –, se la sua resurrezione gloriosa, pur essendo celeste, è anche terrena, la conseguenza è ineluttabile: gli eventi umani si collocano attorno a Lui – come attorno al loro centro – e si misurano con la forza divina di Lui».

Riconoscerci orientati a Cristo implica un’apertura senza riserve verso di lui, ma si compie solo nell’apertura senza riserve verso i fratelli. La prospettiva emerge, nel testo della Lettera ai Romani proclamato in questa liturgia, nell’invito a non farsi giudici gli uni degli altri. La riflessione di Paolo era nata infatti, all’inizio del capitolo 14 di questa Lettera, con la denuncia della divisione che si era creata nella comunità cristiana di Roma. Non entro qui nel merito delle cause di questa frattura; mi basta registrare che, secondo l’apostolo, la fraternità può essere rotta perfino facendosi scudo del nome di Cristo, in nome suo. Solo una completa consegna di sé a Cristo può mettere sulla strada dell’autentica edificazione nella fede. Possiamo cadere infatti nella tentazione di utilizzare Cristo per edificare se stessi. È quanto Papa Francesco ha più volte denunciato segnalando il pericolo di cadere vittime della mondanità spirituale, una tentazione che si oppone alla Chiesa “in uscita”, la Chiesa cioè che va in cerca dei segni della presenza di Dio nel mondo.

Di questa apertura è stato efficace testimone Giorgio La Pira, che anche nelle vicende più drammatiche del suo tempo, nelle guerre e nelle divisioni, cercava elementi di unità: «abbattere i muri, costruire ponti» era il suo principio ispiratore, ribadito in tante occasioni. In un’intervista del 1976 affermava: «Anche nel profondo della storia umana, così agitata nella superficie, vi sono delle grandi e misteriose correnti che trascinano in un senso ben preciso: verso l’unità e la pace. Bisogna saperle individuare».

Celebriamo questa Eucaristia in memoria di Giorgio La Pira mentre a Firenze sono riuniti sindaci di città di Paesi che vivono o hanno da poco vissuto in conflitto. Va ricordato che in questo scorrere della storia verso il porto della pace e dell’unità della famiglia umana, nel pensiero di La Pira un ruolo fondamentale è attribuito proprio alle città. «Le città – affermava in un discorso alla Croce Rossa, a Ginevra, nel 1954 – hanno una loro vita e un loro essere autonomi, misteriosi e profondi: esse hanno un loro volto caratteristico e, per così dire, una loro anima e un loro destino: esse non sono occasionali mucchi di pietre, ma sono le misteriose abitazioni di uomini e, vorrei dire di più, in un certo modo le misteriose abitazioni di Dio». E proprio a nome delle città colpite dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale La Pira faceva giungere il suo grido di pace: «Nessuno, senza commettere un crimine irreparabile contro l’intera famiglia umana, può condannare a morte una città!». Questo grido ha ancor oggi una sua tragica attualità per tutte quelle città ferite quotidianamente da attentati terroristici, guerre civili, forme di oppressione che limitano la libertà, civile o religiosa, di chi vi abita: anche oggi queste città possono gridare, con La Pira, che nessuno ha il diritto di ucciderle.

Tornando al testo dell’apostolo Paolo, ma anche alla luce delle parabole del vangelo di Luca, dobbiamo notare come una forma essenziale della totale consegna di sé al Signore e della disponibilità a riconoscerlo nel volto dei fratelli è la condivisione del cuore misericordioso di Dio, il quale non giudica nessuno perduto per sempre. Gesù mostra questo volto di Dio nelle parabole della misericordia. Questa misericordia non si pone confini e vuole abbracciare tutti. Ed è una misericordia che tocca ciascuno personalmente. Ciascun uomo e ciascuna donna sono una perla preziosa agli occhi e al cuore di Dio. Soprattutto quando sono poveri.

Sono convinzioni che guidavano Giorgio La Pira nella sua attività di sindaco: «Il nostro principio – affermava nel 1951, in uno dei suoi primi discorsi davanti al Consiglio comunale – è che nessuna persona a Firenze deve mancare delle cose più necessarie come il pane, il tetto, l’abito, la medicina». L’attenzione alle povertà materiali costituisce per La Pira il fondamento per consentire – soddisfatti i bisogni più elementari – «l’espansione integrale» della persona, rispondendo a un bisogno ancor più profondo: «Dare allo spirito dell’uomo quiete, poesia, bellezza!».

E in tutto questo, ancora una volta è centrale l’importanza delle città. La Pira sapeva bene che ogni città è una realtà fatta anche di solitudini, povertà, lacerazioni sociali, famiglie distrutte. Ma era anche fermamente convinto che è nel tessuto delle relazioni della comunità cittadina che ogni persona può trovare il proprio compimento e la propria pienezza. La città, affermava inaugurando il nuovo quartiere dell’Isolotto, è «la casa comune destinata a noi e ai nostri figli». «Amatela quindi – esortava La Pira – custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole. […] Fate, soprattutto, di essa lo strumento efficace della vostra vita associata: sentitevi, attraverso di essa, membri della stessa famiglia: non vi siano fra voi divisioni essenziali che turbino la pace e l’amicizia: ma la pace, l’amicizia, la cristiana fraternità, fioriscano in questa città vostra come fiorisce l’ulivo a primavera!».

Un auspicio che vorremmo possa diventare realtà per questa nostra città e per tutte le città del mondo.

Giuseppe card. Betori, arcivescovo di Firenze

Gualtiero Bassetti , Arcivescovo di Perugia e Città della Pieve

OMELIA IN OCCASIONE DEL XXXII ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SERVO DI DIO GIORGIO LA PIRA

Firenze, Basilica di San Marco, 5 novembre 2009

 

Siamo oggi a Ringraziare Dio per il dono grande di Giorgio La Pira, siamo qui nell’occasione del XXXII anniversario della sua morte convocati da Dio stesso che  ha manifestato la sua gloria nel Servo Suo.

Abbiamo ripetuto, nel responsorio del Salmo, «la gloria di Dio è l’uomo vivente» L’espressione che è di Sant’Ireneo prosegue spiegando che «la visione di Dio è la gloria dell’uomo». La Provvidenza ha voluto che oggi ascoltassimo questa parola e ci sembra che la stessa esperienza umana e cristiana di La Pira vi sia espressa.

Egli, potremmo dire, si metteva dalla parte del Paradiso, era uomo la cui fisionomia spirituale è tratteggiata dal salmo 26: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco; abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario. Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi».

Il Paradiso come realtà che ha orientato e spiegato tutta la vita del Professore, come la fonte dell’allegria, come la sorgente della forza (sappiamo quante avversità ebbe a sopportare con la forza di un leone), come il motivo della speranza (spes contra spem). Il paradiso come il fine della vita ma anche come già presente nella contemplazione di quel Dio da lui tanto cercato nella preghiera, nell’eucaristia, tanto amato nella Sua parola.

Di  paradiso ebbe a farne esperienza, in qualche misura, la notte di Pasqua del 1924, quando dopo la comunione sentì «nelle vene circolare una innocenza così piena, da non poter trattenere il canto e la felicità smisurata».[1]

Eppure, l’orientamento soprannaturale della sua vita, non lo ha rapito dalla terra: anzi la sua fu una personalità concreta, genialmente creativa.

Ripeteva spesso che «i veri materialisti siamo noi che crediamo nella risurrezione di Cristo», una fede che inclina coerentemente a prendersi cura di quello che Cristo stesso ha amato: «Cristo è anche uomo? Ma allora le cose dell’uomo sono cose di Cristo: i valori dell’uomo sono valori di Cristo: le pene e le gioie dell’uomo sono pene e gioie di Cristo»[2]. E ancora:  «La Pasqua è un fatto che pur trascendendo il tempo e lo spazio, il cosmo e l’uomo e la storia umana, è tuttavia come radicato nel tempo, nello spazio, nel cosmo e nella storia dell’uomo; trascende la realtà fisica, trascende la realtà umana e storica e tuttavia esso è inserito come lievito fecondatore, restauratore, orientatore di questa realtà cosmica, umana e storica»[3].

Operare nella storia è allora un vero e proprio prolungamento della salvezza che Cristo ha portato nel mondo non vivendo per se stesso né morendo per se stesso (Cf. Rm 14,7). Questa convinzione era, per Giorgio La Pira, davvero granitica. Il suo spendersi per tutti, il suo non vivere per se stesso è stato un vero e proprio atto di culto a Dio: l’amore concreto, fattivo al fratello è inscindibile dall’amore a quel Dio desiderato e amato.

«Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima verso le creature bisognose. Vi sono creature bisognose? Affamati? Assetati? Senza tetto? Ignudi? Ammalati? Carcerati? Bisogna tendere ad essi efficacemente il cuore e la mano (Matteo, 25,31-46): esempio di questa “propensione” all’intervento è fornito dal Samaritano: scese da cavallo e prese minutamente cura del ferito. E si badi: non si tratta soltanto (come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita dell’azione dei singoli: impegno di amore, cioè, che investe soltanto le singole persone: no, si tratta di un impegno che  parte dai singoli e che investe l’intiera struttura e l’essenziale finalità del corpo sociale»[4].

Questo significa non vivere solo per se stessi.

Il suo impegno a Palazzo Vecchio resta esemplare quanto al vivere per gli altri. «Tante altre famiglie  venivano a Palazzo Vecchio per esporre la drammaticità della loro situazione: povera gente sfrattata che cercava un tetto e un riparo. Cosa dovevo fare? Potrei uscirmene dicendo agli sfrattati: Mi dispiace ma io non posso farvi nulla  Il mio ragionamento — se devo prendere sul serio i miei doveri sostanziali di sindaco  — non può essere che un altro: non può essere che un “ragionamento” samaritano, di intervento: devo cioè cercare tutti i mezzi atti a sanare una situazione di pena che non comporta ritardo alcuno!» [5].

E se questa è la via di ogni riuscita umana, d’ogni vita che voglia dirsi sensata, lo è in maniera tutta particolare per chi è impegnato sul fronte della cura politica, istituzionale, amministrativa.

Oggi la carità fattiva di Giorgio La Pira che ha scelto i poveri sempre e con i poveri ha voluto morire, è contestazione implicita di ogni pigrizia, di ogni connivenza, di ogni omissione di chi potendo agire non agisce, di chi si allea con l’iniquità, di chi tradisce il mandato per il bene comune a motivo di privilegi personali o di parte, di chi fa alleanze con il male invece che con il bene, di chi ruba invece che amministrare, di chi amministra avidamente e resta inerte di fronte alla miseria dei più.

Nell’esercizio del governo della città e nel servire la pace internazionale, ebbe la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti [6]. Don Milani direbbe: I care, tu mi interessi! E oggetto dell’interesse di La Pira fu la persona umana in ogni situazione di umanità diminuita, di povertà. Stare dalla parte di chi non ha e di chi non è, sempre!

Il patrono della Cattedrale di Perugia è san Lorenzo, il diacono martirizzato a Roma dopo aver presentato all’imperatore che gli chiedeva conto dei tesori della chiesa, i poveri e gli straccioni dell’urbe. Non posso qui, oggi, non ripensare al giovane negro di Harlem che intona un canto sulla bara di La Pira dando così voce agli ultimi della terra, non posso non ricordare che furono gli operai della Pignone (la sua Pignone) a sollevare la bara del loro Sindaco al termine della liturgia funebre: come Lorenzo, scelse anch’egli i suoi tesori, la sua compagnia.

Oggi il nostro Sindaco è in mezzo a noi vivente, sempre vivo per intercedere per noi (cf. Eb 7,25) e la sua preghiera efficace sostiene la nostra fatica e fa lievitare la nostra speranza trasformandola in allegria; ma lui stesso ci chiede di non fermarci a lui, e di riconoscere il motivo della sua gioia che consiste nell’amore misericordioso di Dio, un amore che cerca i suoi figli, che li raggiunge, (ci raggiunge), nei deserti della vita dove non trovano, (non troviamo) più la strada. Siamo noi la dramma perduta, siamo noi la pecorella smarrita, ma siamo sempre noi la festa di Dio: in fondo è questo il paradiso.

La gioia di La Pira, la sua allegria contagiosa  e disarmante, mai superficiale, nasceva dal sapersi salvato, dal sapersi ritrovato da Dio, dalla certezza che non v’è peccato, non v’è miseria morale capace di arrestare l’amore di Dio per la sua creatura. L’amore è sempre più forte della morte, Se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Se Dio ha attraversato i deserti dell’umanità per ritrovarci, se accetta di essere pensato come una povera donna che ripone tutta la sua ricchezza in una dramma, se vuole essere conosciuto come pastore al quale non affideremmo mai il nostro gregge (lasciare novantanove pecore per cercarne una … assolutamente inaffidabile per il tornaconto umano), se insomma Dio è totalmente in nostro favore, ebbene allora l’eccomi  del Sindaco Santo è davvero la risposta più sensata e razionale che l’uomo possa dare alla questione della vita e della morte.

Facciamo festa per questa buona notizia che è, in ultimo, la vera ragione del nostro essere qui, perché è la nostra santità, la nostra umanità pienamente fiorita, il sogno di Dio per noi. Non siamo venuti a commemorare un grande del passato, o ad ammirare un personaggio bello sì, ma comunque altro da me. Siamo qui per rispondere eccomi alla voce di Dio che ci interpella personalmente, siamo qui per riaffidare la nostra povertà alla estrema potenza di Dio perché anche la nostra vita deve fiorire come è fiorita quella di La Pira. Francesco d’Assisi, tanto amato dal Professore, alla fine della vita ai suoi frati disse: Io ho fatto la mia parte, Cristo vi insegni a fare la vostra.

Oggi, nella persona di La Pira, Cristo ci mostra ancora la via: coraggio allora e in cammino fino al compimento dell’amore, quando alla sera della vita possa compiersi anche per noi quello che la Chiesa prega al termine del rito delle esequie: che ognuno di noi, redento dalla morte, assolto da ogni colpa, riconciliato con il Padre, e recato sulle spalle dal buon Pastore, partecipi alla gloria eterna nel regno dei cieli.

La Vergine Maria patrona dei poveri, Donna del Paradiso, cammina con noi e ci indica la strada al monte del Signore  (Is 2,3), il suo passo sostenga il nostro, la sua cura supplisca la nostra debolezza e ci accolga là dove, finalmente, non si impara più l’arte della guerra (cf. Is 2,4).

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[1] G. La Pira, «Lettera a Salvatore Pugliatti» Settembre 1933, in Lettere a Salvatore Pugliatti,  138.

[2] G. La Pira, «Anche Cristo è un uomo», 1954, in Coscienza,  8.

[3] G. La Pira, «Fede, Speranza e Carità», 1950, in Le città sono vive, 164.

[4] G. La Pira, «Una società cristiana permette», 1953, in Giorgio La Pira sindaco, I,  297.

[5] G. La Pira, «Mi denunzieranno per gli sfrattati?», 1995, in Giorgio La Pira sindaco, II,  23-24.

[6] BENEDETTO XVI, Omelia d’inizio pontificato, 24.05.2005.

[7] GIOVANNI PAOLO II, Sollecitudo rei socialis 38.

PER LA PIRA – 5 Novembre 2019

 

 

La Fondazione La Pira mi fa un complimento – forse anche un complimento alla mia vecchiaia – facendomi presiedere, a San Marco, la celebrazione della Messa nell’anniversario della morte di La Pira. Li ringrazio e ringrazio anche tutti voi che siete qui presenti.

     Nel luglio dell’anno scorso – luglio 2018 – Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto che riguarda le virtù eroiche del «sindaco santo» di Firenze Giorgio La Pira.

Vorrei partire di qui, da questa “venerabilità” di La Pira già riconosciuta dalla Chiesa. Sottolineare intanto i tempi rapidi del processo canonico di La Pira,  tenendo conto anche del materiale enorme – scritti, lettere, pubblicazioni, avvenimenti – che sono stati esaminati.

     In genere il cammino non è così rapido. Il Card. Newman è stato canonizzato da Papa Francesco tre settimane fa ed è un personaggio di assoluto rilievo nel rapporto tra la Chiesa cattolica e gli Anglicani, ma è un uomo dell’Ottocento.

     Se sottolineo i tempi rapidi del processo canonico di La Pira  è solo per dire che la Chiesa, di questa canonizzazione, ne avverte il bisogno. Ne  ha bisogno lei, la Chiesa, ne ha bisogno l’Italia e ne ha bisogno il mondo.

La Pira è una personalità singolare. Se Dio ci vede tutti in qualche luogo del vangelo, come diceva Bernanos, La Pira l’ha visto certamente sul monte delle beatitudini. C’è una sua bella lettera del 1967 alle Suore di clausura – le claustrali, che, si sa, erano le sue confidenti – dove scrive per dir loro che è in partenza. Andrà in Terrasanta. “Salirò sul monte delle beatitudini, davanti al lago di Tiberiade,  per “riascoltare” il discorso del Signore, il discorso delle beatitudini”.  “Riascoltare”  La Pira  lo metto tra virgolette.

         Sul monte delle Beatitudini, in altro modo, La Pira era già salito nella Pasqua del 1924, a vent’anni, a Messina. E’ quella la sua prima Santa Pasqua: un’esperienza mistica che è all’inizio del suo cammino di fede.

Ne parla in una lettera all’amico Pugliatti del settembre 1933: “Io non dimenticherò mai quella Pasqua 1924 in cui ricevei Gesù Eucaristico: risentii nelle vene circolare una innocenza così piena da non poter trattenere il canto e la felicità smisurata”. Ne ferma l’evento sulla prima pagina del Digesto di Giustiniano, lo strumento di lavoro fondamentale per suoi studi di romanistica:

                   Anno 1924  

Con la mente più chiara / e l’anima aperta / in attesa di un venire cui la speranza non ha mai cessato di tendere e la Fede mai cessato di sollevare. /  E sempre con umiltà.

 A 20 anni: epoca di luce e inizio di Unione col Maestro 

   1° S. Pasqua.        

             Un linguaggio mistico, l’unico adatto ad esprimere ciò che è di per sé ineffabile: l’esperienza di Dio. Dossetti, nella Commemorazione tenuta a Palazzo Vecchio il 5 novembre 1987, la paragona a quella che fu per S. Francesco l’esperienza di San Damiano o per S. Ignazio di Loyola l’esperienza di Mamresa.

         “Allora nasce  La Pira – “esploratore del Paradiso, lui dirà – libero apostolo del Signore – annunciatore del Vangelo della grazia”.

                  Parlerà di Gesù, così lo chiama lui dovunque, quando parla e quando scrive: Gesù.

         E, scriverà tantissimo, un po’ su tutta la  stampa cattolica… Una Suora del Carmelo di Firenze, che legge questi scritti di La Pira,  invia una lettera al settimanale per ringraziare il reverendo che dice cose tanto belle. Lui risponde alle riflessioni della suora. E, alla fine si rivela: “Un’ultima cosa: io non sono sacerdote come Ella ha supposto: Gesù non ha voluto e non vuole questo da me! Sono solo un giovane cui Gesù ha fatto una grazia grande: il desiderio sconfinato di amarlo e di farlo sconfinatamente amare..”. 

         Anche il linguaggio di La Pira negli anni giovanili, se si fa riferimento alle lettere ai familiari, agli articoli su Il Carroccio, su Gioventù italica, o anche alla Vita di Vico Necchi e poi in quella di don Moresco, pur sostenuto sempre da una solida base teologica e spirituale, è un linguaggio caldo, affettivo, da innamorato. E’ Gesù – anche l’umanità di Gesù – che egli contempla.

Vittorio Peri, per ricordare uno studioso serio, vede anche un’altra data che fa da spartiacque: l’epifania del 1951 a Roma, alla Messa nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella, la Chiesa di San Filippo Neri. E’ l’Epifania e, quindi, arrivano i Magi e nei Magi egli vede i popoli che arrivano: si sente come affidata una singolare missione per l’unità e la pace. “Un messaggio di liberazione, di giustizia e di pace da portare «alla Russia sovietica, agli arabi, ai popoli dell’Africa nera che sono in fase di crescenza storica e di promozione storica, a tutti i popoli del mondo»…

         Due date dunque. Sarebbe anche un errore interpretarle in maniera rigida, schematica, come due inizi. Non ci sono due inizi o tanto meno due conversioni. C’è un solo cammino, il cammino del discepolo che segue il Maestro, un cammino nella preghiera e nella contemplazione fatto con una docilità e una libertà assolutamente straordinarie.

  1. Caterina da Siena dice che S. Tommaso d’Aquino imparò la teologia «più col mezzo dell’orazione che per studio umano». Non so se è vero. Certo qualcosa di simile avviene in La Pira che ha una singolare intensità di preghiera. Chi ha avuto la fortuna di vederlo una volta pregare non lo dimentica più. «Dio – dice l’apostolo Paolo – rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). Nella Vita di Vi­co Necchi, libro che fu commissionato a La Pira da Padre Gemelli e che, direi, è un libro di grande valore “autobiografico”, egli scrive: «La storia della santità è storia dell’amore che ha consumato le anime alla pronunzia del dolcissimo nome di Gesù».

         Il segreto di La Pira è proprio questo amore straordinario con cui guarda  Gesù, l’umanità di Gesù, il volto del Signore. La sua fede non è un pensiero astratto, è un’esperienza. E vuole che sia così per tutti: quasi experimentalem Dei notitiam, ripete insistentemente. Chi lo accompagna in questo cammino? La Bibbia e la Summa di S. Tommaso d’Aquino sono i suoi libri. Poi ce ne sono tanti altri – c’è il Fornari, c’è Scheeben, Bossuet, Blondel, Marmion, Feret… ma gli serviranno soprattutto per provare la validità del suo discorso.

         E ancorata alla Bibbia è la sua concezione dell’uomo e della storia. Della Bibbia, soprattutto, l’apostolo  Giovanni  e  l’apostolo Paolo, per dire  i due mistici del Nuovo Testamento, perché il linguaggio dei mistici è il suo linguaggio e, dei mistici, c’è in lui, fortissima, l’esigenza a unificare e sperimentare.

         Unità e fisicità: «Quello che le nostre mani hanno toccato…» (1 Gv 1,1).

          

Nel 1934 è nata la Messa dei poveri a San Procolo

        La Pira a questa Messa sarà fedelissimo. Anche nel 1944, nei mesi in cui deve rifugiarsi a Roma, quella di San Procolo rimane una preoccupazione costante. Cerca anche di esportare in varie chiese della periferia romana – riferisce Vittorio Peri – questa Messa dei poveri stile fiorentino, non senza incontrare resistenze e ironie. Ne scrive sull’Osservatore Romano e sull’organo degli universitari cattolici Ricerca. “San Procolo, e poi Badia, Santo Stefano al Ponte, Santi Apostoli (ma si continuò sempre a dire San Procolo) – scrive in una bellissima pagina Fioretta Mazzei, – fu il suo punto di riferimento fisso, ogni domenica, per quarant’anni e più, perché vi andò fino all’agosto ’77; abbiamo registrato le sue ultime Ave Maria in quella chiesa. San Procolo fu soprattutto il suo riferimento mentale e spirituale, la sua famiglia in qualche modo. Come si trovava con loro non si trovava con nessuno. Quante volte San Procolo rimase il lievito ed anche, in piccolo, il modello di ogni sua azione, come il cerchio centrale di cerchi concentrici più vasti: l’Eucaristia e le genti”. “L’Eucaristia struttura i popoli”. L’universalità dei popoli intorno al Sacramento pensato da Gesù come sacramento di unità universale.

         Una famiglia sola: ut unum sint. Una famiglia a cominciare dagli zoppi, i ciechi, i poveri del mondo, come dice la parabola; sotto certi aspetti i più capaci di intendere, quelli che non rifiutano: compelle intrare. Per capire La Pira, anche a scala mondiale, bisogna riflettere su queste cose. I popoli poveri… i non allineati di Bandung, i paesi della fame, tutti idealmente rappresentati a San Procolo…

         C’è anche  una “conversione” di La Pira alla politica  nel 1936. E’ stato qualche tempo in Sicilia  dove P. Gemelli gli ha consigliato di andare per riposarsi. Al ritorno  prende dimora nel Convento di San Marco nella famosa cella n° 6 che i PP. Domenicani gli mettono a disposizione. Ha già una visione chiara di quello che sta succedendo: il nuovo impegno ideologico del fascismo, le leggi razziali, la guerra che si sta preparando. “Non basta rifugiarsi nella preghiera”, dirà. Non si può vivere la religione come fatto privato. Sta già nascendo il La Pira de La nostra vocazione sociale. “Non basta la vita interiore; bisogna che questa vita si costruisca dei canali esterni destinati a farla circolare nella città dell’uomo. Bisogna trasformare la società”   

         Nel Diario di Piero Calamandrei il nome di La Pira torna tante volte: per comuni prese di posizione: “…allora La Pira ed io abbiamo cominciato a urlare…” ( 9 – IX – 1939 );  o, quando la Francia sta per crollare per l’invasione tedesca, “La Pira mi dice che i tedeschi non possono vincere perché milioni di creature innocenti pregano”. Buon La Pira: eppure chissà che questa intensità di pensiero e di fede che sale da tutto il mondo non abbia qualche suo peso misterioso contro la selvaggia mistica dei tedeschi” (18 – V – 1940).

                  Ma Gesù rimane sempre l’avvenimento definitivo – il fattocome ama dire La Pira anche nell’ultima commoventissima lettera a Paolo VI.  Ed è Lui, Gesù, ad inaugurare un tempo e uno stato nuovi e definitivi.

         Chiudo raccogliendo un brano – la finale – di un articolo che scrissi per Avvenire, pubblicato il giorno dei funerali di La Pira. Scrivevo: “Vorrei aggiungere una notazione ultima sullo stile con cui il cristiano La Pira ha portato avanti la sua battaglia: aperto, ottimista, in positivo, mai rancoroso, legato ad una testimonianza di vita umile e coerente. Anche questo stile faceva di lui un autentico uomo di comunione. La Pira non ha mai saputo polemizzare con nessuno, neanche con La Nazione: mai contro. Un uomo di pace ma senza falsi irenismi, con tutti i valori cristiani in evidenza, dalla Grazia, ai Sacramenti, alla Chiesa, alla Madonna, al Papa, al Vescovo: ma nella pace. Una pace che era segno visibile e riconoscibile dello Spirito: un suo carisma, come era un carisma la sua povertà. Era impossibile non vedere. Perché i doni dello Spirito Santo operano  con modalità fuori dell’ordinario e non è possibile confonderli”.

Don Gian Carlo Perego

Direttore generale Migrantes

Un cordiale saluto e un grazie al presidente della Fondazione Giorgio la Pira per avermi invitato, come direttore della Migrantes, a presiedere questa celebrazione eucaristica, nella memoria del servo di Dio Giorgio La Pira. La Parola di Dio quest’oggi è dura, indica provocatoriamente che la qualità dell’amore a Dio del discepolo supera la qualità dell’amore umano, familiare. Al tempo stesso, la Parola ci conforta con Paolo che il disegno d’amore di Dio è intelligente. In ogni discepolo del Signore noi incontriamo sempre amore e intelligenza, capacità di donare e discernimento camminare insieme. Anche in Giorgio La Pira. La Messa del povero, che noi ricordiamo ancora 80 anni dopo, ne è un esempio: l’amore a Dio, che l’Eucaristia alimenta, genera una nuova prossimità ai poveri, nuovi “colloqui con i poveri”, come scriveva nel 1941 l’amico Fanfani, ma anche una lettura intelligente della povertà, come farà La Pira nel 1951 con “L’attesa della povera gente”.

Eucaristia e attesa della povera gente

“Per quel vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri” – ricordato da Papa Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium (n.48) – alla messa arrivano le attese della povera gente, che ritrovano una “fraternità” realmente costruita dal Signore e che impegna ogni cristiano a non guardare altrove, a non passare oltre, ma a ritornare in città portando nel cuore le sofferenze dei poveri, ma anche il desiderio di una prossimità rinnovata. Come ricorda la costituzione conciliare sulla Liturgia, i fedeli sono chiamati a esercitare “tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, attraverso le quali si renda manifesto che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini” (n.9).

L’amore, la carità di Cristo – che è l’Eucaristia – genera una Chiesa capace di amare. Un amore che si rivolge all’interno e che fa della Chiesa una fraternità, un’agape, una comunione (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis n.15). Un amore e una carità di Cristo che dall’Eucaristia “forma” un’esistenza nuova del credente, aiutandolo a rileggere i momenti e le scelte della vita alla luce di Cristo (sacramenti), a ripensare il proprio stile di vita alla luce di alcuni valori (gratuità, pace, riconciliazione), a valorizzare il senso del limite (dolore, sofferenza e morte), a camminare sulle strade del mondo come portatori di una speranza e di una civiltà nuova. Un amore e una carità che dall’Eucaristia rende attenti i fedeli anche alle persone più deboli e in difficoltà. Gli infermi i carcerati, i migranti sono tre categorie di persone alle quali guardare con una preferenza nelle nostre comunità anche a partire dal dono dell’Eucaristia (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, nn.58-60). L’unione con Cristo che si realizza nel Sacramento ci abilita anche ad una novità di rapporti sociali: «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale», scriverà Benedetto XVI nell’enciclica Sacramentum caritatis (n.89).

Alla messa del povero di S. Procolo chi partecipava imparava come lotta alla povertà, alla disoccupazione erano i segni concreti di una Chiesa povera e dei poveri, ma anche di una “repubblica”, di una “democrazia” che nascevano dalla comunione eucaristica. La “repubblica di S. Procolo” – come amava chiamarla La Pira – era il segno di una Chiesa in comunione e in cammino come la Chiesa delle origini: il modello che negli stessi anni ispirava  cristiani e santi come don Saltini, don Monza, don Mazzolari, don Dossetti, don Prandi, don Torregiani, don Facibeni, don Barsotti, don Milani. I poveri – scriverà ne L’attesa della povera gente La Pira “sono il documento vivente, doloroso, di una iniquità nella quale si intesse l’organismo sociale che li genera: sono il segno inequivocabile di uno squilibrio tremendo – il più grave fra gli squilibri umani dopo quello del peccato – insito nelle strutture del sistema economico e sociale del paese che li tollera: essi sono la testimonianza della ulteriore sofferenza che gli uomini (i credenti) infliggono a Cristo medesimo (“lo avete fatto a me”)”.

La Messa del povero inaugurava una “comune” frutto della comunione con Dio, teologica e non anarchica. “Piccolo paradigma – scriverà La Pira – di cristianesimo sociale”, gioioso. La messa del povero è una rinnovata  “moltiplicazione dei pani”, dirà la Pira. E pensando alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, dobbiamo riconoscere che Cristo ancora oggi continua ad esortare i suoi discepoli ad impegnarsi in prima persona: “Date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16). Davvero la vocazione di ciascuno di noi è quella di essere, insieme a Gesù, pane spezzato per la vita del mondo (cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n.88). Combattendo anche gli sprechi, come si ricorda nella moltiplicazione dei pani.

Eucaristia e Mediterraneo

Dalla Messa del povero l’attenzione agli ultimi, con i colloqui del Mediterraneo, attraverserà il Mare nostrum, per arrivare in Africa, nel Medio Oriente e raccogliere le attese della povera gente più lontana, ma anche per costruire cammini di pace e di giustizia, di cooperazione e di sviluppo. Dal “microcosmo fiorentino” l’attenzione agli ultimi arriverà al “macrocosmo dei popoli e delle nazioni”. Una forza provvidenziale che – scriverà La Pira a conclusione del Terzo colloquio del Mediterraneo, il 24 maggio 1961 – “insieme abbatte e costruisce: abbatte l’otre vecchio dei regimi coloniali, dei regimi razzisti, dei regimi oppressori, dei regimi di miseria ed edifica (anche se in mezzo a mille resistenze rallentatrici) l’otre nuovo destinato a contenere il vino nuovo della sostanziale eguaglianza e fraternità e libertà dei popoli: una eguaglianza ed una fraternità ed una libertà che traggono valore e saldezza da quella comune paternità divina che fa di tutti gli uomini, in maniera essenziale, i figli e i fratelli di una sola famiglia”Cosa direbbe oggi La Pira di fronte ai 150.000 siriani, eritrei, palestinesi, somali, ghanesi, nigeriani, e di altre nazionalità, 23.000 dei quali minori, 12.000 minori senza famiglia che hanno attraversato il Mediterraneo in fuga da guerre e dittature e sono arrivati prima sulle coste della Sicilia, anche sulle coste della sua Pozzallo – dove ieri sono sbarcati ancora 329 migranti, tra cui 74 minori, 26 donne, cinque delle quali in cinta – nei porti della Calabria, della Campania e della Puglia e poi nelle nostre città. Parlerebbe di “grazia” o di “disgrazia”? Inviterebbe a un supplemento di gratitudine eucaristica, di fraternità o ad alzare muri e chiudere le porte delle città? Cosa penserebbe guardando a un Mediterraneo che da “strada di dialogo”, “ponte tra Oriente ed Occidente” è diventato – per parafrasare il titolo di un’opera di Bernanos – “un cimitero sotto la luna”, con oltre 3000 morti nel 2014 e, Dio solo sa, quanti morti nel 2015 con l’indebolimento di un accompagnamento dei migranti in mare? Come Papa Francesco, La Pira ci ricorderebbe che questi nostri fratelli e queste nostre sorelle migranti sono “la carne di Cristo”.

Eucaristia e nuovo umanesimo

Dalla Messa del povero nasce un nuovo umanesimo, che guarda a ogni persona e pensa a una società  come “una casa di grazia e di pace – sono sempre parole di La Pira – ed ove c’è per tutti una dignità, un posto e un pane”. Un umanesimo che porta La Pira a salutare l’annuncio del Concilio dato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, come l’occasione, lo strumento per costruire l’unità e la pace del genere umano. Un umanesimo conciliare che La Pira sognava avesse una tappa celebrativa anche a Firenze, con una visita del Papa, dei vescovi e degli osservatori – anche ebraici e islamici -“a S. Maria del Fiore ed a S. Maria novella (ove è sepolto il Patriarca di Costantinopoli) in ricordo e quasi in collegamento col grande, drammatico e prefigurativo Concilio di Firenze” del 1439. A cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II, il sogno di La Pira potrà trovare in qualche modo la sua realizzazione nel Convegno che la Chiesa italiana celebrerà a Firenze, nel novembre 2015.

Conclusione: crescere nella condivisione

«Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica, e tuttavia una grande parte degli abitanti del globo è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria…» (G.S. 4) . Queste parole del Concilio Vaticano II ripresentano l’attualità della messa del povero: di luoghi eucaristici dove si celebra e s’impara la condivisione. “La fame di pane nel mondo – scriverà Padre Pedro Arrupe – sarà saziata solo quando l’uomo imparerà a vivere non esclusivamente per sé, ma anche per gli altri, come ha fatto Cristo. Sarà saziata solo quando la legge interiore dell’amore, e non semplicemente l’interesse personale, la cupidigia e l’ambizione, governerà la nostra esistenza individuale e collettiva, ispirerà la nostra politica e regolerà le nostre strutture e istituzioni sociali. La fame di pane nel mondo sarà saziata solo quando l’uomo imparerà ad aver fame di Dio: del suo amore e della sua giustizia” (P. Arrupe, Eucaristia e fami del mondo, Roma, ADP, 2001). “Quando tanti popoli hanno fame – ribadirà Paolo VI nella Populorum progressio – quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nella ignoranza, quando restano da costruire tante scuole, tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi”  (n.53). L’umanesimo cristiano che si nutre alla mensa eucaristica alimenta anche questo impegno di denuncia, come atto di amore all’uomo. E a distanza di 80 anni scopriamo come La Pira – con S. Paolo – non ha corso e faticato invano, ma ha aperto la strada: una strada sulla quale ciascuno di noi, sostenuti dal pane eucaristico, siamo chiamati a camminare, a correre, anche con fatica.

Omelia del Cardinale Saraiva Martins 
TRENTESIMO DELLA MORTE DI LA PIRA

 

1. Sono venuto con grande piacere in questa splendida basilica e mi unisco con gioia alla letizia della Chiesa di Firenze  che oggi, 5 novembre, fa memoria dei suoi santi, i santi fiorentini e quelli delle altre diocesi della Toscana: onorandoli tutti insieme, quelli anche canonizzati dalla Chiesa ma la cui memoria non ha trovato posto nel calendario liturgico e quelli, rimasti anonimi, certamente i più numerosi. I santi sono il patrimonio più prezioso di una Chiesa Diocesana. Sono frutto dell’albero della vita, del Verbo Incarnato Redentore,  dice Santa Caterina da Siena, “e benché vadano per diverse vie, tutti corrono per la strada del fuoco della tua Carità”. E’ ben giusto, quindi,  ringraziare il Signore per questi doni mirabili di santità che Egli ha fatto germogliare nella sua Chiesa.

La celebrazione che ho la gioia di presiedere si svolge in questa basilica di San Marco, dove è particolarmente vivo il ricordo  del grande Arcivescovo Antonino Pierozzi, del Beato Angelico, di Girolamo Savonarola. Si svolge – ed è una coincidenza significativa e vorrei dire provvidenziale – nel trentesimo anniversario della morte di Giorgio La Pira, questa straordinaria figura di cristiano che nel Convento di San Marco ha vissuto, terziario domenicano fedelissimo alla sua consacrazione e sindaco della vostra città,  profeta della pace e dell’unità  tra i popoli.

La Pira è un’altra delle stelle che splendono nel cielo di Firenze, quella Firenze che lui amava definire: “città teologale, città di perfetta bellezza, perla del mondo”[1]. I santi sono il Vangelo vissuto. Il Vangelo, diceva san Francesco di Sales, è come lo spartito musicale dove sono scritte le note della partitura; ma i santi sono l’esecuzione musicale, sono la musica cantata: ce la fanno gustare. E La Pira questa melodia straordinaria l’ha fatta sentire davvero e non solo  a voi fiorentini: veramente luce sul candelabro, città sul monte e perciò è ben giusta l’attesa trepidante che venga presto il giorno in cui la sua luce possa illuminare in tutta la chiesa, con la sua elevazione all’onore degli altari.

 

2. Nella prima lettura testé proclamata (I Cor. 12,4-11)  il capitolo 12  della Prima ai Corinzi, l’apostolo Paolo  ci invita a riflettere sul mistero della Chiesa corpo di Cristo: un solo corpo, pur formato da molte membra,  arricchito da tanti doni, da tanti carismi, tutti ugualmente provenienti dall’unico Spirito. “Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o  greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito”. Il corpo di Cristo, di Cristo Risorto! Che rilievo straordinario ha avuto, nell’esperienza cristiana di Giorgio La Pira, nel suo apostolato, nella sua testimonianza la riflessione sul mistero della Chiesa, Corpo di Cristo, strumento di salvezza per tutti i popoli!

Ho potuto leggere in questi giorni la lettera che La Pira invia, in data 30 agosto 1971, giorno della festa di Santa Rosa da Lima. Il nome della santa, come La Pira è solito fare, è annotato scrupolosamente, accanto alla data, in fondo alla pagina. La lettera è inviata a mons. Carlo Maccari a quel tempo arcivescovo di Ancona e segretario della Commissione Episcopale per l’Azione Cattolica. La lettera è un documento di grande impegno: raccoglie non solo la visione teologica e spirituale di Giorgio La Pira ma è anche una pagina di forte sapore autobiografico, dove è riassunta la sua esperienza di laico cristiano e la sua vocazione di testimonianza nel mondo.

La Pira parte da una domanda che nella sua esperienza è una domanda fondamentale: Il senso della storia.  “In questa fine estate 1971 – scrive La Pira – la speranza di Cristo, della Chiesa, della storia  costituiscono ancora (come sarà sempre!)  il tema della comune riflessione cristiana: “Chi siamo? Dove va la barca della Chiesa? Dove va la barca (è la stessa!) della storia?”.

 

3. La speranza. L’inizio della lettera è nel segno della speranza, la speranza teologale ed  è già tanto significativo per cogliere quello che è stato forse il vero carisma di La Pira: la sua capacità di essere testimone della speranza cristiana, dovunque, nella Chiesa, nella vita pubblica, nel mondo. Giustamente la Chiesa italiana, al Convegno di Verona dello scorso anno, incentrato proprio su questo  tema, ha scelto La Pira tra i suoi testimoni. Qual è la speranza di La Pira? Dove si appoggia? Diciamo subito che  non è un sentimento vago, una nota di ottimismo  più o meno ingenuo che fa parte del suo carattere. La speranza per La Pira ha un volto preciso: è una persona. E’, come per l’apostolo Paolo, “Cristo Gesù  nostra speranza” (I Tim. 1,1). E’ Gesù Cristo morto e risorto. Anche lui, come l’apostolo Paolo, ci dice con la stessa tranquilla sicurezza, con la stessa forza: “So a chi ho creduto” ( II Tim. 1,12) L’incontro con Cristo, secondo quanto lui stesso confida, si fa risalire alla Pasqua del 1924, La Pira aveva vent’anni. La data la metterà in grande evidenza sulla pagina del suo Digesto:  A 20 anni: epoca di luce e inizio di Unione col Maestro. 1° S. Pasqua. Un incontro definitivo, senza rimpianti, senza compromessi. Un laico cristiano, convinto della sua vocazione, che sceglie Cristo Gesù e sceglie per tutta la vita.  “Sono solo un giovane – dirà – cui Gesù ha fatto una grazia grande: il desiderio sconfinato di amarlo e di farlo sconfinatamente amare” [2].

La visione di La Pira è una visione di fede. Muove dalla fede. Muove dalla confessione di Pietro: Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente.

Cristo, il Figlio del Dio vivente è, per lui, il punto fermo, il punto assiometrico, il punto di Archimede nel mondo. “Cristo Risorto (fisicamente risorto: tomba vuota) è “il fatto” (l’evento) che condiziona – finalizzandola – tutta la creazione fisica e storica”, scrive La Pira. Ora questa risposta si tratta di situarla, di collocarla  “nel contesto dell’età presente”. E “proprio partendo da questo contesto si tratta di annunziare il mistero di Cristo risorto, fonte dell’acqua viva, destinata a bagnare tutta la terra, tutti i secoli, tutti i popoli e tutte le civiltà”. La Pira ci ripropone, con la forza con cui ha saputo compierlo nella sua giovinezza, il suo atto di fede in Cristo: la scelta di Pietro, la scelta della sua giovinezza. E’ Cristo la nostra speranza, la speranza del mondo.

 

4. La seconda scelta da fare, nella visione di La Pira, è quella che lui chiama la scelta della samaritana: la scelta della grazia. La Pira ha una forte dimensione mistica. Cristo Risorto è venuto a partecipare a tutti gli uomini la vita soprannaturale. “La Samaritana, scrive ancora a Mons. Maccari, ha scelto quest’acqua”. Il 1971 fu  tempo di contestazione: una contestazione che si avverte anche all’interno della Chiesa. Il secolarismo la sta contagiando. La teologia della liberazione insiste molto sull’azione sociale e politica. Commuove, perciò,  la fedeltà di La Pira, la convinzione che non è possibile operare senza Cristo, che solo la grazia è efficace. Scrive a Maccari: Fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te. Questa “legge agostiniana” è  oggi in certo senso più obbligante e più urgente di ieri… C’è una grande domanda di Dio “nei mercati del mondo”. E’ una scelta, quella della Samaritana, che include il tema della preghiera, della vita interiore, dell’ascesi, dell’unione interiore,”mente et affectu”, con Dio presente in noi. L’esperienza mistica di La Pira è di valore altissimo: le lettere alle claustrali, insieme alle lettere al Carmelo sono pagine  che appartengono – ormai – alla storia della spiritualità cristiana tra le più alte del nostro tempo.

Scrive, per citare un esempio, in una lettera ad una suora del Carmelo di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi: “L’essenza della santità  e quella dell’apostolato è questa:  essere una trasparenza di Dio, investiti della sua luce, penetrati dalla sua carità”. [3] E ancora “Il cielo non è solo il Regno del Padre celeste, della Trinità, degli angeli: è il Regno dei risorti… Il cielo è casa nostra, abitazione nostra, città nostra…”. [4] La Pira è un uomo di preghiera, che crede nella preghiera. La mobilitazione di tutte le suore di clausura del mondo associate nella preghiera alla sua azione per la pace, per la giustizia, per l’unità dei popoli obbedisce a questa convinzione.

 

5. L’altro caposaldo, nella visione teologica e spirituale di La Pira, è la Chiesa, la Chiesa cattolica. E’ l’altro punto fermo, è quella che, nella lettera a mons. Maccari, egli chiama  la scelta di Cesarea.

“Cristo sceglie qui a Cesarea, “città romana” non solo il capo della Chiesa, ma anche la sede centrale della Chiesa, sceglie Roma. (…)  Proprio oggi – aggiunge La Pira – in questa età caratterizzata dalla inevitabile “unità e cattolicità” dei popoli, l’unità romana della Chiesa cattolica assume un’importanza essenziale appunto per la unificazione, pacificazione e promozione del mondo”.

La Pira è uno dei primissimi ad aderire alla Comunità dei Missionari della regalità, fondata dal P. Gemelli. Questa vocazione e consacrazione come missionario della regalità di Cristo La Pira non la rinnegherà mai.  Come missionario egli si sente a servizio della Chiesa. E’ un laico cristiano, che conosce la Summa teologica di San Tommaso d’Aquino, che ne fa oggetto continuo di studio e riflessione, che custodisce gelosamente e professa con assoluta fedeltà tutto il patrimonio di fede così come è definito dalla Chiesa cattolica. Ha scritto pagine di grande profondità e rigore teologico: memorabile il suo saggio, comparso su Cronache sociali, quando, nel 1950, fu definito da Pio XII il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima al cielo.  Eppure veste l’abito laico in modo convinto. Vuole, come missionario della regalità, rimanere laico per poter essere con più efficacia missionario nel mondo. Essere laico significa servizio alla Chiesa nella testimonianza al Vangelo, ma senza chiedere privilegi, protezioni o riconoscimenti. La Pira agisce in nome proprio, con un progetto di cui si assume la responsabilità, progetto che privilegia gli spazi ancora inesplorati dei popoli nuovi: ubi Christus non est nominatus. La Pira è convinto che questo servizio, questo apostolato, da laico può farlo meglio con più libertà e credibilità.

 

6. L’ultimo punto, l’ultimo  caposaldo della visione spirituale e teologica di La Pira è quella che lui, nella lettera a Mons. Maccari, chiama la scelta di Nazaret, la scelta di Isaia. Isaia è il suo profeta, il profeta della pace e della giustizia. La Pira fa qui riferimento al discorso programmatico del Signore nella sinagoga di Nazaret così come è riferito nel vangelo di Luca al capitolo 4. “A Nazaret – scrive – nel suo “discorso programmatico” (il primo!) il Signore indica “le frontiere di Isaia”,  “la Terra promessa” della unità, della pace, della liberazione da ogni oppressione dei popoli di tutta la terra. Il cammino della storia – sotto il sogno vivificante e orientatore dello Spirito Santo; di Cristo Risorto, della Chiesa, avrà, come suo punto terminale, la pace, l’unità e la promozione e liberazione terrestre dei popoli”.

Questo è il La Pira politico. La Pira ha avuto in questo senso un ruolo veramente profetico. Tutta la sua azione come sindaco di Firenze e come uomo politico è volta a costruire l’unità della famiglia dei popoli: i popoli che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo uniti dal “destino” comune di famiglia abramitica ma anche di tutta la famiglia umana.  Siamo tornati al punto di partenza: Cristo Risorto,  l’attrazione verso Cristo, Cristo come “la chiave, il centro, il fine di tutta la storia umana”. E’ Lui il punto di convergenza. “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

 

7. Un’ultima riflessione vorrei farla sulla testimonianza cristiana di La Pira nella povertà, nella purezza di cuore, nella  libertà evangelica.  Questa testimonianza ci viene ricordata dalla pagina evangelica che abbiamo ascoltato (Lc 12,22-32): “Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, come lo vestirete… cercate piuttosto il regno di Dio e queste cose vi saranno date in aggiunta… Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”.  I testimoni sono concordi nel riconoscergli questo carisma di libertà cristiana, sottratta ad ogni logica umana di ambizione al successo, di interesse personale, di compromissione di qualsiasi tipo di povertà e trasparenza evangelica vissuta in assoluta semplicità. Il suo distacco dal danaro, il suo passare per le strade di Firenze con la gioia di chi è davvero povero tra i poveri ha già dato origine ad un’aneddotica molto bella che ha il sapore degli antichi fioretti francescani. Voi la conoscete bene e la raccontate meglio di me. La Pira è passato per le strade del mondo con una leggerezza e una semplicità nella quale era impossibile non riconoscere il Vangelo.

Ritorniamo – per  concludere – alla lettera inviata da La Pira a Mons. Maccari il 30 agosto 1971, quella attraverso la quale abbiamo cercato di ritrovare la sua visione teologica e spirituale della vita cristiana e della storia. La lettera si conclude con una preghiera. Dice La Pira: “Il Signore, per l’intercessione di Maria, ci dia la grazia di essere “indicatori” ed “operatori” di questa speranza celeste e terrestre, divina ed umana.

La Pira è stato, davvero, un “indicatore” una freccia che ha aiutato tutti a trovare la direzione di marcia. Nella sua azione sociale e politica La Pira non ha mai dimenticato la prospettiva escatologica. E’ la meta che non ha mai perso di vista e che si è sempre impegnato ad indicare, anche a noi questa sera, affinché Cristo sia davvero la nostra speranza.

 

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[1] Giorgio La Pira, La preghiera forza motrice della storia, Città Nuova 2007, pag. 518-519

1 Lettera ad Andrea Frémiot del 5 ottobre 1604.

2. G. L Pira. Lettere al Carmelo, Milano 1985 pag. 25.

3 Lettere al Carmelo, o.c. XXII

4 G. La Pira. Lettere alle claustrali, Milano 1978, lettera XXX

Omelia dell’Arcivescovo Giuseppe Betori nel 31° anniversario della morte di Giorgio La Pira

5 novembre 2008

1. La Chiesa di Firenze insieme alle Chiese sorelle della Toscana fa oggi memoria dei suoi santi: i santi anche canonizzati che non hanno trovato posto nel calendario liturgico e quelli rimasti anonimi, certamente i più numerosi.
Mi pare una coincidenza particolarmente significativa che, all’inizio del mio ministero pastorale a Firenze, mi sia dato in questo giorno di presiedere la celebrazione del 31° anniversario della morte di Giorgio La Pira, straordinaria figura di cristiano, terziario domenicano fedelissimo alla sua consacrazione, sindaco di Firenze, profeta e costruttore di pace e di unità tra i popoli, figura eccelsa di santità in questa Chiesa.
E celebrare proprio qui, nella basilica di San Marco, che custodisce memorie particolarmente preziose per la nostra Chiesa. Qui, in particolare, è vissuto il grande Vescovo Antonino Pierozzi, che insieme a San Zanobi veneriamo come protettore della diocesi. La Fondazione La Pira mi ha fatto dono in occasione del mio ingresso nell’Arcidiocesi del discorso che il Sindaco La Pira tenne in Palazzo Vecchio in occasione della prima visita ufficiale di S.E. Mons. Ermenegildo Florit il 7 aprile 1962. In esso La Pira tesse le lodi del Vescovo Antonino, per l’intervento di profondo valore religioso, etico, storico e politico che egli fece nel 1458 a difesa della libertà e della struttura democratica della repubblica fiorentina.
E qui giustamente riposano ora le spoglie mortali di Giorgio La Pira, la cui memoria quest’anno viene celebrata “nel segno della fratellanza tra i popoli”. Questa fratellanza è, secondo La Pira, vocazione comune sia della Chiesa fiorentina sia della città di Firenze.

2. Nel vangelo che abbiamo ascoltato – il vangelo che il lezionario feriale propone in questo mercoledì della 31° settimana del tempo ordinario – Gesù parla delle esigenze richieste a chi vuol essere suo discepolo. Esigenze estremamente severe, quasi scoraggianti. Gesù sembra più preoccupato di raffreddare i facili entusiasmi di chi intende seguirlo che di cercare seguaci. Nell’ascoltarlo si terrà anche conto di un certo modo di esprimersi tipico del linguaggio ebraico, ma la radicalità estrema delle esigenze del Signore rimane. Sono le esigenze della fede: ritorna fuori quel “comandamento grande” che il Signore ci ha già ricordato pochi giorni fa: amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze… Non ci sono misure al di sotto del “tutto”!
Giorgio La Pira è un convertito. La chiamata l’ha sentita nel pieno della sua giovinezza: nel 1924, a vent’anni, come annota sulla prima pagina del Digesto di Giustiniano, lo strumento di lavoro fondamentale per i suoi studi di romanistica. “A vent’anni; epoca di luce e inizio di unione al Maestro”. Da questo incontro si deve necessariamente partire per comprendere chi è La Pira, qual è il suo vero segreto. La Pira è un discepolo del Signore, il titolo più alto cui un cristiano può e deve aspirare. La Pira risponde di sì al Signore che lo chiama ed è un sì totale, senza incertezze, al quale rimane fedele sempre.
Davanti a lui c’è sempre il Signore: egli è dietro e lo segue. “Non mi ascolto mai!”, dice in una intervista, nel 1976, un anno prima della sua morte. “Dettata non dal sangue e dalla carne, ma dal Padre che sta nei cieli” (Mt 16,16), la risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente” (Mt 16,17), prova che tutta la storia prende senso, speranza, e riscatto in Cristo. La nostra, dopo, sino alla fine, non può che essere una risposta e una scelta alla domanda di lui: una risposta e una scelta come quella di Pietro. E mai come oggi, non lo dico a caso, il problema di Cristo come domanda e risposta su se stesso, – cioè profezia vivente e sempre in cammino con noi per la nostra salvezza – è stata tanto attuale”.
Sono parole si direbbe dette per il nostro oggi, in cui, come ci ricorda continuamente il Santo Padre, il problema continua ad essere Cristo e il nostro incontro con lui, onde evitare le riduzioni mitologiche e parimenti quelle etiche della fede cristiana.
In questo incontro con Cristo, Giorgio La Pira conquista la vera libertà, che lo conduce all’assoluto distacco da ogni vincolo. Anche rimanere nello stato laico, non scegliere il sacerdozio, sembra rispondere a questa esigenza: servire il vangelo nel modo più umile, più libero. La lettera a una suora del Carmelo di Careggi nella Pasqua del 1933, la quale ha letto un suo articolo e ha creduto che fosse stato scritto da un sacerdote, rivela questo amore a Cristo senza condizioni: “Io non sono sacerdote, come ella ha supposto, scrive. Gesù non ha voluto e non vuole queste cose da me. Sono solo un giovane cui Gesù ha fatto una grazia grande: il desiderio sconfinato di amarlo e di farsi sconfinatamente amare”.
La Pira vuole rimanere laico perché essere laico gli assicura una maggiore possibilità di annunciare il vangelo ubi Christus non est nominatus: unico accredito la professionalità: “Essere laici che si distinguono per una professionalità rigorosa”, scrive. “L’eccellenza professionale come lettera di accredito nella società”.
Lasciandosi guidare unicamente dallo Spirito, La Pira plasma la sua anima mistica e vive misticamente l’intera sua vita. Scrivendo nel 1938 a P. Agostino Gemelli, assistente spirituale dei missionari della Regalità, l’istituto secolare al quale La Pira ha subito aderito, dice: “Sono trascorsi dieci anni da che per la prima volta… si parlò di questo dolce ideale della consacrazione a Dio. Allora avevo 24 anni ed avevo – come per grazia divina ho ancora – il cuore innamorato di Cristo: sentivo con più energia di ora tutta la bellezza di una vita consacrata unicamente a questo fine: l’amore infinito di Dio e di Cristo… L’esperienza di questi dieci anni non mi ha deluso: mi sembra divinamente bello questo vagare libero per amore di Cristo; unica regola: la carità…”.

3. Il brano della Lettera ai Colossesi proclamato come prima lettura è stato invece scelto dalla Fondazione La Pira e dai Padri Domenicani per richiamare il tema sotto il quale si pone la celebrazione di questo anno: la fraternità fra i popoli: “non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti…; la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo…”.
Questo brano della Lettera ai Colossesi – il Cristo tutto in tutti – insieme al testo della lettera agli Efesini 4,11 “in aedificationem corporis Christi”, come egli amava dire citando in latino, è fondamentale nella visione di La Pira, sia del La Pira vincenziano, sulle orme di Ozanam, che rimane sua vocazione specifica, sia del La Pira uomo politico.
I biografi narrano di un’illuminazione ricevuta nell’Epifania del 1951, mentre assisteva alla messa nella Chiesa Nova a Roma. Ne parla La Pira stesso in una lettera alle claustrali dieci anni dopo: come il Signore abbia voluto affidare a lui, ormai impegnato nella vita pubblica, già con un’esperienza alle spalle nell’Assemblea Costituente, nel Parlamento, e poi nel Governo, una particolare missione per l’unità e la pace dei popoli. È la sua visione teologica.
Ascoltiamo le sue parole. “Questo corpo glorioso di Cristo Risorto agisce invincibilmente (malgrado tutto) come lievito trasformatore e come modello elevante attrattivo, sul corpo della città terrestre: sul corpo totale delle famiglie, delle città, delle nazioni, delle civiltà, dei popoli, di tutto il pianeta! La città celeste – questa Gerusalemme celeste “dalle muraglie d’oro” – illuminata dalla luce del Corpo glorioso di Cristo e dove regnano la bellezza, la unità e la pace, è il modello attrattivo verso cui è irresistibilmente attratta e verso cui irresistibilmente ascende (in mezzo a tante fatiche) la città terrestre. Peguy lo disse: “La città terrena è il cantiere, ove la città di Dio si elabora e si prepara”.
E questo progetto di rigenerazione della storia a immagine della città celeste è, come ci ricorda san Paolo, un mistero di unità, di comunione, di superamento di ogni divisione e discriminazione, perché su tutti gli uomini risplende l’immagine stessa del Creatore che li fa tutti fratelli.
La Pira amava anche richiamarsi al discorso di Gesù nella sinagoga di Nazaret: “A Nazaret nel “suo discorso programmatico” (il primo!) il Signore indica “le frontiere di Isaia”, “la Terra promessa” dell’unità, della pace, della liberazione da ogni oppressione dei popoli di tutta la terra. Il cammino della storia, sotto il segno vivificante e orientatore dello Spirito Santo, di Cristo Risorto, della Chiesa, avrà, come suo punto terminale, la pace, l’unità e la promozione e liberazione terrestre dei popoli”.
Questo è il vero programma del La Pira politico. Essere promotore di unità e di pace nel nome del Vangelo. C’è da chiedersi quali gesti e iniziative avrebbe ideato per reagire alle morti di tanti cristiani nel mondo, in specie nell’Asia, in spregio a quel fondamentale diritto umano e dei popoli che è la libertà religiosa! Le nostre flebili voci di oggi sono del tutto inadeguate ai suoi orizzonti smisurati e coraggiosi.
E’ stato un politico La Pira? Sì! Ha cercato di dare un’anima alla politica. Mi pare bello quello che scrisse su di lui Carlo Bo: “La Pira è passato, sì, come una meteora nel cielo della politica che era indegna di lui, ma è stato, per altro verso, il simbolo di un’altra e più alta ragione: anche un santo può fare politica”.
Essere presenti alle vicende del mondo è fondato per Giorgio La Pira su una convinzione profonda dell’unità tra la dimensione interiore del credente e il suo spendersi nella storia. Lo diceva con parole ancora una volta solo apparentemente paradossali: “Credevamo che bastassero le mura silenziose dell’orazione! Credevamo che chiusi nella fortezza interiore della preghiera noi potevamo sottrarci ai problemi sconvolgitori del mondo; e invece nossignore; eccoci impegnati con una realtà che ha durezze talvolta invincibili […]. L’orazione non basta; non basta la vita interiore; bisogna che questa vita si costruisca dei canali esterni destinati a farla circolare nella città dell’uomo”.
La Pira consegna oggi a noi questa passione e questa missione. Nel discorso in Palazzo Vecchio in cui saluta Mons. Florit, dopo aver passato in rassegna le date più significative della storia di Firenze, gli ricorda la vocazione e la missione (oggi ancora più di ieri) della Chiesa di Firenze e, correlativamente, della città di Firenze. “Rendere sane – col sale della grazia e col sale della verità, della civiltà, della bellezza, della giustizia e della pace – le acque non solo dell’Arno, ma ( in certa misura ed entro certi limiti) di tutti i fiumi che bagnano le città di tutta la terra!”.
Vorremmo davvero accogliere queste parole di La Pira con un po’ della sua fede e della sua passione. Credo che oggi inviti me, chiamato a guidare come Vescovo la Chiesa fiorentina, alla speranza cristiana, all’impegno per la pace e la fraternità, anche se il mondo appare più stanco e i problemi che avanzano, dalla pace in Medio Oriente, ai problemi dell’Africa, in particolare oggi del Congo, alla fame del mondo sembrano ingigantiti.
“Spes contra spem! – ci ripete anche oggi La Pira –. Sperare contro ogni speranza è un atto di fede che Dio benedice quando si tratta di affermare fra tutti gli uomini il vincolo di fraternità che li unisce al comune Padre Celeste!”.