Bassetti: intervento a Spes Contra Spem 4 a Palermo

IV Convegno Nazionale Giorgio La Pira

Spes contra spem

Palermo 13-14 Ottobre 2017

 

Giorgio La Pira e la Città

di Em. Card. Gualtiero Bassetti

 

Cari amiche e cari amici,

vi ringrazio di cuore dell’invito che mi dà modo di conoscere le associazioni e i gruppi che nel territorio nazionale sono impegnate, attraverso molteplici attività, a “far fruttare” l’eredità lapiriana. In questi ultimi anni, e ancora più in questi mesi, ho riflettuto spesso sulle vicende fiorentine del tempo di La Pira che possono essere comprese, in un certo qual modo,  attraverso il binomio indissolubile del pane e la grazia.

Dai suoi scritti ho individuato quattro “passaggi” attraverso i quali, mi pare, La Pira abbia tradotto nel governo della città di Firenze, il binomio del pane e della grazia. Li elenco perché – una volta poste due piccole premesse – costituiranno l’ossatura del mio discorso: la concretezzala bellezzala cultura e l’unità.

La prima premessa riguarda il fatto che La Pira sia stato uno “sperimentale”. Firenze, non fu una “vetrina” per le sue azioni internazionali, ma il laboratorio dove sperimentare alcuni “principi operativi”: quelli fondamentali della Costituzione repubblicana, quelli economici che si trovano in L’attesa della povera gente  e, infine, i principi della sua inedita e in fieri civiltà cristiana.

La seconda premessa è questa: La Pira, nella sua azione politica e amministrativa ha saputo e voluto interpretare alcune aspirazioni profonde della città. L’azione politica seguì, infatti, un apprendistato lento, durato più di venti anni, che gli permise di entrare in profondità nel tessuto sociale, culturale, popolare della città; mi riferisco al tempo del suo impegno in una miriadi di gruppi dell’associazionismo cattolico, nelle Conferenze di San Vincenzo, l’appuntamento settimanale della Messa di san Procolo, l’insegnamento universitario, e poi la partecipazione attiva alla rete di aiuto e protezione agli ebrei perseguitati e, da ultimo, alla presidenza – dalla fine del 1944 – dell’Ente Comunale di Assistenza. Una lenta gestazione dell’impegno politico, che permise al futuro Sindaco di Firenze di arrivare, come direbbe papa Francesco, “là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi” e di raggiungere “con la Parola di Gesù i nuclei più profondi e l’anima della città” (cfr. Evangelii Gaudium, 74).

La Pira, quindi, non fu un ideologo nel senso deteriore del temine. Egli aveva dei principi forti, delle idee, anche delle intuizioni, ma non le caricò sulla città a prescindere dal suo tessuto concreto: la sua proposta per Firenze interpellò, infatti, una cultura profonda della città. Quando, per fare un esempio, La Pira decise di dare la cittadinanza onoraria a don Giulio Facibeni, non fece altro che dare rilievo civico e politico al fatto che i fiorentini, credenti e non credenti, avevano già riconosciuto come dimensione autentica della vita della città quella particolare esperienza di carità cristiana vissuta.

Ovviamente a Firenze non c’era solo la Madonnina del Grappa, e la cultura della carità cristiana non era unica né prevalente. Infatti, la grandezza del La Pira politico sta nell’essere riuscito a dare valenza politica alle culture solidali, aldilà delle divisioni ideologiche, che pure erano feroci. Questo gli diede la forza, genuinamente politica, per requisire le case e per occupare le fabbriche. Altrimenti questa forza non l’avrebbe avuta.

Ecco che il primo passaggio della proposta politica con cui La Pira intese tradurre il binomio indissolubile del pane e della grazia è già introdotto: la concretezza. Il 5 luglio 1951, nel discorso programmatico, durante un animato consiglio comunale, il neo Sindaco di Firenze “fondava” il primo punto del suo programma amministrativo nella “pagina più bella ed umana del Vangelo: risolvere i bisogni più urgenti degli umili”[1]. Allo stesso tempo, affermava che per ottemperare a questo obiettivo non si sarebbe limitato a fare tutto ciò che le risorse a disposizione gli avrebbero consentito, ma avrebbe proporzionato le risorse ai bisogni. Proporzionare i beni ai bisogni significò oltre che mobilitare importanti risorse pubbliche, coinvolgere l’intera città. La concretezza di La Pira si espresse – come sapete bene – su tutti i campi del sociale: dalle medicine al latte, distribuito quotidianamente nelle scuole per integrare la dieta, in molti casi inadeguata, dei bambini di Firenze; dalle case requisite, alla costruzione dell’Isolotto; dalla lotta contro i licenziamenti di massa, alla nazionalizzazione del Pignone e della Galileo.

Oltre a ciò, durante la prima amministrazione La Pira, fu anche rifatta la pavimentazione del centro, furono costruiti i ponti distrutti dalla guerra, riorganizzato il trasporto pubblico, elaborato il piano urbanistico. Insomma, quando, nel 1965, la stagione lapiriana venne forzosamente chiusa, nessuno avrebbe potuto accusare La Pira di non aver realizzato concretamente il programma del 1951. Anzi, le realizzazioni lapiriane hanno qualcosa dell’incredibile già al 1954. Proprio in virtù di questa concretezza, rifiuto di applicare a La Pira la categoria del “sognatore”. Se tutti i sognatori fossero come La Pira, oggi le nostre città avrebbero ben altri strumenti per aggredire le povertà che, oggi, sono tornate ad essere, drammaticamente, delle vere emergenze sociali.

In quel programma, tuttavia, c’era un ulteriore obiettivo che ci racconta qualcosa del secondo “passaggio” necessario per rendere politicamente operativo il binomio del pane e della grazia: ovvero la bellezza. 

Firenze rappresenta nel mondo qualcosa di unico. Ora, qual è il bisogno fondamentale del nostro tempo, dopo quelli che vi ho accennato? Dare allo spirito dell’uomo quiete, poesia, bellezza! Tutti quelli che, da qualunque parte del mondo, vengono a Firenze trovano qui la quiete: la trovano nell’aria, nelle linee architettoniche degli edifici, nei volti degli uomini. Firenze ha nel mondo il grande compito di integrare con i suoi valori contemplativi l’attuale grande civiltà meccanica e dinamica. I nostri grandi scrittori, poeti, artisti hanno assegnato a Firenze questo compito nel mondo e noi faremo il possibile per far diventare la nostra città sempre più il centro dei valori universali [2].

Anche se non ne può prescindere, la politica non si può fermare al pane. L’uomo, infatti, ha sete di bellezza: è capace di contemplare la natura ed è, egli stesso, immagine e somiglianza di Dio, artefice di bellezza. La bellezza dice che il valore dell’esistenza umana trascende la pura materialità. Il significato profondo della persona umana, infatti, va ben oltre ciò che si può mangiare e ciò che si può “monetizzare”. Il materialismo, secondo La Pira, negando la sete di bellezza nega il valore dell’esistenza e della dignità umana. Attenzione però, La Pira denuncia due materialismi: il materialismo ateo delle ideologie comuniste che comprimono la libertà e impongono un sistema oppressivo ed estremamente precario e quindi destinato a non durare; il materialismo pratico delle ideologie liberiste che reprimono la sete di bellezza costringendo alla angosciosa lotta quotidiana per la sopravvivenza o creando falsi bisogni consumistici.

Contro questi due materialismi, la bellezza della città sarebbe rimasta muta, non avrebbe potuto costituire un centro di attrazione per le nazioni e di diffusione dei valori universali, se Firenze non fosse stata anche la città del pane per tutti. L’autentica bellezza di una città è cioè da intendersi come sinergia della bellezza, della gratuità e della trascendenza con un tessuto sociale, produttivo e politico in grado di garantire una vita degna della sete di bellezza che è racchiusa in ogni creatura.

Tuttavia la bellezza non si inventa dal nulla, ma la si riceve. Ed eccoci al terzo passaggio con cui La Pira agì per realizzare la civiltà del pane e della grazia: quello della cultura. Nel 1954 il Sindaco di Firenze fu invitato a Ginevra, presso il Comitato della Croce Rossa Internazionale, a tenere una relazione sulla difesa delle popolazioni civili delle città in caso di bombardamento atomico. In quella sede, il Sindaco sostenne che gli Stati non hanno diritto di distruggere le città perché esse non appartengono alle generazioni presenti, ma a quelle future [3]. Occorre infatti garantire la continuità storica delle città per consegnare, accresciuto e arricchito, “un patrimonio essenziale, per l’elevazione spirituale e materiale dell’uomo” [4]. La cultura, per La Pira è essenzialmente ricezione creativa della tradizione (artistica, tecnica, politica, religiosa…): questa tradizione è depositata nelle città, distruggerne una vuol dire rubare alle giovani e alle venture generazioni la possibilità di acquisire conoscenze essenziali relative all’arte del fare bene le cose e a quella di conoscere il mistero della vita. Non siamo, infatti, angeli e la trasmissione della cultura, dei saperi, ha bisogno di strutture. La città è esattamente questa articolazione di strutture che servono a trasmettere la cultura che in esse si sedimenta e si accresce.

Tuttavia – e vengo al quarto passaggio quello dell’unità – una città da sola, non basta, anche se si chiama Firenze, perfino se si chiama Roma o Gerusalemme. E’ evidente, infatti, che se la città è articolazione di strutture per la trasmissione creativa della cultura umana, la città non si può mai dare come monade, come microcosmo isolato. I monumenti stessi, le architetture, testimoniano che la cultura si forma e si sedimenta attraverso la scambio,  l’interculturalità. Tutte le città, quindi, piccole e grandi, costituiscono una sola articolazione di strutture che permettono la trasmissione e la crescita delle culture, ciascuna con la sua specificità e quindi ciascuna essenziale, irripetibile, irrinunciabile.

Ma allora le città hanno una capacità di unirsi che gli stati non possiedono. Anzi, esse hanno il dovere di organizzarsi per vedere rispettato il loro diritto di non essere distrutte. Possono e devono agire su scala internazionale in forza del loro diritto all’esistenza. Esiste, cioè, una sorta di jus ad pacem che le città detengono e che devono esercitare. Di qui la convocazione, a Firenze, nel 1955, del convegno dei Sindaci delle capitali del mondo. Il protagonismo delle città negli scenari internazionali avrebbe potuto e dovuto costituire un elemento fondante del nuovo sistema internazionale reso necessario dall’impossibilità della guerra nucleare e dal superamento della funzione tradizionale degli stati all’interno di un sistema economico interdipendente.

Quindi, concretezza, bellezza, cultura e unità come passaggi attraverso i quali costruire la civiltà del pane e della grazia, la civiltà della liberazione e della solidarietà.

Cari amici questa è una visione di concretezza che per La Pira aveva un orizzonte preciso, entro il quale è necessario inquadrare il suo discorso sulla città, se lo si vuole comprendere nella sua completezza; ma oserei dire, per un credente, se lo si vuol comprendere nella sua perenne e al tempo stesso urgente attualità.

L’orizzonte è quello del capitolo 21 dell’Apocalisse: la Città Santa che discende dal cielo. L’eternità, il nostro comune destino, è una Città: è un fatto sociale!

Visioni fantastiche? No: modello soprannaturale, celeste, ma reale, della città terrena; dell’unica città terrena della pace che siamo tutti chiamati a costruire per consegnare un mondo nuovo di giustizia, di fraternità, di grazia, di unità, di pace, di bellezza, alle generazioni venture! [5].

Ebbene, care amiche e cari amici, gli anni in cui La Pira scriveva queste parole erano anni di grande speranza: gli anni di papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II, del miracolo economico in Italia e della ricerca di un nuovo equilibrio di pace nel mondo. Una breve stagione, si potrebbe dire, interrotta drammaticamente nel sangue con la terribile guerra del Vietnam. Ma anche la Speranza e la beatitudine della fame e sete di giustizia come virtù politiche sono finite in quella stagione?

Sappiamo che per La Pira, la speranza non finì, ma lo accompagnò nella sua lotta anche nei lunghi anni, dal 1965 alla morte, della sua emarginazione. Speranze da visionario, si diceva. Nel 1973, quando alla primavera era seguito l’inverno, Giorgio La Pira ebbe a pronunciare – a Dakar, in occasione del Convegno della Federazione delle città unite – queste parole:

Inverno storico e primavera storica. Le due immagini sono state usate sin dal marzo 1958 da Pio XII e poi riprese e sviluppate da Giovanni XXIII e da Paolo VI, oltre che da altre grandi guide spirituali, culturali e politiche del mondo.

Inverno storico! Ma cosa significa politicamente militarmente, culturalmente, economicamente, ecc., questo inverno storico, rapportato alla presente età atomica, spaziale, demografica e sociale?

La risposta è espressa in maniera tanto significativa dal grosso titolo di un libro recentissimo di René Dumont Utopia o morte!

Queste parole ci interrogano ancora oggi e soprattutto ci scuotono l’anima. Credo che noi, uomini e donne del terzo millennio, dobbiamo risvegliarci da un certo torpore in cui siamo sprofondati negli ultimi decenni. Anni in cui ci siamo voluti illudere che assieme al tramonto delle ideologie fossero finite anche le “emergenze storiche”. Ma non è così.

Oggi noi viviamo in un grande “cambiamento d’epoca”, un eccezionale mutamento storico che ci obbliga a stare svegli, a guardare lontano e ad assumere una prospettiva globale, pur restando ben ancorati alla nostra storia, alle nostre tradizioni e ai nostri luoghi. Da questo punto di vista, la visione profetica di La Pira è di fondamentale importanza: per la Chiesa e l’Italia.

«Nulla può esser capito di Giorgio La Pira – come disse il Cardinal Benelli nel giorno delle esequie – se non è collocato sul piano della fede». La sua vocazione politica, infatti, è il frutto maturo della fede e rappresenta il fulcro vitale della sua «vocazione sociale». L’impegno politico per La Pira è dunque «un impegno di umanità e santità» che deve «poter convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità». La carità e la politica si fondono, in La Pira, in un legame inscindibile.

E lo stesso legame tra carità e politica è al centro della predicazione di Papa Francesco. Nella Evangelii Gaudium il Papa ha scritto chiaramente che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune”. E recentemente a Cesena il Papa ha ribadito con forza che la politica non può essere asservita “alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi” ma deve avere come unico grande obiettivo “il bene comune” dell’intera società, senza lasciarsi tentare dalla corruzione e senza lasciare ai margini della società i piccoli e i poveri.

Solo con una politica che abbia veramente a cuore la dignità della persona umana e che utilizzi il “bene comune” come unico criterio di scelta, si possono trovare delle soluzioni responsabili e realiste alle grandi sfide del mondo moderno: ai temi dello sviluppo, del disarmo, della mobilità umana, della bioetica, della convivenza di culture e religioni diverse, degli equilibri ecologici.

Carissimi amici, non sarà il realismo dei materialisti a consegnare un “mondo migliore” alle generazioni future; non sarà certo il “realismo” di chi crede che tutto abbia un prezzo e che l’uomo vive solo di ciò che riesce a vendere e comprare; e non sarà, infine, il realismo dei fondamentalisti che, negando la bellezza di Dio, operano la più radicale ed atea negazione di Dio.

L’unico realismo che apre le prospettive alle generazioni future è quello del Vangelo delle Beatitudini e di chi non si stanca di avere un inesauribile fame e sete di giustizia!

 

 

[1] Giorgio La Pira Sindaco, I, (a cura di U. De Siervo – G. Giovannoni – G. Giovannoni), Firenze, Cultura Nuova Editrice, 1988, 18.

[2] Idem, 33.

[3] Discorso al comitato della Croce Rossa, 1954 Idem, 381-386.

[4] Discorso di apertura del Convegno dei Sindaci delle Capitali del Mondo, 1955, in La Pira Sindaco, II, 104.

[5] Giorgio La Pira, Costruire la città della pace, in Giorgio La Pira, Le città non vogliono morire, Edizioni Polistampa, Firenze, 2015, 139-140.

La testimonianza di La Pira e la formazione dei giovani

 di Gabriele Pecchioli,

presidente dell’Opera per la gioventù “Giorgio La Pira” e vicepresidente della Fondazione La Pira.

La prospettiva educativa, e più in generale, la prospettiva dei giovani è fondamentale. La Pira “parla” ai giovani: davanti alla sua testimonianza essi ne sentono l’autenticità, la passione, il disinteresse, la prospettiva, la capacità di immaginarla e di renderla concreta. La Pira parla ai giovani non solo in senso figurato: sentiamolo parlare!

(Ascolto dell’audio, qui disponibile, dell’incontro fra il prof. La Pira e i giovani dell’Opera per la gioventù presso il Villaggio La Vela di Castiglione della Pescaia nel 1975).

 

Perché La Pira a La Vela?

Giorgio La Pira ha fortemente connotato l’esperienza educativa dell’Opera, che è sorta per iniziativa di una grande figura di laico cristiano, Pino Arpioni, e che oggi ne porta il nome. Più che collaborare con La Pira, Pino ne ha condiviso in pieno il programma di azione, ed i suoi fondamenti. Se mi è consentito, ne ha condiviso anzitutto la spinta continua all’esercizio concreto del comandamento della carità; sempre con l’attenzione di La Pira, ha cercato di trasmetterne le intuizioni a generazioni di giovani.

La Pira, proprio a dimostrazione di questa profonda sintonia e familiarità, venne nei primi anni settanta ad abitare a Casa Gioventù: la testimonianza di chi, giovane studente universitario o obiettore di coscienza in servizio civile, ha vissuto quegli anni insieme a La Pira ci parla di un uomo dotato di una forza straordinaria, che riponeva immensa fiducia nei giovani (“come le rondini, annunciano l’arrivo della primavera”). Rientrando in casa questo era il saluto consueto: “cose grandi, ragazzi!”. In questo contesto nascevano anche le visite del Professore a La Vela, che è il centro educativo principale dell’Opera.

Proprio dal sodalizio con il “Professore”, con cui collaborò fin dalla prima amministrazione come consigliere delegato ai cantieri di lavoro, poi come assessore al personale nel suo terzo mandato di Sindaco, Pino trasse sostegno ed ulteriore conferma al servizio educativo nei confronti dei giovani iniziato fin dal termine della guerra: il sogno, meraviglioso, maturato dopo i drammatici giorni della deportazione in vari campi di prigionia, di trasformare le baracche dei prigionieri, luoghi di disperazione e di morte, in strumenti di speranza e di vita. La Vela ed Il Cimone, anche nella loro struttura, hanno la loro radice qui.

Una vocazione, dunque, che con La Pira, forse ha finito di formarsi, ma già indirizzata. Da questo incontro, potremmo dire, in qualche modo, si è formata la consapevolezza, nuova ed ulteriore, eppure già presente in radice, del valore “storico” dell’azione educativa: accompagnare i giovani non era, e non è, esercizio di assistenzialismo, ma significa aiutarli, con lo sviluppo di tutte le dimensioni della persona, ad inserirsi responsabilmente nella vita della comunità, a tutti i livelli. Un’azione educativa, pertanto, in cui la formazione spirituale non è mai stata scissa dal richiamo al necessario impegno sociale, connaturato alla vocazione comunitaria della persona umana: conformata cioè, secondo il noto motto lapiriano, alla necessità di tenere “in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale”.

Vediamo alcuni punti salienti della figura di Pino: non sarà difficile, in essi, vedere trasparire il cammino percorso con il Professore. Nella Rivista di ascetica e mistica, n° 1, gennaio-marzo 1978, Pino stesso così indicava le “direttrici fondamentali” dell’azione educativa dell’Opera da lui fondata: la riaffermazione della dimensione spirituale dell’uomo; l’amore alla Chiesa; l’impegno personale nella solidarietà umana. In questo c’è evidentemente anche il suo personale percorso.

Una profonda vita di fede ed una laicità intransigente. Prima ancora che con l’insegnamento di qualche precetto, Pino ha testimoniato con la sua vita, fino all’ultimo, la sua adesione a Cristo. Ai capigruppo che nei campi scuola gli manifestavano la difficoltà di far comprendere ai ragazzi l’importanza dei momenti di preghiera e della partecipazione alla Messa richiamava, anzitutto, la necessità della testimonianza personale: ciò era, del resto, ciò che lui stesso viveva in prima persona. La prima educazione alla preghiera, per tutti noi, ad esempio, è stata vederlo partecipare alla Messa: traspariva sempre una profonda partecipazione al mistero eucaristico, un’adesione piena che poi diveniva prassi quotidiana nella continua riaffermazione che l’esperienza educativa poteva essere vissuta solo in piena comunione, tra fratelli e con il Signore.

Nel contempo (e, diremmo, per necessaria conseguenza) era un uomo di una laicità intransigente nell’azione sociale e politica: la ricerca del bene, del singolo come di quello comune, non era prerogativa del credente, ma la viveva come valore di ogni uomo, credente e non; era un cammino da farsi insieme, sempre, senza bisogno di indossare casacche e senza allo stesso tempo rinunciare alle proprie convinzioni, ma nella fatica della ricerca, accanto a chi partiva da posizioni diverse, dell’autentico bene, comune a tutti.

L’Opera (l’opus), il fare ed il da farsi. Dal contatto con la sorgente non poteva che nascere l’impegno nella realtà umana. Per Pino è stato, con scelta totale, il servizio educativo per i giovani. In questo senso la sua azione si è davvero concretizzata in una “Opera”: nel rendere cioè concreta ed attuale, perché rispondente ad una vocazione precisa a cui non era possibile venire meno, l’esperienza di vita integrale, e perciò anche comunitaria, che riteneva necessaria per i giovani. Ecco i Villaggi, “rovescio della medaglia” dei campi di concentramento: immagine esteriore di un “fare” faticoso ma in continuo divenire, mai scoraggiato dalle difficoltà materiali e sempre vissuto in un’ottica provvidenziale, dell’essere strumenti docili nelle mani di Dio. In questa spinta continua all’esercizio concreto del comandamento della carità, come già detto, c’è una profonda compartecipazione allo spirito di La Pira.

La comunione con la Chiesa e l’impegno di laico cristiano. L’esperienza nell’Azione Cattolica a fine anni Quaranta e negli anni Cinquanta, prima “palestra” di un impegno ecclesiale sempre rinnovato con l’assunzione di impegnative responsabilità e di scelte non sempre facili, la rammentava come una scuola in cui era stato formato al valore della laicità cristiana, in tempi ancora precedenti al Concilio. Una laicità, sua e dell’Opera, riaffermata sempre con forza e non sempre compresa in pieno in ambito ecclesiale, che tuttavia era un tutt’uno con l’amore alla Chiesa. L’impegno come laici nell’Opera ci ha sempre spronati a viverlo anzitutto nella dimensione, vocazionale, di “servizio” nel popolo di Dio e non come un’appartenenza ad un movimento, secondo un’impostazione sempre mantenuta.

Ed è nel rifiuto di una dimensione intimistica della fede che ha incoraggiato e spinto all’impegno sociale e politico centinaia di giovani: ha creduto fermamente che “la politica è la forma più alta di carità”, secondo l’espressione di Paolo VI, e conseguentemente si è comportato, in prima persona, assumendo importanti incarichi pubblici, e nel servizio educativo: negli incontri di studio mai è mancato, ad esempio, l’omaggio alla città che i giovani visitavano incontrando il sindaco, espressione di tutta la comunità locale.

Il sodalizio con Giorgio La Pira e lo sguardo sul mondo. In Pino abbiamo sperimentato il continuo ed instancabile riferimento al magistero del Professore. In qualche modo la vita stessa dell’Opera, nelle sue scelte fondamentali, infine da qualche anno anche il nome, doveva esserne il riflesso. Certo la vocazione di Pino, maturata nell’esperienza della prigionia, con la consapevolezza della drammatica responsabilità educativa di ogni uomo, si è detto, era formata anche prima dell’incontro con La Pira. Se dunque in questo incontro ha trovato compimento e senso definitivo, allora anche “la scelta popolare del proprio ambito di attività”, l’attenzione ai “problemi del fratello vicino, come della più vasta comunità umana”, la proposta ai giovani di “attuare un amore a Dio che sia misurato su un concreto amore ai fratelli” (testo prima citato), ancor prima il primato della vita di Grazia, sono fondamenti senza dubbio frutto di una collaborazione e di una sequela feconda. E, infine, nella ricerca del senso della “navigazione storica” dell’umanità c’è tutto l’impegno di Pino nel dialogo ecumenico ed interreligioso; ricerca di unità e pace con la costruzione, seguendo fedelmente le “ipotesi di lavoro” di La Pira, di tanti “ponti” di preghiera e di azione che, gettati con pazienza, oggi continuano ad indicare una prospettiva.

Questa vicinanza ha evidentemente influenzato il metodo ed i contenuti del servizio educativo dell’Opera:

 – il fondamento binario della formazione;

– l’amore alla Chiesa;

– la prospettiva del dialogo nella comune famiglia abramitica e internazionale (Abbattere i muri, costruire i ponti: l’esperienza concreta del campo internazionale, che parte dai giovani – di 16 nazionalità diverse quest’anno – e che ha il suo elemento centrale nell’esperienza di vita comunitaria, con la riscoperta dell’umanità dell’altro, nel dialogo tra culture e religioni)

La prospettiva educativa: in conclusione, è necessario richiamarla.

In questa prospettiva c’è tutto: c’è la necessaria attività di ricerca e di approfondimento; c’è la necessità di individuare strade e strumenti per trasmettere ai giovani questa grande eredità, valorizzando le esperienze già in atto e cercando strumenti nuovi. In questa prospettiva, in qualche modo, c’è il programma di lavoro della Fondazione e di tutti noi qui oggi riuniti. C’è una “sete” del mondo giovanile che non va dimenticata. C’è un sempre maggiore numero di giovani che viene a Firenze e chiede di conoscere La Pira. Viviamo in un contesto digitale ma le domande di fondo restano. Rispondere a queste domande di fondo, cercando ispirazione nel Professore, induce alcune prospettive di impegno con il modo giovanile: il dialogo; l’accoglienza; la formazione umana; la formazione politica; il risveglio delle coscienze sui grandi temi. Grazie a tutti. 

Spes contra Spem 2015: intervento di Rocco Pagliaminuto

 

La formazione politica dei giovani

di Rocco Pagliaminuto

 

L’intervento da me previsto sarà molto breve e riguarda la tematica della formazione dei giovani in La Pira. Tematica peraltro esaurientemente trattata da Gabriele Pecchioli, in particolare l’aspetto che ha riguardato l’associazione Opera, di Pino Arpioni che ha avuto un notevole impatto sulla formazione dei giovani che in quel periodo lo hanno seguito. Quello che mi ha colpito, studiando l’attività di questa associazione, è stata l’esperienza del  campo scuola, esperienza di formazione definita integrale con un percorso di riflessione, studio, preghiera e attività sportive, ricreative e e culturali. Sono stato sempre convinto che una vera educazione si possa dare solo attraverso un’attività ricreativa e ludica così come Arpioni ha messo in atto, lo dico con cognizione di causa essendo da anni impegnato in esperienze di scuola calcio che mi permettono di mettere in pratica progetti di carattere altamente educativo  convenzionati con le scuole, non da ultimo quello che sta per essere redatto, ossia educare alla legalità attraverso il calcio.

Ma la formazione dei giovani, come ha brillantemente sottolineato Gabriele Pecchioli, deve essere intesa anche come formazione politica per il servizio al bene comune. Quello della formazione politica dei giovani era un argomento caro a Giorgio la Pira quando nella “La nostra vocazione sociale” diceva: “Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa “brutta”! No: l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti […] – è un impegno di umanità e di santità!”.

E’ bellissima questa espressione, da brividipurtroppo gli avvenimenti politici degli ultimi anni e la situazione etico-sociale attuale sembrano invitarci a stare lontano dalla partecipazione attiva alla vita politica e ad estraniarci dalla qualità della democrazia. Seguendo l’esempio di Giorgio La Pira si deve affermare il rifiuto dell’ “antipolitica” e siamo  invitati, piuttosto, ad una riflessione più profonda fino ad interrogarci sul significato stesso della politica, a domandarci se la crisi che stiamo attraversando è solo conseguenza di una congiuntura economica e quindi sociale, o se ha origini più radicate e più lontane. Probabilmente infatti abbiamo perso di vista il senso principale di quello che spinge l’uomo a dedicarsi alla Cosa Pubblica, attraverso il raggiungimento del bene comune, prima vera necessità a cui si ordinano tutte le altre; in questo senso la politica è la categoria cui si ordinano tutte le altre attività umane.

Giorgio La Pira definisce la politica come “la più grande delle attività terrene perché è l’organizzazione del mondo e l’orientamento di tutta la vita terrena: superiore ad essa c’è solo la contemplazione, quella vera”.

I criteri ispiratori dell’azione politica di un credente non possono che essere lo spirito di servizio e la volontà di perseguire il bene comune, tutto ciò nel totale rispetto dei diritti della persona, nella ricerca della giustizia, nel costante sforzo di rendere compiuta, giorno per giorno, la democrazia. La politica, perciò, come “alta forma di carità”, secondo le parole di Paolo VI.

“Non è consentita al cristiano nessuna neutralità – aveva scritto già nel ’39 in Princìpi – Se c’è un male, egli deve intervenire per porre riparo, per quanto è possibile, agli effetti dannosi del male. Perché altrimenti che senso avrebbe il precetto dell’amore? Se scorgo il fratello ferito dai ladroni, io sono tenuto a piegarmi amorevolmente presso di lui: devo intervenire per riparare alle conseguenze dell’odio. Cristo è intervenuto nel dramma doloroso dell’uomo: ed ha pagato questo intervento redentore con il sacrificio della vita.

Coinvolgersi nella politica è un obbligo per un cristiano. “Noi cristiani non possiamo “giocare da Pilato”, lavarci le mani: non possiamo. Dobbiamo coinvolgerci nella politica, perché la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune. E i laici cristiani devono lavorare in politica. […] Lavorare per il bene comune, è un dovere di un cristiano! E tante volte la strada per lavorare è la politica (dal discorso del Santo Padre Francesco agli studenti delle scuole gesuite – venerdì 7 giugno 2013)”.

All’agire politico come forma di carità non sono chiamati solo i cristiani, ma tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che vogliono – nel rispetto della reciproca libertà – trovare soluzioni comuni per dare risposta alle necessità di tutti.

La politica infatti non guarda al bene del singolo, ma nemmeno a quello di una piccola comunità omogenea (cristiani e musulmani, omosessuali ed eterosessuali, italiani ed extracomunitari etc.), ma di tutti: di tutti nelle loro differenze e dunque nelle loro differenti esigenze e aspirazioni, alla ricerca di un compromesso comune che tuteli tutte le parti in causa.

La politica è pensiero e azione. Richiede conoscenze interdisciplinari. L’attore politico deve essere in grado di ricorrere ai metodi e ai saperi di una serie di discipline per meglio organizzare, con spirito di servizio, una società di persone.
Perciò la politica è tributaria della storia, della filosofia, della sociologia, dell’economia, del diritto, della psicologia, delle scienze della comunicazione, della letteratura e di tutte le discipline utili alla comprensione dei fenomeni sui quali la politica è chiamata ad intervenire.

Ecco, dunque, quale vuole essere la mia proposta, che in sostanza è anche quella di Pecchioli quando parla di impegno di tutti, la creazione di una scuola di formazione politica che deve trasmettere ai partecipanti il senso di questa interdisciplinarietà, la quale consente al politico, come al giornalista o allo studioso di politica, di analizzare la realtà e di valutare attentamente le scelte della politica. Un progetto di formazione politica che miri a diffondere “cultura politica”  deve prevedere una diffusione ai cittadini interessati e attivi nelle realtà municipali e comunali che non possano dedicare un impegno assiduo nella propria formazione politica. Una proposta che deve coinvolgere soprattutto le associazioni sparse sul territorio con una formazione politica-educativa, cioè una vera e propria scuola di formazione sempre coordinata dalla Fondazione, peraltro la Fondazione anni or sono aveva già provato ad istituire una scuola che diffondesse i valori e il pensiero politico di Giorgio la Pira che non deve essere inteso come un pensiero politico democristiano e prettamente religioso, ma il pensiero del buon vivere civile secondo natura che ha costituito il tema della filosofia di  J. J. Rousseau nel contratto sociale. Creare un percorso di formazione che possa fornire elementi di riflessione e conoscenza e permettere ad ognuno di esprimersi liberamente e manifestare le proprie idee, ma soprattutto di realizzare la dignità umana con la eliminazione della disoccupazione ed i bisogni.

Conclusioni.

Si può affermare, senza ombra di dubbio, che uno degli aspetti che caratterizzarono il La Pira politico fu la testimonianza, ovvero un’intensa operosità tesa ad affermare l’autentico amore verso il prossimo. Il suo motto, mutuato dalla lettera di San Paolo ai Romani, era spes contra spem” e lo ricordavo spesso, soprattutto in quelle circostanze che avrebbero fatto disperare chiunque. I criteri ispiratori dell’azione politica di un credente non possono che essere lo spirito di servizio e la volontà di perseguire il bene comune,  tutto ciò nel totale rispetto dei diritti della persona, nella ricerca della giustizia, nel costante sforzo di rendere compiuta, giorno dopo giorno,la democrazia e soprattutto non dimenticando quello che è la frase, forse più bella, che sintetizza la missione di un politico: “Quando Cristo mi giudicherà io so di certo che Egli mi farà questa domanda unica (nella quale tutte le altre sono conglobate): Come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto per sradicare dalla società la miseria dei tuoi fratelli e, quindi, la disoccupazione che ne è la causa fondamentale?”.

La scuola “Giorgio La Pira”, tuttavia, non si limita ad un discorso di cultura “alta”. Sono, altresì, valutate le tendenze emergenti, i fatti e le situazioni di maggior rilievo nel nostro tempo, per maturare orientamenti di pensiero e d’azione, alimentando una cultura della responsabilità e della sussidiarietà, rispettando la legittima autonomia delle realtà terrene. Questo tipo di formazione tende a generare competenze e professionalità tali da poter addivenire ad una “mediazione culturale” tra fede e realtà temporale. La scuola pur restando indipendente dai partiti politici non è ideologicamente neutra. Infatti, sebbene nella massima autonomia, incoraggia a realizzare le necessarie mediazioni storiche per dar vita ad una “area politica” cristianamente orientata, laica e aconfessionale, aperta alla partecipazione e al contributo fattivo di tutti gli uomini di buona volontà. Convinta di interpretare l’aspirazione di larghi strati sociali, i quali attendono un punto di coagulo per uscire dallo smarrimento in cui li ha avvolti un bipolarismo astratto, conflittuale e avulso dalla realtà effettiva, richiama l’attenzione su una modalità storica all’interno della democrazia ove conta la quantità oltre alla qualità: l’unità dei cattolici in politica. Per aver peso, infatti, occorre essere in tanti. Al di là delle piccole differenze c’è un percorso di fondo uguale. I cattolici per “generare una storia”, per essere edificanti per la nostra società, devono stare insieme. La diaspora, caldeggiata dagli avversari, dai poteri occulti ed ingenuamente abbracciata da cristiani, espone all’invisibilità ed all’insignificanza.

Grazie e ad maiora

Spes contra Spem 2015: intervento di Emilio Ottanelli

 

Intervento di Emilio Ottanelli (Circolo di Radicondoli, Siena)

Questo convegno merita molta attenzione per le relazioni di alto livello e gli interventi interessanti. E non è mancata neppure una sincera commozione per le testimonianze personali vivissime sul Professore. Complimenti agli organizzatori e incoraggiamenti a proseguire su questa strada.

Tra tante voci dotte e affascinanti per contenuti ed esposizione, è bello che si possa sentire anche qualche voce più modesta, come la mia. E, in fondo, ciò è in linea con il pensiero di La Pira e con il tema del convegno.

Rappresento il Circolo Acli di Radicondoli, un piccolo comune della provincia senese. E’ un circolo altrettanto piccolo; ma da tre anni è intitolato a La Pira, che sessanta anni fa, lui era allora sindaco di Firenze, inviò prima un’offerta per la Fondazione e poi gli auguri per la crescita.

Mi sembra interessante sottolineare  che quel protagonista della Costituente di cui ci ha parlato così bene il prof. De Siervo, subito prima di essere eletto aveva avuto una breve ma significativa esperienza, anzi aveva terminato quell’esperienza proprio perché eletto alla Costituente: dal gennaio 1945 al giugno 1946 La Pira era stato il Presidente Provinciale delle Acli fiorentine, delle quali era stato tra i promotori e tra i fondatori. Senza dubbio il tema dei legami Acli – La Pira è stato ampiamente affrontato ieri l’altro sera, giovedì 1 ottobre, durante la celebrazione per i 70 anni delle Acli fiorentine. Mi piace, però, sia pure brevemente, ricordarlo anche in questo contesto.

Non è fantasia pensare che le Acli abbiano avuto una forte spinta propulsiva dalla guida del “professorino” ed è altrettanto logico affermare che l’incontro con le Acli e con il mondo dei lavoratori, che esse rappresentavano, abbia dato ancora più certezze alle convinzioni sociali e politiche di La Pira.

Scrive a questo proposito Gabriele Parenti: “La profonda sensibilità sociale di Giorgio la Pira è stata il comune denominatore e l’elemento propulsore della sua straordinaria vicenda spirituale, politica e umana. E la breve ma significativa esperienza di Presidente delle Acli fiorentine si inserisce appieno in questo percorso; anzi ne costituisce un aspetto peculiare”.

E Federico Barni, Presidente ragionale Acli, aggiunge: “Le idee-forza che hanno segnato l’azione di Giorgio La Pira sui temi del lavoro e della difesa dell’occupazione, dell’assistenza ai più disagiati, della pace e della pari dignità di ogni essere umano in ogni parte del mondo, della ricerca di uno sviluppo integrale dell’uomo sono i punti cardine delle Acli, i punti fermi di oltre sessant’anni di storia”.   (Ora sono settanta!)

E d’altra parte le tre fedeltà delle Acli (al Vangelo, ai lavoratori, alla democrazia), alle quali Benedetto XVI ha invitato gli aclisti ad aggiungere quella “al futuro”, non sono le stesse del Professore?

Ma, detto ciò, nel nostro piccolo mondo a che cosa ci serve La Pira?

La realtà di Radicondoli assomiglia a quella di tanti altri piccoli Comuni toscani e italiani. Bellezza di paesaggi, ricchezza di storia e di arte, clima salubre, buona gente, discreta accettazione e integrazione degli extracomunitari presenti, esistenza lunga e tranquilla, relativo benessere economico: insomma tutte quelle caratteristiche che permetterebbero alle statistiche di definire “buona” la qualità della vita.

Ma, grattando un poco, sotto la superficie: la religione interessa poco, per lo più è relegata alle donne e per gli altri spesso è ridotta quasi a una forma di tradizione popolare e di folclore; la partecipazione alla politica è limitata praticamente solo alle occasioni elettorali ed è diffusa l’idea che la politica è inutile o addirittura dannosa; la cultura, per gli adulti soprattutto, consiste molte volte solo nella visione acritica della tv e nella lettura superficiale delle cronache locali; pur se non mancano isole di volontariato attivo (numerose sono le persone che fanno servizio per la locale Pubblica Assistenza) , buona parte della popolazione tende ad arroccarsi nel proprio privato; i giovani sembrano ormai privi di quelli che La Pira definiva “sogni in cammino”; ecc.

Ebbene l’aver intitolato il Circolo a La Pira è stato certamente tributo doveroso a un uomo che, ancora dieci anni dopo la sua esperienza aclista, si ricordava delle Acli e addirittura rivolgeva un pensiero e un augurio ad un piccolo paese del quale forse conosceva a malapena la collocazione. Ma è stato anche voler recuperare quei “sogni in cammino” di cui parlava La Pira, quelle  speranze da offrire alle persone per fare delle nostre utopie le radici concrete della nostra storia. Ecco allora che, partendo dalla concretezza del presente, possiamo cercare di guardare al domani e “sognare” un mondo diverso. Anche in un piccolo paese di campagna.

La nostra opera è modesta e i frutti sono tutti da verificare: ma non ci vogliamo arrendere.

Alla base di ogni nostra iniziativa c’è essenzialmente la volontà di coinvolgere: le persone devono tornare al centro delle cose.

Siamo partiti dallo spiegare, e lo facciamo costantemente, perché abbiamo intitolato il Circolo a La Pira e che cosa questa scelta comporta, anche sul piano del vivere quotidiano, dei comportamenti degli uni verso gli altri… anche  quando si gioca una partita a briscola! anche quando si tratta di abbattere qualche muro (perché i muri ancora resistono, più di quanto si creda) per costruire qualche ponte.

Poi, rispondendo anche agli inviti che ci vengono dalla Fondazione, abbiamo istituito una festa annuale, in occasione della ricorrenza dell’intitolazione, per pregare per la canonizzazione del Professore e cerchiamo di coinvolgere nell’iniziativa altri Circoli e altre Parrocchie (in questo siamo favoriti perché apparteniamo alla provincia di Siena ma siamo nella Diocesi di Volterra: e questo ci permette una “propaganda” maggiore).

Abbiamo dato il via a un percorso di incontri formativi, che stimolino le persone  ad uscire dall’isolamento e dal diffuso disinteresse e permettano loro di alzare gli occhi.

Abbiamo dato nuovo vigore ai servizi (Patronato e Caf), soprattutto per i soggetti più deboli, facendo leva sul volontariato (che, per la verità, come ho già detto, sembra essere uno dei pochi valori ancora presenti nella nostra società).

Abbiamo rafforzato i legami con la Parrocchia e con il Vescovo, intensificando le occasioni di incontro.

Abbiamo cercato di attivare la collaborazione con le Istituzioni locali e con le altre Organizzazioni e Associazioni presenti sul territorio.

Ci prepariamo a sbarcare su Internet e sugli altri Social (speriamo di attirare proprio in questo progetto i giovani, che, oltretutto, tra noi sono gli unici in grado di farlo) perché ci proponiamo di “fare rete” con realtà più in gamba per imparare dalle esperienze degli altri. E anche per questo ringraziamo, ancora una volta, la Fondazione che ci offre – e deve continuare a farlo – occasioni come l’odierna.

Spes contra Spem 2015: intervento di Giovanna Carocci

Fioretta Mazzei: Essere laici non per amare meno.

di Giovanna Carocci

Presidente Associazione Internazionale Fioretta Mazzei – Firenze

La nostra civiltà, quella che ci ha caratterizzati finora come storia, cultura, anche in senso antropologico, retaggio ed elaborazione continua di convinzioni, arte e bellezza nel senso più alto possibile, ha sempre ruotato intorno e a partire dalla donna, cominciando dalla mea Domina per eccellenza: Maria, la Madre di Cristo. E’ questo un sigillo che, piaccia o no, ha costruito ed orientato tutto il nostro modo di riconoscerci e di avviare il nostro rapporto/confronto con noi stessi, gli altri, la società i problemi materiali e temporali e, finalmente, col Trascendente.

Fioretta Mazzei (1923-1998)1) era una donna che si riconosceva pienamente in questa civiltà che, a Firenze, trova sicuramente nel corso dei secoli, alcune delle sue più significative manifestazioni.

Nasce a Firenze il 26 settembre 1923 da una famiglia di antica nobiltà fiorentina. Conosce fin da bambina, nella cerchia delle amicizie paterne, alcune importanti figure di santità come don Giulio Facibeni e Giorgio La Pira.

Fioretta compie gli studi liceali al collegio del Sacro Cuore sul viale dei Colli, poi si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dove si laureerà con una tesi sul Rinascimento con Eugenio Garin. Dall’8 settembre 1943 Giorgio La Pira, ricercato dai fascisti, sarà ospitato e nascosto dal padre di Fioretta, Iacopo – economista e docente prima alla Cattolica di Milano e poi all’Università di Firenze – nella villa di campagna a Fonterutoli, nel Chianti senese. In quei tre mesi di studio della Somma teologica di Tommaso d’Aquino e di conversazioni, matura il sodalizio d’amicizia spirituale tra La Pira e Fioretta al servizio del Regno di Dio e del bene comune. Negli anni Quaranta Fioretta riflette profondamente sulla propria vocazione finché, nella Settimana Santa del 1947, matura irrevocabilmente la sua scelta: si consacra privatamente a Dio nel triplice voto di castità, povertà e obbedienza, decidendo di restare nel mondo per portare il mondo a Dio. Intanto, con altre amiche e con un giovane sacerdote suo coetaneo, don Danilo Cubattoli, suoi compagni “d’avventura cristiana”, si dedica alle ragazze ed ai ragazzi del suo quartiere, S. Frediano, spesso trascurati ed in condizione di povertà. Per loro, oltre all’aiuto nello studio ed all’istruzione religiosa, Fioretta apre l’esperienza delle vacanze, in realtà momenti di maturazione umana e cristiana, in montagna, nella foresta di Vallombrosa. Per decenni quell’esperienza, tuttora aperta, segnerà in positivo la crescita di intere generazioni.

Nel 1951 Fioretta Mazzei inizia la sua vita pubblica: entra nel consiglio comunale di Firenze, con La Pira sindaco, eletta nelle liste democristiane e vi resterà, con brevi intervalli, fino al 1995, fatto più unico che raro nel panorama politico italiano: sempre rieletta per la totale fiducia che i fiorentini nutrono in lei. Ancora dal 1951 Fioretta insegna Religione e Francese negli istituti superiori, il che le darà modo di avvicinare e formare, nel corso dei decenni, migliaia di giovani, accompagnandoli nel loro percorso di crescita e di maturazione personale.

L’aveva respirata, conosciuta e fatta propria a partire dalla sua antica famiglia di stampo piagnone, cioè savonaroliano, tutta intrisa di storia fiorentina, il che fa tutt’uno con molte delle espressioni più alte della civiltà cristiana tout court: da Dante, passando per S. Filippo Neri, con la sua mistica della gioia scanzonata e semplice, quell’Amor Dei che demistifica le situazioni umane e ne svela la loro verità; all’amore mistico e nascosto agli occhi umani della carmelitana S. Maria Maddalena de’ Pazzi, il cui convento – oggi seminario arcivescovile – sorgeva nel rione di S. Frediano, il quartiere dove Fioretta è nata e vissuta. Fino ai santi fiorentini contemporanei, che Fioretta ha frequentato fin da bambina: da Don Facibeni a Don Bensi, a La Pira naturalmente. Senza dimenticare l’incidenza del padre economista, che si pose sempre il problema del lavoro e di una più equa distribuzione sociale della ricchezza.

Tuttavia, quella pienezza di vita interiore, intellettuale e spirituale che traspariva ed affiorava nel suo vivere, quasi suo malgrado, ci è stata consegnata e restituita complessivamente, dopo la morte, attraverso i suoi diari spirituali, vergati con fedeltà quasi ininterrotta dagli anni dell’adolescenza fino agli ultimi mesi di vita. L’impostazione varia e ricca della sua esistenza procedeva da una premessa educativa, per così dire: la fede in Cristo è portatrice di civiltà e questa civiltà, a sua volta, rispecchia Dio, cioè il suo ordine di valori, in cui ogni uomo trova il suo posto, la sua dignità e la sua pace.

Sono innumerevoli le famiglie che si costituiscono con il suo sostegno ed incoraggiamento. Il sindaco La Pira associa sempre più strettamente Fioretta Mazzei alla sua azione politico-amministrativa. Fioretta assumerà la responsabilità di vari assessorati nel tempo: Pubblica Istruzione, Cultura e relazioni internazionali, Sicurezza sociale e il suo ruolo pubblico si prolungherà e rafforzerà ben oltre la parabola politica delle giunte La Pira, anche se lei percepirà sempre l’impegno politico come un’aggiunta alle proprie decisioni esistenziali. Ma la veste pubblica la porterà ad avere intensi e prolungati contatti e rapporti internazionali, che resteranno fino al termine della sua vita.

Dopo la morte di Giorgio La Pira dà vita alla Fondazione omonima che presiede fino alla morte ed in questa veste promuove un’intensa attività culturale. Non interrompe mai il rapporto e l’aiuto ai poveri: nella sua casa, vero cenacolo, sempre aperta, ospita ragazze e persone in difficoltà. Coltiva per lunghi anni la consuetudine d’amicizia e d’affetto con il gruppo fiorentino dell’Amicizia ebraico-cristiana, di cui si occupa, divenendone presidente, dal 1977, anno della morte di La Pira. Dal 1990 al ’95 è presidente della Commissione per la pace del Comune di Firenze, un organismo pensato appositamente per lei. In questa veste promuove il gemellaggio tra Firenze e Nazareth, nel nome dell’Annunziata: con questo nome è venerata a Firenze, la Madre di Dio. Muore a Firenze l’11 novembre 1998 alle tre del pomeriggio, come Gesù, nella memoria di S. Martino di Tours, colui che fece a mezzo del suo mantello con il povero.

Per questo era per lei assolutamente necessario trasmettere le ricchezze millenarie della civiltà giudaico-cristiana al futuro, consegnarla alle nuove generazioni per nuovi ed impensati accrescimenti, senza stancarsi di parlare, ricordare, ri-chiamare, cioè radunare ancora vicino quelli che se ne erano allontanati in preda al sonno della coscienza, cioè della consapevolezza. Da qui la centralità nella sua vita dell’attività di insegnante, oltre a quella di donna politica, di educatrice di generazioni di adolescenti e di giovani: il futuro del mondo.  Mossa contemporaneamente dalla certezza, così facendo, di fare opera di pace che, tomisticamente, non è una variabile indipendente da tutto il resto ma la risultante di un ordine stabilito, non dagli uomini secondo logiche utilitaristiche e di dominio, ma voluto da Dio e da Lui rivelato. Sorge così, una chiamata alla fede e all’apostolato precocemente avvertita: Ricordo, – scrive – piccolissima, credo forse a 4 o 5 anni, davanti a una statua di S. Teresina che mi spiegavano, di aver deciso anch’io di rispondere a Dio con amore. Ricordo a quindici anni di aver pensato con chiarezza in cucina a Fonterutoli di non sposarmi, di averlo già pregato… molto prima davanti alla Madonnina in camera mia, di averlo seriamente impostato.

Poi questa vocazione da privata divenne pubblica: accanto a Giorgio La Pira e dopo di lui. E in questo ambito Fioretta profuse, in tappe diverse e di sempre crescenti responsabilità ed autorevolezza, con una generosità uguagliata solo dalla sua lucidità politica, ogni sforzo creativo per la sua Firenze, amata con  la forza di convinzione di chi conosce perfettamente la sua storia, vi si riconosce e ne comprende la portata universalistica.

Vorrei provare a identificare a grandi linee, quelle tappe, nei loro connotati essenziali,  sapendo che esse sono sempre affiancate ed illuminate da altre conquiste, di natura interiore e spirituale, in cui procedono insieme la riflessione e la maturazione del pensiero e dello spirito, cioè l’evolvere del Magistero dello Spirito Santo in lei: Il punto centrale, intorno a cui gravita tutta la morale, tutta la vita interiore? La nostra unione con Dio.

E’ questa la caratteristica saliente della personalità di Fioretta Mazzei, certo una delle figure più originali e poliedriche del laicato cattolico italiano del Novecento: l’affiancare senza soluzione di continuità, ma sapendoli distinguere, l’umano e il divino, il temporale e lo spirituale, una vita privata quasi “mangiata” dall’aspetto pubblico e che tuttavia è riuscita a preservare la semplicità e la freschezza dei rapporti umani di amicizia e di estrema vicinanza ai poveri e ai sofferenti, senza ombra di pietismo e con una carica di compartecipazione familiare da lasciare sbalorditi.

Era l’amica che arrivava d’improvviso carica di doni e, prima ancora, del suo dono più prezioso: la sua sobria, affettuosa amicizia che colmava completamente le distanze, in una umiltà appresa ed ostinatamente perseguita alla scuola della Vergine Maria, Colei che, in fretta, – dopo l’annuncio dell’Angelo – si reca dalla cugina Elisabetta, incinta di sei mesi, per servirla e starle vicino (Lc 1,39-45).

 

 Gli anni decisivi della chiamata contemplativa nel mondo

Il decennio degli anni Cinquanta è decisivo e definitivo per la sua compiuta maturazione di donna e di cristiana. Anni di intense riflessioni sulla sua vocazione, di chiarificazione sulle modalità in cui può esprimersi, di puntualizzazione interiore del rapporto col Signore e con gli altri. Fioretta ribadisce e scava ancor più la sua chiamata contemplativa nel mondo, intimo e più sicuro baluardo nelle tempeste mondane, risposta piena agli inviti d’amore che il Cristo le rivolge:

La Comunione ogni giorno. E’ il centro della nostra vita. La ragion d’essere della nostra vita: può non essercene nessun’altra e una vita essere del tutto completa, avere il suo pieno significato. Non si turbi il cuor vostro, dice Gesù. In realtà il cuor nostro si turba dalla mattina alla sera, il cuor nostro piange, il cuor nostro si stanca.

L’unico punto del cuore, l’unico posto dove bisogna ritornare e dove bisogna sempre vivere è qui, nel mistero dell’Eucaristia, qui dove c’è il Signore che ascolta, il Signore dato a noi. E non abbiamo bisogno d’altri, però qui è anche l’unione con gli altri, con tutti gli altri, senza i muri, le barriere, senza le sofferenze così profonde che nascono dal commercio con gli altri. In Lui, nel suo cuore, esiste una pacificazione profonda, un’armonia. La carità nasce qui. L’Eucaristia, cuore del mondo e cuore del mio mondo nel mondo.

E ancora prima, nel 1946: Le cose piccole sono quelle che contano e che piacciono a Dio. Quelle nascoste che solo Lui vede. Quelle segrete nel cuore dell’uomo.. O Signore, bisogna diventare più dolci, più fiduciosi, più attenti, guardare attentamente e fare bene il dettaglio, che è quello che conta.

Possiamo distinguere chiaramente una prima, lunga, operosa fase politica segnata dalla strettissima collaborazione  e dal sodalizio di una vita, spirituale, amicale e politico di Fioretta Mazzei con Giorgio La Pira. Non è questa la sede per una analisi attenta e puntuale di quel quindicennio (1951-1965), certamente il più fecondo, ricco e felice della storia fiorentina del Novecento, senza alcun dubbio e paragone. Un periodo da ripercorrere comunque, riconoscendovi la significanza davvero storica di quella che fu, per la città e la Chiesa di Firenze, ma anche per l’Italia, una vera epopea. Ma certamente possiamo sottolineare ora una delle consapevolezze centrali nella riflessione di Fioretta, che ne determinarono anche le scelte storiche: la riflessione sulla natura e i compiti della vocazione laicale cristiana nella società.

Sono frequenti i testi diaristici degli anni Cinquanta, centrali nella maturazione della sua fisionomia intellettuale e spirituale, ma anche successivi, che documentano l’importanza di questo tema nella sua ricerca interiore. E la forza chiarificatrice con cui ne solca i lineamenti ed il perimetro appaiono impressionanti ancora e forse più oggi, in cui debolezza di pensiero e confusione di visione purtroppo non mancano davvero.

Scrive nei suoi appunti privati nel 1958: Essere laici non per amare meno, non per essere meno santi e neanche, sotto certi aspetti, meno ascetici. Essere laici per arrivare col mondo di tutte le cose, per accettare ed amare tutto, tutto quello che hai creato ed amato. Per fare un atto di fondamentale ottimismo, credere nel battesimo. Nel tuo sangue sparso su tutte le cose, per credere che tu arrivi ovunque. Non per amare meno o essere più distratti, o Signore! Per essere ricchi di speranza, virtù teologale. Per intravedere dietro le cose visibili le invisibili, che Tu hai create e che sono altrettanto presenti. Amarti come ti amava la Madonna andandosene per i monti da S. Elisabetta… come ti amava guardando tutta la storia, conoscendo tutta la profezia e riconoscendone il compimento e tutto l’avvenire.. Amarti come chiunque ti può amare tra le spinte di quaggiù, in questa ansia comune, in questo sopraffarsi continuo. Arrivare certo con meno stile, con più debolezze, con più povertà ma, o Signore, che puoi tutto, che non sei legato e soffi dove vuoi, concedi: non con meno amore.

Appare evidente in questo efficacissimo e poetico passo, una sintesi potente della piena consapevolezza di Fioretta Mazzei che quella laicale è una vocazione specifica nella Chiesa, con tutta la dignità e la responsabilità del crisma battesimale e non un minus di maggiore comodità e, in fondo, casualità nelle scelte esistenziali del credente. E tale coscienza appare assai significativa e precorritrice delle conclusioni conciliari a proposito della vocazione e dell’impegno dei laici nel mondo contemporaneo e ancor più affascinante la sua specifica cifra di libertà cristiana in quanto donna, che trova  nell’amore oblativo il suo primato creaturale anche rispetto all’uomo.

Tuttavia, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la società italiana nel suo complesso, al di là delle contrapposizioni politico-ideologiche del momento, poteva apparire ancora salda nei valori fondanti, enunciati anche nella prima parte della carta costituzionale, e la Chiesa cattolica sembrava mostrare compattezza e coesione al suo interno, Fioretta Mazzei con le antenne sensibili di una intelligenza fortemente intuitiva e di una fede viva e pronta al movimento dello Spirito, non si sente affatto tranquilla e men che meno ritiene di potersi riposare, come se tutto il defatigante lavoro della ricostruzione materiale e morale del paese fosse compiuto una volta per tutte. Anzi, nonostante le apparenze “rassicuranti”, per così dire, già coglie e analizza con raro acume e coraggiosa individuazione le avvisaglie della gravissima crisi di fede, di pensiero e di relazioni interpersonali che si stanno addensando sulla Chiesa e sulla società italiana nel suo complesso; di quel relativismo secolarista di cui solo oggi, probabilmente, raccogliamo i frutti più amari. Comprende che anche i valori e le istituzioni civili, quando vengano meno nelle coscienze le ragioni profonde che li hanno determinati, cosicché le convinzioni che uniscono diventano mere convenzioni formali, sono perciò stesso destituiti di senso, messi in forse e  rischia di venir meno la loro stessa legittimazione morale. In una nota di diario del febbraio 1958 osserva con il suo consueto stile asciutto e demistificante:

Lo spezzettamento del nostro mondo. E’ quel che ferisce di più, che lascia perplessi. Siamo spezzati con i nostri fratelli, siamo spezzati in noi stessi. E come in noi stessi ciò che ci unifica, ciò che ci salva, che ci sana, che risuscita, che dà un senso e un indirizzo, è l’amor di Dio; così fuori di noi, intorno a noi, coi nostri fratelli ci vuole il medesimo amor di Dio che ci unifica dandoci una meta. Ci parlano di democrazia come di un dogma e il baco, il larvato scetticismo di cui è ammalata tutta la nostra democrazia ha fatto ammalare anche tutti noi. Nel sorridere e dolcemente inchinarci a tutti i pareri, nel sottomettersi a quello dei più, e solo perché è dei più e non il migliore, abbiamo tutti perso una meta e una ragione di vivere.

Quando abbiamo guidato le cose e non abbiamo guidato chiaro: “dobbiamo arrivare lì a tutti i costi”. Forse ci siamo anche arrivati, ma con diplomazia e quindi non abbiamo suscitato entusiasmo, se non a volte, un entusiasmo intellettuale per la bella testa che ha saputo girar le cose (De Gasperi- tri- quadri-partito ecc.). Ma senza il cuore. Il cuore della nostra gente è fermo, per questo ci si bisticcia. E invece, per arrivare a qualcosa ci vuole entusiasmo, un grande entusiasmo e basato sulle più valevoli convinzioni umane, perché allora dura, nutrito di sacrificio che lo tiene in vita e guidato, molto guidato da un capopopolo. E nel mondo di oggi, mentalmente così confuso per tutte le novità e le instabilità, il capopopolo deve richiamarsi ai valori eterni. Deve parlare di Dio, ed è poco: deve crederci. Se non ci fosse una storia sacra da costruire, bisognerebbe inventarla per far diventare cristiani i cristiani. 

E’ anche del tutto evidente da questa citazione come Fioretta Mazzei sia convinta di una teologia della storia, di un disegno anche storico, temporale oltre che spirituale, di Dio che deve compiersi attraverso la collaborazione dell’uomo, non solo singolarmente ma anche nei popoli attraverso un’azione politica organizzata.

 

– La traversata nel tempo del deserto

Nel momento dell’estromissione politica di La Pira dal governo fiorentino, nel 1965, Fioretta rifiutò di ricandidarsi perché l’assenza di La Pira significava per lei anche il disconoscimento di quella politica comune a entrambi, di quell’orizzonte ideale, di fede, di pensiero, di prospettive sociali, economiche, culturali e civili che insieme avevano propugnato e vigorosamente attuato. Le pagine dei suoi diari di quei mesi segnalano asciuttamente le sue scelte ed il suo stato d’animo, pacificato e distaccato da ogni passione di potere. Anzi: il sollievo per una riconquistata libertà soggettiva di organizzare le sue giornate ed una vita che, a torto, riteneva essere tornata privata.

Ma ben presto, maturano altre consapevolezze e possibilità. Nella cerchia di La Pira, che si è fatta ridottissima  dopo gli anni del potere, e soprattutto da parte di lui e di quella ampia rete di amici e di relazioni che riconoscono il valore, le capacità politiche e di visione complessiva della città da parte di lei, si comincia a spingere Fioretta perché accetti di nuovo una candidatura nelle fila democristiane e torni in Palazzo Vecchio a servire  e difendere la sua gente: Mi accorgo – scrive – che non sono tornata affatto a vita privata. Volere o volare non ci riesco più. Non mi è permesso!  E’ la gente che ti esige in una certa dimensione, e non c’è nulla da fare. Eppure non arrivo. Non rispondo alla posta perché non ce la fo e altri dettagli. Ma non c’è nulla da fare: devo continuare perché non si può smettere.

Si profila così un nuovo impegno negli anni Settanta come assessore alla cultura, alla gioventù e alle relazioni internazionali: un inedito nel lessico e nelle funzioni politiche di un assessore del tempo. Fioretta riapre Firenze al mondo, con memorabili iniziative culturali e privilegiando l’aspetto più decisivo e a lei congeniale: quello del coinvolgimento delle giovani generazioni in una storia di civiltà, quella fiorentina, che ha saputo esprimere ai massimi livelli i “valori di vertice” di Dio.

Ma lo spirito del tempo volgeva in altra direzione: la prospera società italiana di allora ha in gran parte abbandonato la lettura provvidenziale della storia per abbracciare una prospettiva di sostanziale relativismo materialista, sempre più sordo al richiamo della millenaria ricchezza di Umanesimo cristiano e di civiltà della sua gente, oltre che della sua arte, così ramificata nel territorio, nel suo paesaggio modellato di equilibrio e di una sapienza scaturita dalla fede fatta cultura. Gli anni Settanta sono, per  antonomasia, il decennio delle fratture, delle faglie incise nel tessuto vivo e profondo dei fondamenti della nostra civiltà. E queste faglie tagliano trasversalmente  tutti gli ambienti e i settori, anche per lo storico avanzamento, gestito da élites ristrettissime, di quel processo di integrazione europea di cui forse soltanto oggi siamo in grado di cogliere tutte le potenzialità inespresse o tradite e anche, diciamolo, tutti i limiti di un certo personale e modello di attuazione. Limiti e deriva che Fioretta, al solito, coglie in profondità col suo disarmante, politicamente scorrettissimo anticonformismo, con lo sguardo intuitivo e quasi profetico della sua libertà cristiana. Scrive nel 1970:

Sono stata di nuovo in Italia meridionale, questa volta in Puglia.. per Natale. E mi sono resa conto per l’ennesima volta che non conosciamo l’Italia, con le sue ricchezze così radicate, le sue civiltà così abbarbicate agli alberi, alle case, alle chiese antiche e meravigliose che nessuna orda barbarica nordica le sradicherà, nonostante tutto.

Mi vien fatto ogni tanto di pensare al MEC e all’Europa unita come alle invasioni barbariche per noi. Cioè ad una preponderante influenza nordica che non tollereremo in definitiva perché, diciamolo pure, tanto più povera di noi. Si ha voglia di cantare: meno civili! Se qualcuno mi leggesse ora mi darebbe di pazza, ma nel tempo chissà! A mio istinto la salvezza viene dal meridione. Qui a Firenze come in tutta Europa, del resto, l’atmosfera è a bollore, a causa degli studenti e dei preti. Due settori in ebollizione e che, stranamente e a loro insaputa, probabilmente si tengono per mano.

Prima – scrive ancora in una nota di diario l’11 ottobre 1976 – era la festa della Maternità di Maria. Ora niente. Lo scrivo con malinconia perché è proprio di ieri il decreto di annullamento delle feste, quelle grosse: Ognissanti, Corpus Domini, Ascensione. Ne ho  tristezza perché penso che è un ulteriore laicizzazione, che poi riesce sempre ad intristirci, nient’altro. Essere laici ed essere tristi ecco il tutto. La festa è il retaggio dell’uomo in grazia, dell’uomo contento. La festa è, nella sua essenza, un’espressione religiosa.

In questo senso le vicende delle leggi sul divorzio e sull’aborto segnano uno spartiacque anche simbolico, una ferita non ancora rimarginata nella società e nella Chiesa italiana. Tale abbandono diviene anche politicamente evidente nelle elezioni amministrative del 1975, quando la DC perde Firenze, come molte altre grandi città italiane, che anche grazie a personaggi di grande spessore come La Pira e Fioretta Mazzei, e a molti altri, aveva conquistato e retto consecutivamente per un quarto di secolo.

Inizia ora una nuova, più difficile ed oscura se si vuole, ma non meno feconda e importante fase dell’impegno di pensiero cristiano, come civile e politico di Fioretta Mazzei. Un decennio duro, quello degli anni Settanta, anche sul piano personale (la scomparsa della madre nel ’72, quella di La Pira nel ’77) ma intensissimo e costruttivo.  L’eredità di La Pira è enorme ed è lei, da ora in poi l’erede politica e l’interprete autorevole e riconosciuta ma anche creativa e libera.

Nel 1978 Fioretta dà vita alla Fondazione La Pira, di cui sarà presidente fino alla morte, e in questa veste continua a girare in lungo e in largo l’Italia chiamata e cercata ovunque, perché i principi e la testimonianza spirituale e politica di lui vengono da lei incarnati in pienezza e creatività tali da dimostrarsi capaci di decifrare un altro tempo ed altre sfide, continuando ad alimentare ed innervare l’impegno dei laici cristiani in una diversa fase storica.

E insieme, Fioretta, nel suo ruolo di consigliere d’opposizione, ma largamente rispettata ed ascoltata per la sua larghezza di cuore, la lungimiranza e l’amore disinteressato alla città e al bene comune, non cessa di occuparsi di Firenze a cominciare dalla difesa dei poveri: Io difendo i deboli, amava ripetere, perché i forti si difendono anche da soli. E così nell’83, per un repentino cambio di maggioranza, fu ancora assessore stavolta alla Sicurezza sociale, ruolo che aveva voluto apposta: arrivò appena in tempo per bloccare la chiusura dell’Albergo popolare, già decisa dalla precedente giunta social-comunista  procedendo invece alla  sua riqualificazione con il contributo a titolo gratuito – mi piace ricordarlo – dell’amico pittore Luciano Guarnieri. L’operazione, per la verità, non venne molto apprezzata, anzi: Fioretta dovette subire attacchi giornalistici velenosi e gratuiti ma, come al solito, tirò dritto e l’albergo popolare  o, per dir meglio, i poveri, che vi trovano ancora un tetto, furono salvi.

In modo analogo salvò lo storico, brunelleschiano Istituto degli Innocenti dalla chiusura della sua storica destinazione per i bambini abbandonati, voluta dalla Signoria medicea nel Quattrocento: Fioretta con la collaborazione del governo italiano portò agli Innocenti la sezione nazionale dell’Unicef e, con un importante convegno internazionale, fece giungere alle Nazioni Unite la proposta di Firenze per la revisione della Convenzione Internazionale dei diritti dell’Infanzia. Poco dopo un nuovo ribaltone la riportò all’opposizione.

Si apre allora l’ultima, breve ma operosissima fase dell’attività pubblica di Fioretta nelle istituzioni comunali: la battaglia per  Firenze e per la pace. Due facce di una stessa visione prospettica, alla cui radice stava un progetto ideale e politico complessivo per l’Italia.

 

– La bellezza di Firenze, specchio e prefigurazione della Gerusalemme celeste

A Firenze, come altrove del resto, dagli anni Ottanta si afferma un’idea di città come mero agglomerato urbano, formato da funzioni e cubature di cui disporre a piacimento, senza considerazione e rispetto della storia che ha definito il volto della città e del popolo, organismo vivente che la anima, che ha esigenze e diritti naturali e civili da salvaguardare. Firenze presenta dinamiche delicate e faticose, si impone l’esigenza di un riordino delle sue funzioni e c’è uno “spirito del tempo” di cui fa parte il termine “decentramento” come una bacchetta magica. Si sostiene che il centro storico è sovraffollato di funzioni, in particolare quella giudiziaria, e ben presto si individua l’ex area Fiat, a Novoli, nel settore nord-ovest della città, come la più adatta per riunire tutte le funzioni giudiziarie in un unico contenitore, la mega-struttura del palazzo di giustizia, per il quale viene scelto un progetto già vecchio, di mole gigantesca, che cozza vistosamente con lo stile, i valori architettonici, lo skyline stesso della città. Tutti plaudono ma Fioretta è indignata di un progetto che giudica orrendo: così invasivo e apertamente in contrasto con i valori estetici e spirituali di Firenze, un progetto frutto anche di forti interessi speculativi. La sua opposizione è durissima ma isolata da tutti gli ambienti politici, compreso il suo.  Lottò come sapeva fare lei: con determinazione, lucidità e coraggio, ma vanamente.

Lo stesso accadde per il nuovo Pignone, la storica fabbrica fiorentina salvata da Mattei e La Pira, e divenuta nel corso degli anni una azienda strategica dell’industria italiana, sia dal punto di vista economico come da quello politico. Uno strumento all’avanguardia dal punto di vista delle competenze umane e delle tecnologie, capace di travalicare gli schemi delle alleanze e degli schieramenti internazionali, anche grazie al quale per decenni l’Italia aveva potuto esercitare un ruolo di primo piano nella politica internazionale in favore della pace.

In piena tempesta di tangentopoli, quando il grido giustizialista servì da grimaldello per smantellare anche l’esperienza politica dei cattolici coprendoli, non sempre a ragione, di un disonore complessivamente immeritato, Fioretta Mazzei alzò forte la sua voce: difese l’italianità del Pignone, difese, ancora una volta in solitudine, il progetto complessivo di paese di cui quell’azienda era divenuta il simbolo nel corso dei decenni.

Così come soffrì profondamente per l’implosione della Democrazia Cristiana, in cui aveva militato, senza mai averne la tessera, fin da quel fatidico 1951 e per il cambiamento del nome in partito popolare, perché vi avvertiva la liquidazione frettolosa di una vicenda cinquantennale che aveva dato all’Italia, lavoro, prosperità, libertà e pace. Mi disse, in quei giorni: Un giorno si studierà con rimpianto il nostro tempo e, quanto al partito dei cattolici, chissà quando e se rinascerà. Era stata profetica, visti i giorni che stiamo attraversando.

Ed eccoci, finalmente, alla parola-chiave, al filo d’oro che ha connotato non solo tutta la sua esperienza politica, ma ancor prima la sua esistenza di donna e di cristiana: la pace di Cristo, annunzio di una Risurrezione non solo individuale, ma anche storica e cosmica, che deve estendersi ad ogni cosa. Il sigillo per eccellenza: Guarda – mi disse un giorno – per me la cosa fondamentale è la pace, il resto viene dopo.

Ma la pace è una risultante e richiede lavoro per essere conseguita, anche se mai stabilmente. Così, dopo la grande gioia provata con l’avvento di Gorbaciov e poi con la caduta del muro di Berlino, Fioretta resta inquieta, non vede la tanto conclamata “fine della storia”, al contrario, assiste preoccupata al profilarsi di nuove guerre, con nuovi pretesti. Nel 1990 la nuova maggioranza di Palazzo Vecchio, in cui era rientrata la DC , istituisce una nuova Commissione consiliare appositamente pensata per lei: la Commissione per la pace e Fioretta, in questa veste si oppone alla 1° guerra in Iraq e alle politiche belliciste che si accompagnano naturalmente al riarmo con la conseguente modificazione degli assetti economici e produttivi, a tutto vantaggio dell’industria militare e degli immensi interessi che vi gravitano intorno, di cui del resto anche oggi siamo insieme protagonisti e vittime.

Come presidente della Commissione per la pace promuove e realizza quello che può essere considerato il suo testamento insieme umano, politico e spirituale, poiché tali aspetti sono in realtà complementari: il gemellaggio tra Firenze, città dell’Annunziata e Nazareth, città dell’Annunciazione. Anche un segno di predilezione rivolto a Maria e insieme la rivelazione più profonda dell’anima sua,  tutta protesa al silenzio, al nascondimento, in un’umiltà altissima e di disarmante semplicità, profezia di un mondo e di un tempo pacificato – come scrisse allora in cui Nazareth è ancora protagonista: in quell’incrocio di popoli di oggi continua una lezione di convivenza e di possibilità di pace.. perché anche agli occhi del mondo sia unita e benedetta la terra di Gesù, annunziato a Nazareth.

E Firenze non lo ha ancora scoperto! Infine, l’ultimo, estremo pensiero, è ancora per lei, per Firenze. A pochi giorni dalla morte detta uno splendido messaggio sulla bellezza di Firenze, riflesso della Grazia, il suo testamento per la città:

La bellezza in realtà è l’apice della situazione umana, tant’è vero che si usa dire che l’atto massimo dell’uomo è la contemplazione, cioè la visione di un qualche cosa di gran lunga superiore a quello che abbiamo intorno. La Pira mi raccontava che a 15-16 anni, ascoltando cantare le suore del convento di Maria a Messina, aveva avuto l’impressione che esistevano delle bellezze straordinarie che superavano qualunque aspettativa e ci potevano essere concesse. E’ la preghiera che genera la bellezza e la poesia. Infatti La Pira scelse per il secondo Convegno per la pace e civiltà cristiana (1953) proprio il tema “Preghiera e poesia”. Quanti uomini seguaci delle ideologie hanno speso la vita nelle lotte, nelle rivoluzioni e nelle guerre, per “cambiare la società”! E’ solo la bellezza che trasforma una società. Domandiamoci cosa sarebbe Firenze senza la cupola, senza Palazzo Vecchio, senza questa simmetria anche interna che collega il granaio (Orsanmichele) alle più alte espressioni civili e religiose..

Abbiate pazienza ma non posso di più, posso solo dirvi che Firenze e la sua poesia mi vive nel cuore ed è in questi giorni uno dei motivi delle mie consolazioni, perché mi richiama visivamente alla fede grandiosa dei nostri padri: con la cupola e il suo architetto e gli immensi valori civili e umani che Palazzo Vecchio, con la sua torre arcigna, in cui convivono però i merli guelfi e ghibellini, ci indica come i più alti. Se si leva tutto questo Firenze o non esiste o non ha alcun valore. Nel suo discorso di Ginevra (1954) La Pira ammonì: – Le generazioni presenti non hanno il diritto di distruggere un patrimonio a loro consegnato in vista delle generazioni future! Si tratta di beni a loro pervenuti dalle generazioni passate e rispetto ai quali esse hanno la veste giuridica di eredi fiduciari.

La dominante di Firenze è la bellezza, la bellezza in un ordine, in una misura. Il segreto della bellezza è anche la misura e Firenze è una città misurata che sfugge le esagerazioni. Anche il barocco, che pure è pieno di effusioni, fa fatica qui, per paura dell’eccesso. E lo stesso manierismo del Rosso e del Pontormo sono una rimisurazione. Un altro aspetto della bellezza sta nel piccolo e non nel grande, quindi nell’armonia del piccolo. Una città può riflettere una bellezza addirittura superiore alla bellezza di un viso perché è una bellezza comunitaria, voluta da tutti, condivisa. E come perfino la bellezza naturale ha bisogno di essere accompagnata, scoperta, anche corretta dallo sguardo e dalla mano dell’uomo, così la bellezza cittadina ha bisogno di una partecipazione cittadina, di un occhio d’amore collettivo.

Il degrado di tante città è dovuto proprio a questo, alla non educazione, alla non comunità. La vita comunitaria riflette la vita del cielo con i suoi misteri che non sono solitari. L’arte poi è sinonimo di libertà, la bellezza conduce ed esige libertà. “I heard last night neath Casa Guidi’s windows by the church a little child go singing ‘O bella libertà! Oh bella!” (Ho sentito stanotte, sotto le finestre di casa Guidi accanto alla chiesa, un bambinetto che passava cantando ‘O bella libertà! O bella!) si legge sulla casa di Elisabeth Barrett Browning. Perché il nostro occhio sia capace in profondità di bellezza e di poesia ci vuole lo stesso atteggiamento interiore umile, semplice, costante. E’ vero che con i tempi il senso della bellezza può fare nuove scoperte, talvolta di grande semplificazione, però non può prescindere da una scelta in qualche modo comune, che ne dia anche la misura perché, nonostante tutto, camminiamo verso il massimo del semplice, dell’umile e del lineare: Dio è semplice. La corruzione e il denaro possono investire tutto, ma non è da questa analisi che ne usciamo, ma in un rinnovamento interiore al quale in fondo tutti aspiriamo e a cui non vogliamo rinunciare.

Eccoci dunque al cuore della questione. Fioretta Mazzei era persuasa, e non da sola ovviamente, della necessità stringente di una conversione intellettuale e spirituale, come premessa ineludibile per un autentico rinnovamento della società. Cui si accompagnava l’altrettanto profonda convinzione di una funzione storica, di una missione temporale dei laici cristiani, senza spogliarsi della propria fede o rintanarla nel privato.  

Al contrario, la manifestazione libera – e rispettosa delle convinzioni altrui – dell’ispirazione religiosa è liberante e capace di concorrere a costruire una società libera e accogliente per tutti.

E’ la sfida anche dell’oggi: di fronte a questa Italia, e a questa Europa, contraddittorie e smarrite, resta indispensabile l’apporto di cristiani retti e veraci, preparati e coraggiosi, politicamente organizzati e coesi, perché senza l’aggancio alla Verità che salva, ogni tentativo di costruire un ordine sociale, civile e politico per l’uomo naufraga nella menzogna, nella corruzione e nell’ipocrisia e si rovescia nel suo contrario, come l’attualità ci dimostra fin troppo.

 

Spes contra Spem 2015: intervento di Maurizio Renzini

 

Giorgio La Pira e Thomas Merton  

Un’amicizia e un comune impegno per la pace

di Maurizio Renzini

 

Premessa

Questo intervento, riguardante l’amicizia e l’azione parallela di due grandi personalità cattoliche della nostra storia recente, viene da me svolto in qualità di presidente dell’Associazione Thomas Merton Italia, che si interessa di promuovere e diffondere la conoscenza dello scrittore trappista americano, del quale quest’anno celebriamo il centenario della nascita. Esso fa riferimento a un mio articolo redatto sulla base della documentazione fornitami dal Thomas Merton Center presso la Bellarmine University nel Kentucky (USA) e pubblicato nel volume Universal Vision a cura della Thomas Merton Society of Great Britain and Ireland.

Ritengo necessari alcuni  cenni figura di Thomas Merton (nella foto a sinistra rispetto a Giorgio La Pira). Nato a Prades, sui Pirenei francesi, il 31 gennaio 1915. A ventisei anni, dopo una giovinezza brillante ma irrequieta e segnata da traumi familiari, entrò in uno dei più rigorosi monasteri cistercensi americani. Qui divenne un prolifico e famoso scrittore, conosciuto soprattutto per l’autobiografia La montagna dalle sette balze. Costituisce una figura di riferimento nel panorama culturale cattolico del ventesimo secolo, per il grande valore della sua intera produzione, costituita di oltre cinquanta libri, numerosi saggi e composizioni poetiche, diari e lettere raccolti rispettivamente in sette e cinque volumi. Egli  condusse una vita contemplativa ma entrò anche nell’arena del  mondo, operando contro la guerra e la discriminazione sociale. Profondo conoscitore del pensiero orientale, è stato un pioniere del dialogo interreligioso. Morì tragicamente a Bangkok il 10 dicembre 1968 poco dopo aver tenuto una conferenza nell’ambito di un convegno internazionale sul monachesimo.

 

Il sindaco santo

«Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza» (Rom 4,18). Questo passo , tratto dalla lettera ai Romani di San Paolo e riguardante la figura e il ruolo di Abramo nella storia, costituisce il costante riferimento per l’azione umana, spirituale e sociale di Giorgio La Pira (Pozzallo, 1904 – Firenze, 1977), una delle figure più significative nel panorama politico e culturale italiano. Proveniente da un’umile famiglia siciliana, fu docente di Diritto romano all’Università di Firenze e sindaco di questa città; ebbe anche vari incarichi parlamentari sempre operando sulla base di una solida fede cristiana, in coerenza con la sua scelta di appartenere all’ordine terziario dei Domenicani. Spes contra spem fu il motto per la sua azione energica e continua verso soluzioni di pace sulla terra, pur consapevole delle barriere culturali, religiose e politiche che rendevano arduo ogni confronto. Era mosso dalla radicale convinzione dell’azione di Dio nella storia e della necessità di riunificare tutti i popoli che per fede si riconoscono discendenti di Abramo. Quindi cristiani, ebrei e musulmani avrebbero dovuto incontrarsi in un processo di pace ed egli vedeva nel Mediterraneo l’analogo del grande lago di Tiberiade dove Gesù, solcando le acque, aprì la strada per l’abbattimento delle barriere. Qui la riunificazione nel medesimo Dio avrebbe assicurato lo stesso effetto su tutti gli altri popoli perché, come La Pira affermava, «il Medio Oriente è oggi il centro di gravitazione attorno al quale si muove la storia politica del mondo: la pace o la discordia di Gerusalemme sono, e saranno sempre più, i sintomi rivelatori della pace o della discordia delle nazioni»1.

Egli fece di Firenze, della quale fu sindaco dal 1951 al 1958 e dal 1961 al 1966, la città simbolo della pace promuovendo i «Colloqui Mediterranei» , quattro importanti occasioni d’incontro tra i popoli del bacino mediterraneo, e il Convegno tra i sindaci delle capitali del mondo con lo scopo di «unire le città per unire le nazioni». Coinvolse le più importanti personalità della politica e della cultura internazionali del suo tempo, viaggiando anche molto nella sua incessante missione di pace, mosso dall’utopia profetica di Isaia: «forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci» (Is 2,4). Per tutto questo, ma anche per le opere di grande rilevanza sociale che La Pira realizzò a Firenze, in particolare a favore della povera gente, sempre animato da una profonda pietà cristiana che egli alimentava con la preghiera e con uno spirito autenticamente contemplativo, i suoi concittadini lo chiamavano il «sindaco santo». E’ onorato come Servo di Dio dalla Chiesa cattolica ed è stato da tempo avviato per lui il processo di beatificazione.

La via di Isaia 

Giorgio La Pira nel 1961 aveva ricevuto una copia del saggio Christian Ethics and Nuclear War di Thomas Merton e da lui stesso inviato alla redazione del mensile Rocca della Pro Civitate Cristiana. Nonostante l’insistenza del sindaco di Firenze esso non venne allora pubblicato, in considerazione che gli scritti del monaco trappista contro gli armamenti erano stati messi sotto censura dai superiori del suo Ordine.

La Pira era quindi a conoscenza dell’impegno di Merton contro la guerra, e soprattutto contro quella a carattere globale, e volle fargli visita al monastero del Gethsemani in occasione di un suo viaggio negli USA, nel 1964, per un gemellaggio tra Filadelfia e Firenze, nel corso del quale si confrontò con personalità di grande rilievo nella scena politica internazionale e tra queste il segretario generale dell’ONU U-Thant.  L’incontro tra i due avvenne il 16 ottobre  con reciproco entusiasmo. Merton  definì  La Pira «ebulliently Christian, but a vey good head too»2 e si espresse dicendo che egli  «impressed everyone he met»3. Il giorno successivo il politico italiano vide Adlai Stevenson, ambasciatore americano all’ONU molto stimato per le spiccate dote umane e intellettuali tali da renderlo candidato alla presidenza USA per ben due volte. Contemporaneamente Merton scriveva al suo amico W.H. Ferry raccomandandogli La Pira per la conferenza che stava organizzando sull’enciclica Pacem in terris4. L’incontro al Gethsemani costituì l’avvio di un’amicizia profonda tra i due, radicata nella fede e nel comune impegno per la pace, seriamente minacciata anche dalla sconsiderata politica estera americana di quegli anni.

I primi di novembre 1964 La Pira inviò a Merton un telegramma in latino con il quale esprimeva un sentimento di profonda comunione spirituale : «Aperit vobis Dominus portas Paradisi sicut nobis aperistis portas Monasteri stop Orate pro Florentia et pro nobis» ( Che Dio vi apra le porte del Paradiso come voi ci avete aperto le porte del Monastero stop Pregate per Firenze e per noi). Nella risposta (in francese perché il sindaco di Firenze aveva una limitata conoscenza della lingua inglese) Merton lo ringraziò riferendogli anche la gioia dei suoi confratelli per la visita al loro “deserto”, ritenendola un dono della provvidenza divina. Gli espresse poi la condivisione di quella «teologia della storia» secondo la quale il Signore si manifesta nel mondo attraverso gli eventi degli uomini imperfetti ed è quindi nostro dovere riporre fiducia in Lui con la fede e con la preghiera5. La Pira sosteneva fermamente questo finalismo nel bene al quale l’unica alternativa è la distruzione totale del genere umano. Già Isaia aveva visto  «questo corso irreversibile della storia universale»6 che procede verso la foce della pace, pur con tutti gli ostacoli che si frappongono tra gli uomini. L’azione politica deve quindi mirare alla realizzazione piena del disegno di Dio. Merton dichiarava di non aver allora capito che cosa veramente il Concilio affermasse sulla pace e temeva l’atteggiamento belligerante del governo americano che rischiava di mascherare il grave pericolo di una guerra nucleare. Da parte di entrambi c’era una seria preoccupazione per la politica estera del Presidente Lyndon Johnson che era spinto dalla disastrosa illusione di liberare il mondo dal comunismo con la guerra nel Vietnam e con l’intervento militare nella Repubblica Dominicana. Su quest’ultimo La Pira elaborò delle riflessioni che espose al Consiglio comunale di Firenze e che subito dopo inviò a Merton il quale, con la sua lettera del 16 giugno 1965, condivise il contenuto di ferma condanna dell’azione americana ma manifestò anche preoccupazione per alcuni cambiamenti che stavano per essere apportati allo Schema 13, divenuto poi  la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes. Entrambi sentirono l’esigenza di scrivere al Santo Padre per esprimergli in maniera franca quello  che avrebbe dovuto essere l’impegno della Chiesa per un’autentica opera di pace. Con la  lettera che Merton inviò al suo amico italiano il 3 giugno 1965 così si esprimeva : «il faudrait au contraire aller encore plus loin que Joan XXIII et Paul VI dans leur encycliques. Mais enfin, si on ne va plus loin, il ne faut pas en toutes les renverser»7 (Bisognerebbe al contrario andare ancor più lontano di Giovanni XXIII e di Paolo VI nelle loro encicliche. Ma in ogni caso, se non si va più lontano, non si deve comunque sovvertire il tutto).

La Pira vedeva in Merton un autentico messaggero di pace  «portando il volto e il nome di Gesù»8 e apprese quindi con entusiasmo la notizia di una sua probabile visita all’ONU e alla Casa Bianca, invocando la grazia per la realizzazione di quell’«itinerario di salvezza», che si sarebbe collegato con varie altre azioni di pace in importanti capitali del mondo. Egli poneva tutto questo in continuità con il suo precedente viaggio in Palestina, effettuato con lo spirito della testimonianza della fede e della fratellanza universale : «…a Gerusalemme, in tutta la Giudea, in Samaria e sino agli ultimi capi della terra» (Atti 1,8). In una lettera inviata al senatore Robert Kennedy, copia della quale fu spedita anche al suo amico trappista, La Pira evidenziava la sua preoccupazione per l’aggravarsi della situazione in Vietnam, con un accorato appello a sostenere il messaggio storico e politico di suo fratello John: «o estingueremo la guerra o faremo del pianeta un rogo». Rivolgendosi a lui come un amico sincero gli esprimeva anche la necessità di «attraversare le frontiere nuove del mondo» che superano ogni schema ideologico e lo invitava a parlarne con Merton che sul tema della pace stava scrivendo intensamente e con grande sofferenza. Il senatore inviò una risposta che apriva «l’anima alla speranza» del disarmo, in cui  La Pira vedeva l’unica via della pace, la via di Isaia per cambiare in aratri le spade. Mosso dall’ardente desiderio di contribuire a «pacificare, unire, civilizzare il mondo»9 egli agiva intensamente da Firenze per costruire questa strada di salvezza, parallelamente e in piena sintonia con l’azione che Merton esercitava attraverso i suoi saggi, le sue lettere, i suoi contatti con personalità di rilievo della politica e della cultura del suo tempo, compresi membri della famiglia Kennedy con i quali era in corrispondenza già dal dicembre 1961 tramite la signora Ethel, moglie del senatore : «It seems to me that the great problem we face is not Russia but war itself. War is the main enemy and we are not going to fully make sense unless we see that. Unless we fight war, both in ourselves and in the Russians, and wherever else it may be, we are purely and simply going to be wrecked by the forces that are in us»10.

Ut unum sint era solito ripetere La Pira  per esprimere la forte esigenza di procedere verso l’incontro dei popoli , lo stesso percorso che indicava Merton per l’unificazione degli uomini in quanto epifania di Dio. Furono pertanto entrambi animati da un medesimo impegno per la pace sulla terra, consapevoli dei gravi pericoli derivanti da contrapposizioni per ragioni storiche, ideologiche o di pura affermazione del potere. Erano fermamente convinti che il problema della guerra andava affrontato alla radice, facendo cioè riscoprire la natura autentica dell’uomo, soprattutto la sua dimensione spirituale, attraverso l’incontro, il dialogo, la più ampia diffusione degli scritti per muovere le coscienze e per orientare le scelte di coloro che hanno responsabilità per il destino del mondo.

 

Firenze, città ferita

La Pira era consapevole che Firenze era un luogo privilegiato per l’incontro e per i suoi messaggi di pace, perché questa città non appartiene solo all’Italia ma al mondo intero. La sua bellezza, la sua storia, la sua arte, il suo fermento culturale ne fanno un crocevia per la civiltà. E’ una città in cui il confronto intellettuale e lo sviluppo del pensiero sono sempre stati ai più alti livelli. Lo stesso La Pira aveva qui trovato occasione di amicizia e di azione solidale con alcuni dei più acuti esponenti del pensiero cattolico degli anni sessanta e settanta, come Giuseppe Dossetti e padre Ernesto Balducci. Quest’ultimo, uno scrittore colto e illuminato da una visione profondamente ecumenica, scrisse, tra l’altro, una splendida prefazione all’edizione italiana di Faith and Violence di Thomas Merton, della quale quest’ultimo fu molto entusiasta.

L’ultima corrispondenza tra  il monaco trappista e il sindaco si riferisce al 18 gennaio 1967, due mesi dopo la disastrosa alluvione di Firenze, con un telegramma di La Pira in lingua inglese : «Beg you send us few lines for book on recent flood of Florence and meaning Florence in world  Please Urgently La Pira. » Merton, pur non avendo notizie dettagliate del disastro, rispose con una lettera e un breve saggio che compose quello stesso giorno. Qui esprimeva un profondo amore per la città di Firenze e tutto il suo turbamento per quel devastante evento: «Wherever disaster strikes at man, all men feel themselves threatened. But when disaster strikes at Florence, the knife is too close to the heart of our civilization. The shock and the alarm are universal: the worth and the very identity of our world are called into question»11. L’impegno profuso da migliaia di persone e gli aiuti  da ogni parte per ricomporre in breve tempo la città con il suo immenso patrimonio di arte e di cultura, gravemente compromesso, danno il senso del suo valore universale e inestimabile: «Florence calls all men to solidarity against the forces of unreason and death that would betray and dishonor in man the image of God »12.

 

Conclusione

Il breve incontro al monastero del Gethsemani dell’ottobre 1964 e la successiva corrispondenza furono sufficienti per instaurare tra i due un’autentica amicizia sostenuta da un’altissima stima reciproca. Merton qualificava La Pira come «a very prominent Catholic politico in Italy, close to Paul VI» 13 e, in una lettera al giovane studente italiano Mario Falsina che gli aveva chiesto di fargli sapere quali fossero gli italiani che maggiormente l’avessero influenzato o colpito, egli indicava, oltre a Dante, i grandi santi e  vari scrittori come Montale,  Quasimodo e Pavese  e alla fine riportava: «I add that I am glad to be friend of La Pira»14. Il sindaco di Firenze, pur essendo di undici anni più anziano, aveva una venerazione per Merton e scrivendogli si rivolgeva a lui con «beatissimo padre» e si congedava con «filialmente». Sono espressioni di un uomo umile e devoto che trovava nel suo amico americano la pienezza di una persona impegnata nell’arena del mondo agendo dal silenzio di un’intensa vita spirituale. La loro testimonianza umana, intellettuale e di fede costituiscono per noi un’eredità preziosa per le esigenze del mondo attuale.

Nella lettera che La Pira scrisse al Direttore del Thomas Merton Center nel maggio 1973 riferiva di avere un ricordo indelebile della sua visita avvenuta nove anni prima e che questa aveva avuto un grande significato: «voleva indicare che la civiltà tecnica non regge se nel secondo piatto della bilancia non si pongono i pesi della contemplazione e della preghiera, i pesi della purezza e della grazia!»15.

 

Note

  1. M.P. Giovannoni (a cura di),  Il grande lago di Tiberiade – Lettere di Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo (1954 – 1977), Firenze, 2006, p. 125.
  1. W.H. Shannon (edited by), The Hidden Ground of Love – Letters on Religious Experience and  Social Concernes, Harvest/HBJ Book, S. Diego – New York – London 1985, p. 219.
  1. Patrick Hart (edited by), The School of Charity – Letters of Thomas Merton on Religious Renewal and Spiritual Direction, Harvest/ HBJ Book, S. Diego – New York – London 1990, p. 251.
  1. W.H. Shannon, The Hidden Ground of Love, p. 219.
  1. Letter of Thomas Merton to Giorgio La Pira, 13 November 1964.
  1. Giorgio La Pira, Spes contra spem in “La Badia” n°11, dicembre 1990, p. 58 s.
  1. Letter of Thomas Merton to Giorgio la Pira, 3 June 1965.
  1. Letter of Giorgio La Pira to Thomas Merton, 16 June 1965.
  1. Letter of Giorgio La Pira to Thomas Merton, 8 July 1965.
  1. Thomas Merton, Cold War Letters, Orbis Books, New York, 2006, p. 27.
  1. A brief essay of Thomas Merton about the flood of Florence sent to Giorgio La Pira, 18 January 1967.
  1. Ivi.
  1. W.H. Shannon, The Hidden Ground of Love, p. 219.
  1. Robert E. Daggy (edited by), The Road to Joy – Letters of Thomas Merton to New and Old Friends, Harvest/ HBJ Book, S. Diego – New York – London 1989, p. 349.
  1. Letter of Giorgio La Pira to the Director of the Merton Center, 29 May 1973.

Spes contra Spem 2015: intervento di Marco Luppi

 

Mediterraneo: nuovo lago di Tiberiade o tomba delle speranze? 

intervento del Professor Marco Luppi (foto sotto)

Il Mediterraneo, non da oggi, rappresenta un punto nodale nella configurazione geopolitica di una realtà internazionale che continua a muoversi dentro un perenne stato di necessità e in vista della risoluzione delle crisi. Solo raramente ci si trova nelle condizioni di costruire e governare i fenomeni politici, economici e sociali dei tempi di pace, quelli che consentirebbero alla politica di dispiegare le sue migliori caratteristiche: la capacità di analisi del reale, il confronto tra legittime diversità, la ricerca di una soluzione alle diverse problematiche. Sulle rive di quel mare oggi si consumano alcune tra le più drammatiche vicende che interessano la comunità internazionale, sfidandola nella sua incapacità di elaborare processi di sintesi coerente e di giungere ad una deliberazione e concretizzazione condivisa. Il dramma dei migranti, quotidiano e spesso sconvolgente nel fissare alcuni fotogrammi che la civiltà globalizzata delle immagini rilancia immediatamente nelle case, nelle famiglie, nei palazzi governativi di tutto il mondo, è intrecciato a varie forme di squilibrio: le profonde disuguaglianze economiche tra il primo mondo e gli altri (migrazione economica); le crisi umanitarie di paesi che non hanno conosciuto, se non in parte, una transizione verso sistemi politici equilibrati e riformisti (utilizzando con cautela la parola democrazia, migrazione politica); la mancanza della libertà nell’usufruire di alcuni diritti fondamentali, a cominciare dalla libertà di esprimersi culturalmente, di professare un credo religioso, etc. (migrazione umanitaria e dei valori). Si scappa dalla miseria, si scappa dalla cronica assenza di futuro, si scappa dall’oppressione e dal fondamentalismo religioso/politico.

È sotto gli occhi di tutti come la comunità internazionale non sia preparata ad affrontare comunitariamente una crisi ciclica (le migrazioni sono sempre esistite, hanno rappresentato una variabile importante nella diversificazione delle storie culturali del pianeta), che mai come questa volta risulta co-generata da problematiche irrisolte e da questioni nuove: a) le crisi politiche e le instabilità del Nordafrica, la cui primavera si è trasformata nella maggior parte dei casi in un rigido inverno; b) l’impossibilità di portare a soluzione criticità antiche che oggi si caricano di ulteriori incomunicabilità e sfociano in una crisi bloccata dalla categoria schmittiana amico-nemico (questione israelo-palestinese-araba); c) la presenza di un fondamentalismo religioso (il Califfato dell’Isis, ma anche i molti volti di un assolutismo politico-confessionale che non tutela le libertà fondamentali) che continua a fare proseliti nella fase di disillusione e di mancanza di ideali che la civiltà occidentale vive da tempo; d) la difficile emersione del continente africano dal suo stato di arretratezza, che limita le enormi potenzialità di un contesto che i Paesi occidentali o i nuovi protagonisti statuali della comunità internazionale continuano ad utilizzare come il “comodo cortile” di casa propria; e) il protagonismo di nuovi/vecchi attori della rete diplomatico-politica (Iran, Turchia, per esempio), espressione di civiltà antiche e nobili ma problematiche, che configurano uno scenario diversificato, per nulla semplice da governare. Il fascino e la difficoltà di interagire all’interno dello spazio mediterraneo rimane immutato e rimanda a figure che, come La Pira, significativamente ne hanno fatto uno dei nuclei sperimentali per coraggiose operazioni di vera politica.

Quando il sindaco di Firenze realizzò uno dei grandi eventi che caratterizzeranno la sua esperienza amministrativa, i Colloqui mediterranei, la fase politica non presentava certo scenari semplici e scontati. In piena guerra fredda la proposta del “neoatlantismo” apparve ad alcuni un cedimento rispetto alla politica centrista e anti-sovietica, ad altri una proposta velleitaria di fronte alla scelta atlantista che la classe dirigente del Paese aveva compiuto solo pochi anni prima. Tale atteggiamento politico, che in Italia vide operare personaggi del calibro di Pella, Gronchi e Fanfani e che si basava sulla richiesta di un disarmo quanto più ampio possibile, sulla riforma della Nato e sulla profonda apertura nei confronti delle nuove realtà dei paesi in via di sviluppo, auspicava la concreta possibilità di un processo politico che instaurasse rapporti politici ed economici su basi democratiche e paritarie. Il mondo arabo, in particolare, era guardato come il tassello di una politica estera più aperta, che andava assolutamente coinvolto in un processo di dialogo e di pacificazione, importante dal punto di vista strategico ma fondamentale anche dal punto di vista economico, come dimostrarono il protagonismo di Mattei e dell’ENI nello sviluppo di importanti progetti energetici in Medio Oriente, che prevedevano non solo l’acquisizione delle risorse, la spartizione degli utili, ma anche la condivisione di competenze e di know how, puntando alla crescita complessiva degli attori in campo.

Tuttavia in La Pira vi era molto di più di un approccio neoatlantico, vi era una proposta di riconoscimento e valorizzazione di uno spazio geografico, storico e culturale. Il Mediterraneo era il tratto di mare che il Professore amò definire come il grande Lago di Tiberiade, ricordando il luogo in cui venne insegnata una dottrina di pace, in cui vennero compiuti miracoli della carità e della condivisione, in cui venne rinsaldata l’amicizia tra un Dio, declinato secondo i valori dell’amore, e il suo popolo, spesso alla ricerca delle motivazioni più importanti per le quali spendere la propria esistenza. All’interno di questo spazio ricco di rimandi e significati si possono evidenziare almeno tre elementi che la proposta di La Pira tese a rimarcare con forza. Primo: il Mediterraneo è lo spazio della nascita di culture millenarie, non casualmente strutturato per farle interagire. Nel discorso inaugurale al primo appuntamento dei Colloqui il sindaco disse:

Cooperare alla pace nel Mediterraneo e nel mondo, ma come? (…) La risposta, a mio avviso, è possibile se si considera la comune vocazione storica e per così dire permanente che la Provvidenza ha assegnato nel passato, assegna nel presente e, in un certo senso, assegnerà nell’avvenire (se noi le restiamo fedeli) ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo. Questa vocazione o questa missione storica comune consiste nel fatto che i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori di una civiltà che, grazie all’incorruttibilità e alla universalità dei suoi componenti essenziali, costituisce un messaggio di verità, d’ordine e di bene valido per tutti i tempi, per tutti i popoli e per tutte le nazioni. Gli elementi essenziali sono (…) tre: 1) la componente religiosa della rivelazione divina che trova in Abramo – patriarca dei credenti – la comune radice soprannaturale (…). Il Tempio, la cattedrale e la moschea costituiscono precisamente l’asse attorno al quale si costruiscono i popoli, le nazioni e le civiltà che coprono l’intero spazio di Abramo. 2) la componente metafisica elaborata dai Greci e dagli Arabi: è ad essa che si deve l’immensa ricchezza di idee che sostengono una visione ordinata, essenzialmente metafisica e teologica del mondo, e che costituiscono intellettualmente ed artisticamente la bellezza stessa della civiltà di cui i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori. 3) la componente giuridica e politica elaborata dai romani. È a questa che si deve la strutturazione di un ordine giuridico e politico di cui gli elementi maggiori costituiscono il tessuto essenziale dove si articola ogni ordine sociale e umano autentico [1].

L’incontro, a volte fecondo, a volte teso e drammatico tra culture diverse aveva avuto un valore generativo nelle sue acquisizioni filosofiche e teoretiche, nelle sue sperimentazioni politiche, nel necessario definirsi di luoghi, tempi e proposte per la convivenza tra i popoli e le religioni. E questo richiama un secondo elemento fondante: il Mediterraneo è lo spazio dell’incontro tra le tre grandi religioni monoteiste, che hanno in Abramo il loro progenitore. Il vissuto religioso, allora come oggi, costituiva uno spazio di aggregazione e di condivisione, o il pretesto per il proliferare dell’odio, della discriminazione e dei conflitti. Il sindaco fiorentino ne era cosciente, per questo scrisse all’amico Pierre Corval, direttore di «Etudes Mediterranéennes»:

Ebbene, caro amico, io Le dico: ma non è proprio il Mediterraneo (e le nazioni ed i popoli che vi si affacciano) il “luogo” per così dire, più “interessato” a questa crisi così essenziale del mondo? Basta pensare a Gerusalemme, la città santa degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani: tre religioni annodate in Abramo; tre civiltà “monoteiste” saldamente intessute con i valori culturali comuni. Dove sta la crisi? Proprio nella minaccia di sradicamento di questa pianta divina: nella negazione – non solo come fatto culturale e individuale, ma come fatto politico e collettivo – della radice stessa di questa pianta divina: viene negato il Dio di Abramo, di Isacco, di Ismaele, di Giacobbe (…). Ebbene: questo fatto politico così drammatico e di dimensioni così vaste – mondiali ormai! – questo fatto politico che, se prevalesse, muterebbe davvero (almeno per qualche tempo!) il volto della civiltà e del mondo, può lasciare senza riflessione particolarmente approfondita i popoli e le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo? Cristiani, musulmani, ebrei: la loro “geografia” religiosa, spirituale, culturale, civile, politica, non ha proprio nel bacino mediterraneo il suo spazio vitale? La minaccia di sradicamento dei valori essenziali della civiltà e del mondo non ha proprio qui la sua zona di pericolosità più acuta? I destini del mondo intiero, perciò, non sono posti in gioco proprio qui? La storia non si è fermata oggi proprio qui, per così dire, in attesa di una scelta e di una decisione? (…) Queste domande non sono né fantastiche, né astratte: esse pongono in piena evidenza il più concreto ed il più improrogabile dei problemi politici e storici del nostro tempo. Solo entro questa prospettiva, in questo quadro, assumono il loro vero valore ed il loro rilievo i problemi attuali del Mediterraneo: (…) solo se prospettati così questi problemi mostrano il loro volto vero [2].

La Pira, in una lettera a Nasser del 22 febbraio 1958, esprimeva la convinzione di come il Mediterraneo andasse valorizzato e tutelato, perché realtà ospitante alcune città simboliche (Gerusalemme, Roma, Atene, La Mecca, Alessandria), «città essenziali del Suo disegno storico: non città museo: no: ma città-fontane, città-fari, città-sante: città dalle quali zampillerà sempre, per tutte le generazioni, per tutti i secoli, per tutti i popoli, una luce inestinguibile di grazia e di civiltà!». Il compito di generazione culturale che aveva sede nel ‘grande lago di Tiberiade’, si sarebbe aperto verso una realtà più grande, che si può riassumere nel terzo elemento sintetico: il Mediterraneo è il luogo generativo di una cultura ampia, aperta, dialogica, che il Professore chiamò la ‘civiltà dell’universale’, considerata tale per la profondità delle sue caratteristiche e per la volontà di propagandare la pace come un sinonimo della lotta alla disuguaglianza, alla fame, all’ignoranza. Guardando con favore all’appuntamento di Bandung e alla politica di non-allineamento, sostenendo il processo di decolonizzazione e il desiderio di crescita del mondo arabo e africano, La Pira manifestava un’esigenza di apertura, di penetrazione all’interno delle problematiche principali nell’incontro tra popoli, stati, culture, che poi provò a concretizzare aprendo i Colloqui mediterranei all’incontro con l’Africa nera. In questa sede avvenne un passaggio decisivo: il Mediterraneo non poteva considerarsi uno spazio chiuso, auto-sufficiente, ma doveva guardare alle problematiche che spingevano alle sue porte e che richiedevano la dote di riflessione filosofica, sapienza giuridica, meditazione religiosa di cui era ricco. Durante il terzo appuntamento disse:

Ebbene, amici dell’Africa Nera: il compito che Dio vi affida, la missione e la vocazione di cui Egli fa ricchi i vostri popoli e le vostre nazioni e le vostre culture (…) nel momento stesso in cui voi entrate come attori essenziali nella storia presente e futura è come da voi stessi stato detto, quello di attirare e di integrare con elementi preziosi ed originali di giovinezza religiosa, spirituale, culturale, sociale, economica e politica; con aspetti inediti di bellezza e di luce – la vita e l’espansione (dopo le debite purificazioni e potature) di questa antica quercia mediterranea radicata nel cuore geografico, storico, religioso e civile del mondo (…). Il compito che Dio vi affida, la missione, la vocazione di cui Egli fa ricchi i vostri popoli e le vostre nazioni e le vostre culture è, perciò, quello di essere fattori essenziali e cause in certo modo motrici di quel rilancio storico (in atto proprio oggi) della “civiltà dell’universale” destinata ad estendersi a tutte le nazioni della terra per integrarle ed arricchirle tutte e per essere da tutte integrata ed arricchita. (…) Questa visione di contemplazione e di bellezza – amici Africani – non ci fa evadere dai problemi più urgenti della vita quotidiana dei vostri e dei nostri popoli: dal dovere immediato che abbiamo di sradicare dalle nostre città e dalle nostre nazioni i mali della disoccupazione, della miseria, della ignoranza: questo sradicamento pronto e deciso di questi mali costituisce la premessa medesima di quell’ardimentoso rilancio di civiltà alla quale voi e noi, come tutte le altre nazioni, siamo solidamente impegnati! È per questo, amici Africani, che siamo tutti tenuti a mutare profondamente le strutture invecchiate della società ed a strutturare l’economia, la società e lo stato (mediante tutti gli strumenti che la scienza, la tecnica e l’analisi economica del tempo nostro hanno creato e sempre più vanno creando) in modo tale da elevare i nostri popoli a quei livelli di giusto benessere, di scienza, di cultura, di bellezza, di contemplazione (…) e di pace (interna e internazionale) che sono i livelli storici proporzionati al destino infinito ed alla infinita dignità della persona umana [3].

In questo discorso vi è la sintesi della portata generale di una vocazione comune che sembra delinearsi in modo chiaro davanti agli uomini di buona volontà, davanti ad una comunità internazionale veramente interessata alla cooperazione e alla soluzione dei problemi. La cultura dell’universale possiede le caratteristiche sulle quali si sono costruite le fondamenta principali con cui è stato edificato ogni progetto duraturo: la pace, la ricerca di un nuovo umanesimo, il fecondo incontro tra culture. La pace appare come il requisito fondamentale, senza il quale è impossibile sperare di edificare qualcosa di duraturo. E qui non si può riferirsi solo alla “pace negativa”, intesa come assenza di guerra, una certa libertà dai conflitti e dalle contrapposizioni, ma come “pace positiva”, riferita alla disponibilità di coloro che sanno di dover costruire le condizioni per eliminare le radici di futuri e nuovi conflitti: la povertà, l’ignoranza, la disuguaglianza, un pensiero ideologico portato a marchiare il territorio, le appartenenze e i destini. Non è banale ricordare che l’evento politicamente più importante lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese è stato un trittico: libertà, uguaglianza e fraternità, in cui il terzo fattore appare determinante per qualificare anche gli altri due. Chi ha cercato di esaltare il primo a scapito del secondo ha creato società individualiste e schiave del paradosso di un’opulenza svuotata dall’incontro con la realtà dell’altro; chi ha esalto il secondo a scapito del primo ha creato una collettività priva delle principali libertà, in nome di un’utopia che si è basata su uno stato di massificazione e di controllo. La fraternità, spesso problematica e mai banale (e che comprende anche una dimensione antagonista), afferma tuttavia quanto siano costitutivamente interdipendenti e interpersonali le nostre relazioni e come le possibili soluzioni a problematiche specifiche o universali non possano prescindere dal senso di co-abitazione e co-appartenenza che rimane anche quando si sono eliminati e valutati tutti gli elementi di differenziazione. Ciò richiama la scoperta di un ‘nuovo umanesimo’, in particolare lo sviluppo della categoria di persona, che in quanto tale deve poter usufruire dei diritti legati alla caratterizzazione individuale, ma dentro la valorizzazione del pieno compimento di sé, in quella che il filosofo francese Mounier riconosceva come la condizione per dispiegare le immense potenzialità e capacità dell’essere umano fattosi soggetto operante: «I tre esercizi essenziali della formazione della persona sono dunque: la meditazione, per la ricerca della propria vocazione; l’impegno, ossia il riconoscimento della propria incarnazione; la rinuncia, vale a dire l’iniziazione al dono di sé e alla vita altrui. Quando la persona manca ad uno di questi esercizi, ha perso la partita» [4].

Quest’estate ero ancora in Brasile per lavoro quando si è aggravata in maniera pesante la vicenda dei migranti, che mostrava il Mediterraneo e l’Europa attraversati da drammi umani, di tipo economico-sociale, ma anche da importanti gesti di solidarietà concreta e, in alcuni frangenti, da vera compartecipazione tra popoli diversi e in oggettive condizioni di disparità nel contesto generale, evidente nei poli opposti della scala pace-guerra, democrazia-autoritarismo, disagio-accoglienza, etc. Ciò che impressionava era sia l’impatto con la profondità dei problemi, ma anche le potenzialità della condivisione concreta e la speranza insita in un lavoro comunitario, quello che spesso latita e fatica ad emergere dentro l’Unione Europea e i suoi diversi attori. Ciò richiama un ultimo elemento importante: la cultura dell’incontro, le cui caratteristiche non sono mai risultate estranee a La Pira, alla sua sensibilità, alla passione con cui si è speso a favore delle relazioni tra persone, stati, organizzazioni. In primo luogo vi sono i riferimenti ad accoglienza e rispetto, parti integranti dell’inesausta predisposizione ad avvicinare gli altri con la mente aperta e lo spirito libero, soprattutto quando l’interlocutore mostra la debolezza della propria condizione e della propria storia. Poi si esalta il binomio ascolto e dialogo, oggi più che mai urgenti nei vari contesti della costruzione comunitaria interessata al bene comune, che si nutre delle diversità culturale e della libertà nel pensare al futuro. La dimensione dell’incontro evidenzia anche solidarietà e cooperazione, che sempre di più sembrano rappresentare i valori di riferimento per un’agenda politica che si avvicina alla complessità dei problemi attuali.

Da più parti si proclama la necessità di una stagione qualificante non solo a livello umanitario (accoglienza, piani di sviluppo, diritti di cittadinanza), ma anche di una progettazione politica che guardi alle generazioni future, quelle che saranno chiamate a costruire il cambiamento, quelle che, con puntuale lungimiranza, La Pira amava definire come le rondini che annunciano la primavera. Sulla linea del tempo e delle auspicate svolte storiche continua a campeggiare l’avviso paolino e lapiriano al medesimo tempo: Spes contra spem.

 

[1] Discorso di La Pira in occasione dell’apertura del primo Colloquio Mediterraneo, 3 ottobre 1958, ora in M. P. Giovannoni, Il grande lago di Tiberiade. Giorgio La Pira per la pace nel Mediterraneo (1954-1977), Firenze 2006, pp. 69-70.

[2] Lettera di La Pira a Pierre Corval, direttore della rivista di studi «Etudes Mediterranéennes», 23 agosto 1957, ora in M. P. Giovannoni, Il grande lago di Tiberiade…, cit., Firenze 2006, p. 27.

[3] Cfr. E. Balducci, Giorgio La Pira, San Domenico di Fiesole (FI) 1986, p. 91.

[4] Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica editrice, Bari 1984, p. 78.

 

Spes contra Spem 2015: intervento di Giacomo Mininni

 

Verso il mare

di Giacomo Mininni

  

Il rischio maggiore, parlando di Giorgio La Pira e della sua azione politica, è probabilmente quello di ridurre tutto ciò che il “sindaco santo” ha fatto, detto e scritto alla pura dimensione del suo essere “profeta”, quasi mistico, riconducendo ad una sorta di impulso o di sogno romantico una linea d’azione che viene invece da una precisa base teoretica e da idee strutturate e formate su una lunga e virtuosa tradizione filosofica.

È questo il motivo che mi ha indotto a scrivere il libro “Verso il mare. La filosofia della storia di Giorgio La Pira”, pubblicato da Giuliano Ladolfi Editore nel maggio di quest’anno. L’idea alla base del testo è quella di riscoprire il La Pira filosofo, la sua dimensione di pensatore e di studioso che, unita indubbiamente ad una componente mistica e religiosa mai venuta meno, gli ha permesso di incidere nei modi che conosciamo sul tessuto sociale, politico e culturale dell’Italia del secondo dopoguerra, e non solo.

Piuttosto che le fonti palesi, esplicitate da La Pira stesso, come S. Tommaso d’Aquino o i personalisti francesi, “Verso il mare” si ripropone di indagare quelli che sono invece i modelli nascosti, a volte perfino inconsapevoli, di un aspetto particolare del pensiero lapiriano, ovvero la sua filosofia della storia. Quest’ultima è stata messa in relazione soprattutto con quella di due altri autori, che a mio avviso hanno condizionato e plasmato in certa misura la visione di La Pira: da una parte S. Agostino da Ippona, dall’altra Georg Friedrich Wilhelm Hegel.

Che La Pira conosca e apprezzi Agostino è cosa nota, e la grandezza dell’Ipponate è da lui rimarcata in più occasioni, specie nel corso dei colloqui con Léopold Sédar Senghor e con gli altri leader africani. Il sistema filosofico-storico agostiniano è quello che fornisce a La Pira, ed al pensiero cristiano-cattolico tutto, l’impostazione di base, che dà cioè alla storia umana e immanente la forma di un progetto divino la cui realizzazione è inevitabile. Con Agostino La Pira condivide la linearità di una storia che si dipana tra un punto d’origine (la creazione) ed un punto d’arrivo (l’apocalisse) nella propria natura di “storia della salvezza”. Il modello agostiniano, però, presenta anche notevoli problematicità, primo fra tutti l’assenza di libero arbitrio per le creature, asservite ad una predestinazione elaborata in chiave anti-pelagianista; da questa deriva anche una totale svalutazione dell’attività politica: se il mondo è già diviso da sempre in predestinati alla salvezza (la “Città di Dio”) e alla dannazione (la “città del diavolo” o “dell’uomo”), la politica appartiene indubbiamente ai secondi, mentre i primi dovranno sentirsi come stranieri durante l’intero corso della loro vita. La Pira abbraccia sì il modello agostiniano, ma lo corregge dove opportuno con gli strumenti messigli a disposizione da Tommaso e dalla scolastica, con l’intento di restituire la libertà alla creatura umana e, di conseguenza, riabilitare l’azione del e nel mondo, con particolare riferimento alla politica.

Se l’accostamento di La Pira ad Agostino è relativamente semplice, più complesso appare invece quello a Hegel, da sempre visto dallo stesso sindaco come un avversario ideologico, diretto responsabile, sul piano intellettuale, di tutti i grandi totalitarismi del Novecento. Hegel e la sua dialettica, però, introducono nella filosofia della storia un elemento di cui La Pira stesso non può fare a meno: la dinamicità. Il Geist hegeliano, che conoscendo se stesso e spiegandosi a se stesso mette in moto la storia umana (“incidentalmente”) viene da La Pira rielaborato come Heilige Geist, Spirito Santo, e riportato quindi ad una dimensione consapevole e provvidenziale. Nell’affrontare le tesi hegeliane, in particolar modo quelle dell’evoluzione geografica del Geist, degli individui cosmico-storici, della questione della “fine della storia”, La Pira finisce inevitabilmente per farle proprie, sebbene ristrutturate alla luce della propria formazione cattolica e della propria aderenza de facto al personalismo; così, la geografia hegeliana viene non accantonata ma estesa alle “terre dimenticate” (Asia, Africa, Americhe), l’individualità cosmico-storica viene “democratizzata” e collettivizzata, la fine della storia viene rimandata a dopo la controversa “era germanica” ma mantenuta come orizzonte ultimo.

Oltre ai rapporti con questi ed altri autori (fra i tanti, Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Teilhard de Chardin, Günter Anders, Hannah Arendt), il testo si ripropone anche di analizzare più da vicino gli elementi di originalità nel pensiero lapiriano, affrontando specialmente quelle che sono le metafore con le quali l’autore ha voluto spiegare la propria visione della storia. Abbiamo così la storia vista come un campo, su cui l’uomo è chiamato a lavorare, ma che solo le stagioni ed il terreno (l’intervento divino) porteranno a fioritura; come un pane in cui è stato posto un lievito, l’azione divina, che segretamente ma costantemente lo fa crescere; come un mare, in cui sono distinguibili solo le correnti superficiali, mutevoli, violente ma ininfluenti, e di cui bisogna scorgere invece le correnti profonde, costanti e potenti, che davvero muovono le maree.

La metafora più pregnante rimane quella, mutuata da Boris Pasternak, della storia come un fiume, attraversato dall’umanità come su una barca: gli imprescindibili punti d’avvio (la fonte) e di arrivo (la foce), uniti alle rapide, correnti e anse che caratterizzano l’andamento fluviale, permettono a La Pira una perfetta fusione della staticità agostiniana e della dinamicità hegeliana. In più, facendo proprie le “ansie atomiche” della Guerra Fredda, La Pira aggiunge un ulteriore elemento di originalità, ampliando l’efficacia e la portata del libro arbitrio umano fino a garantirgli la possibilità di incidere radicalmente sul progetto divino. La “apocalisse bifronte” teorizzata da La Pira vede infatti la possibilità di un’accoglienza da parte dell’uomo della Volontà divina, approdando così ai “diecimila anni di pace” profetizzati da Isaia, oppure un suo rifiuto che, mantenendo la metafora, potrebbe concludersi solo con un “affondamento” della barca, la distruzione del pianeta e della razza umana con esso.

“Verso il mare” vuole essere una analisi non certo esaustiva, ma il più possibile approfondita, della filosofia (e teologia) della storia lapiriana, nel tentativo di sottolineare alcuni aspetti precedentemente trascurati di quelle che sono la formazione e le conseguenze del pensiero di Giorgio La Pira.

Spes contra Spem 2015: intervento di Francesco Garofalo

 

L’ATTUALITA’ DELL’OPERA E DELL’AZIONE DI GIORGIO LA PIRA

NELL’ATTUALE CONTESTO STORICO

  di Francesco Garofalo

Quest’anno Giorgio La Pira avrebbe compiuto centodieci anni: forse troppo per un essere umano. Eppure, nonostante tutti questi anni e nonostante fosse morto già nel 1977, il suo pensiero è sempre attuale soprattutto in questo momento storico in cui tanti sono i focolai di guerra in tutto il mondo.

Così risuonano di grande attualità le parole che il Sindaco di Firenze La Pira pronunciò sessant’anni fa, all’Assemblea della Croce Rossa del 1954: “Le generazioni attuali non hanno il diritto di distruggere una ricchezza che è stata loro affidata, ma che appartiene alle generazioni future! Si tratta di beni che derivano dalle generazioni passate e di fronte ai quali le presenti rivestono la figura giuridica degli eredi fiduciari: i destinatari ultimi di questa eredità sono le generazioni successive (…) Tutte le città della terra (…) rivendicano unanimemente il loro inviolabile diritto all’esistenza: nessuno ha il diritto, per qualsiasi motivo, di distruggerle”. “Quindi – aggiungeva Mario Primicerio, Presidente della Fondazione La Pira, al Convegno di Valmontone di dieci anni fa – le città non vogliono morire; le città non possono morire; le città non devono morire”.

Ecco l’attualità di La Pira: i  muri crollano, ne crolleranno altri e, mentre ci dedichiamo ad abbattere i muri, bisogna dedicarsi alla costruzione dei ponti: ponti di dialogo, di confronto, di futuro.

Di fronte a tutto questo il Sindaco di Firenze rilancia la responsabilità delle classi dirigenti, che non sono affatto esentate dal rispetto delle regole morali: “Ecco una verità spesso obliata: la legge morale – dirà La Pira – è una sola; vale per i privati e vale, e con più peso,  per gli uomini che hanno la direzione della cosa pubblica: come agli uni, così agli altri (e con più rigore) è vietato l’assassinio, il furto, la menzogna, l’inganno, ecc.; come agli uni, così agli altri è fatto obbligo di serbare fede alla parola data, di soccorrere il povero e l’oppresso, di fare giustizia con animo imparziale e così via. Il machiavellismo è cosa moralmente cattiva per gli uni e per gli altri. Queste verità semplici come la luce, eterne come Dio da cui procedono, dovrebbero essere oggetto di continua meditazione da parte degli uomini cui incombe la responsabilità della cosa pubblica”.

Ritorna l’attualità di La Pira in un momento storico in cui la corruzione è salita alle stelle e tocca ogni ambito del vivere sociale e politico. La Pira ci richiama all’essenzialità delle cose, alla solidarietà, al porre al centro tutto il genere umano. E’ un richiamo che ci tocca tutti, che ci richiama tutti a guardare con attenzione i diversi problemi, per studiare le soluzioni opportune. In particolare, l’attualità di La Pira interpella tutto il mondo cattolico che vive al suo interno una forte frammentazione e che pure è chiamato oggi a riproporre una visione politica del mondo, un pensiero politico che riproponga al centro di ogni politica lavoro e povertà, le due emergenze su cui non c’è convergenza e non ci sono proposte politiche capaci di proporre delle soluzioni pratiche.

Il pensiero di La Pira ci invita allora a ripensare la stessa presenza dei cattolici in politica, a porre la questione di una nuova classe dirigente capace di farsi carico dei problemi della gente, di focalizzare i problemi del genere umano e proporre le giuste soluzioni riposizionandoci sulle linee dell’Evangelii Gaudium e sull’enciclica Laudato si. La Pira, infatti, sui problemi dello sviluppo assunse le linee dell’enciclica “Populorum Progressio”, andando anche al di là di essa. Oggi, riprendendo quelle linee di pensiero, abbiamo la necessità di ricalibrarci, tenendo presente il pensiero che Papa Francesco ci offre ogni giorno e che ci dà la possibilità di qualificare ulteriormente il nostro impegno.

In tal senso, siamo chiamati a riproporre il lavoro al centro di tutto, perché da esso passa la dignità di ogni uomo e ogni donna. A Campobasso, infatti, Papa Francesco ci ha detto, lo scorso 5 luglio, che “Non avere lavoro non è soltanto non avere il necessario per vivere, no. Noi possiamo mangiare tutti i giorni: andiamo alla Caritas, andiamo a questa associazione, andiamo al club, andiamo là e ci danno da mangiare. Ma questo non è il problema. Il problema è non portare il pane a casa: questo è grave, e questo toglie la dignità! Questo toglie la dignità. E il problema più grave non è la fame – anche se il problema c’è. Il problema più grave è la dignità. Per questo dobbiamo lavorare e difendere la nostra dignità, che dà il lavoro”.

Sì, dobbiamo combattere affinché ciascuno abbia un lavoro che gli dia il giusto per vivere, ma anche e soprattutto che gli dia la dignità. La Pira si è occupato spesso dei problemi dei lavoratori, da Sindaco e da Sottosegretario al Lavoro. Famosa è rimasta la questione della Pignone, nel gennaio 1954, quando, da Sindaco, salvò gli operai dalla disoccupazione, convincendo il suo amico, Enrico Mattei, Presidente dell’ENI, ad acquistare la fabbrica salvandola dalla chiusura.

Più tardi, il Nuovo Pignone sarà coinvolto nell’impiantistica del settore petrolifero, assumendo un ruolo di eccellenza internazionale nel settore dei compressori e delle turbine. Oggi, allora, dobbiamo riproporre un nuovo modello di sviluppo che ci porti a privilegiare il progresso sociale, la solidarietà e la partecipazione democratica, e che riconosca il primato di Dio: “soltanto grazie al primato riconosciuto a Dio – scrive mons. Mario Toso – è possibile una nuova condotta morale, una nuova scala dei valori, nonché il superamento delle dicotomie eclatanti dell’etica post-moderna che pregiudicano la visione di uno sviluppo umano integrale. Secondo una corretta visione dello sviluppo, l’economia e la finanza, pur essendo fondamentali in ordine ad un compimento umano non velleitario, non ne sono ancora i fattori più importanti e tanto meno gli unici”.

Un nuovo modello di sviluppo ha però bisogno di cristiani con le braccia alzate – come ci dice Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate” – radicati in una forte spiritualità, come La Pira. Facciamo allora tesoro del suo insegnamento e concretizziamo un nostro impegno riproponendo una nuova visione politica capace di esprimere una progettualità che tenga conto dei problemi di questo momento storico.

Spes contra Spem 2015: intervento di Alessandro Cortesi

Le radici di un impegno: Giorgio La Pira testimone di pensiero e di azione

di Alessandro Cortesi

Rintracciare le radici del pensiero e dell’impegno di Giorgio La Pira non è impresa facile per diverse ragioni. La prima è costituita dalla grande libertà e originalità della personalità di questo cristiano siciliano [1]. Certamente si possono cogliere nel suo pensiero elementi derivanti da fonti a cui attingeva e tuttavia una sua capacità peculiare stava nella libertà di elaborare personalmente e di offrire una interpretazione creativa di sollecitazioni e idee che gli provenivano da letture, studi e incontri.

Una seconda ragione della difficoltà risiede nel fatto che alcune radici della sua visione e della sua azione stanno in un ambito di esperienza interiore, di cammino personale e di relazioni personali profonde che costituivano il tessuto fondamentale della sua vita. Tale esperienza difficilmente si presta ad una lettura che possa individuare radici e momenti precisi delle sue scelte.

Infine forse una terza difficoltà è la stessa messa in guardia di La Pira dal ridurre la sua vita ad un discorso organizzato dove tutto diviene chiaro e collegato come in un semplice teorema. Per quanto la sua mentalità – come vedremo – amasse la chiarezza di una architettura di concetti e di idee, la sua personalità era segnata da un tratto di vivacità umana, di creatività, di capacità intuitiva e di autentico sentimento che si rendeva presente proprio nel momento della relazione [2]. E’ questo il carattere originale ritenuto nei suoi discorsi e che si manifesta ad una loro lettura ancor oggi. Essi conservano infatti i tratti di un’immediatezza carica di pathos, che faceva cogliere in lui quella caratteristica di sincerità interiore e di libertà che impressionava gli interlocutori [3].

Tenendo conto di queste difficoltà e di tali premesse mi accingo tuttavia ad indicare alcune radici del pensare e dell’agire di La Pira. Pensare per lui fu dimensione della sua persona connessa in modo inestricabile all’agire: un tratto fondamentale della sua vicenda esistenziale è dato proprio dall’aver posto e tenuto insieme, anche per le indubbie capacità intellettuali e per una eccezionale energia di impegno e capacità pratica, questi due aspetti della vita. La Pira fu studioso accurato, profondo e rigoroso, fu docente universitario e nel contempo fu uomo di azione, si immerse nella vicenda politica nel suo contributo all’elaborazione della Costituzione, nel coinvolgimento politico al Ministero del Lavoro, poi nella sua esperienza di sindaco nella città di Firenze, in seguito in un impegno per la pace con orizzonti internazionali. Seppe unire attività e impegni che spesso rimangono distanti e che una medesima persona difficilmente integra nella sua vita.

Per affrontare la questione delle radici dell’impegno di La Pira prenderei le mosse da un discorso importante che egli tenne a Sofia il 27 aprile del 1972. In quella circostanza – era la conferenza mondiale delle città europee – presentò un tema a lui caro: il suo sguardo sul crinale apocalittico della storia, crinale posto tra la “frontiera apocalittica della distruzione”, e l’altra frontiera, alternativa, “quella millenaria della unità, del disarmo, della pace, della giustizia, della elevazione materiale e spirituale della intera famiglia dei popoli” [Apoc. 20,1ss]. E’ quest’ultima la frontiera di Isaia, la ‘frontiera di Betlemme’, la ‘stella di Betlemme’ “verso cui tende ‘nonostante flussi e riflussi’, con un movimento in certo senso irreversibile ed invincibile, la storia totale del mondo!” [4].

Dopo aver evocato questo crinale egli indica con una metafora evocativa le tre pietre su cui vedeva potersi orientare il movimento “verso quella terra promessa, quella ‘terra messianica’ di unità, progresso, libertà e pace che il piano storico visto dai profeti – ed in certo senso anche da Marx – riserva alla fioritura della famiglia umana!”. La pace tutto edifica ed egli intravede tale edificazione in una ‘civiltà dell’universale’ (terminologia che mutua dal grande poeta africano Senghor), e “troverà di nuovo in Europa le tre fondamentali ed infrangibili pietre su cui edificarsi: la pietra profetica, di cui sono insieme, attraverso i profeti d’Israele ed attraverso i successori di Pietro, immagini viventi Gerusalemme e Roma; la pietra metafisica …, la pietra giuridica” [5].

La Pira suggerisce in tali termini un ritorno all’Europa che scopre il mandato di “aiutare tutte le iniziative continentali che tendono al negoziato globale” (…) e di “collaborare efficacemente alla pacificazione del mondo”: “L’Europa riemerge (e nell’Europa includiamo il Mediterraneo, il grande lago di Tiberiade); riemerge la sua storia: riemerge la sua fondamentale cultura e la sua fondamentale spiritualità” [6].

Con questa immagine delle tre pietre egli riprendeva una suggestione di Paul Valéry e indicava tre elementi fondamentali che a mio avviso non riguardano solamente il suo sogno di futuro, ma sono rivelatori di alcune radici che hanno guidato la sua vita, da ricercare nei momenti di germinazione del suo passato. Ed egli le trasponeva in rapporto al futuro in termini di apertura e in un orizzonte universale.

Ne aveva parlato anche nel 1958 da sindaco di Firenze ad introduzione del primo Colloquio mediterraneo. La pietra profetica è immagine che sta ad indicare infatti l’esperienza religiosa: 1) la componente religiosa della rivelazione divina che trova in Abramo – patriarca dei credenti – la comune radice soprannaturale. Il Patto di Alleanza con il Dio Vivente – con il Dio di Abramo, di Isacco, di Ismaele e di Giacobbe – costituisce la genesi, il punto di orientamento, l’asse strutturale e di sviluppo del popolo, della nazione e delle civiltà cristiane. Il Tempio, la cattedrale e la moschea costituiscono precisamente l’asse attorno al quale si costruiscono i popoli, le nazioni e le civiltà che coprono l’intero spazio di Abramo.

2) la componente metafisica elaborata dai Greci e dagli Arabi: è ad essa che si deve l’immensa ricchezza di idee che sostengono una visione ordinata, essenzialmente metafisica e teologica del mondo, e che costituiscono intellettualmente e artisticamente la bellezza stessa della civiltà di cui i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori.

3) la componente giuridica e politica elaborata dai romani. È a questa che si deve la strutturazione di un ordine giuridico e politico di cui gli elementi maggiori costituiscono il tessuto essenziale dove si articola ogni ordine sociale e umano autentico [7].

Attorno a queste tre pietre – che sono state prese come riferimento per la Mostra a lui dedicata e promossa dalla Fondazione La Pira alla Biblioteca Nazionale di Firenze nell’autunno 2014 – mi sembra siano da rintracciare le radici di un impegno e di un pensiero che egli articolò proprio in queste tre direttrici.

 

La pietra profetica

Pietra profetica sta in riferimento alla sua lettura della storia sulla scia dei profeti. E’ una lettura della sua vita personale come vocazione e della storia che sgorga dalla sua fede, dall’esperienza che lentamente è maturata nel suo cuore di giovane studente trasferito da Pozzallo a Messina e che ha avuto come momento di emergenza la Pasqua del 1924 [8]. Sin dal 1920, secondo la testimonianza dell’amico siciliano Salvatore Pugliatti, La Pira a 16 anni, nei pressi di quel mare che dalla Sicilia lo affacciava alle coste africane e che diverrà uno dei riferimenti essenziali per la sua visione dell’incontro dei popoli, è preso dall’inquietudine che lo condusse poco alla volta a scoprire la fede come esperienza di unione e amore con Gesù Cristo come suo maestro: “ora vedo che a priori bisogna credere prima di Amare” [9].

La chiamata che La Pira avverte è chiamata ad una dedizione totale a Dio vivendo in termini originali questa radicalità: non nella linea della vita religiosa, ma nella assunzione piena della responsabilità connessa al suo lavoro e all’ambito del suo studio come docente di diritto romano: nel maggio del 1926 La Pira, al seguito del suo professore Betti, sarà a Firenze e di lì a poco, nel 1927, sarà incaricato di insegnare Elementi di storia del diritto romano [10].

Furono scelte maturate negli incontri con persone e nelle letture giovanili. Nel 1925 già lavora attivamente nella Fuci in un circolo che si ispirava alla figura del romanista Contardo Ferrini. Conosce poi i domenicani attraverso p. Enrico De Vita, attivo nella parrocchia della zona di baracche di Giostre, e diviene terziario domenicano dall’11 dicembre 1927 (a S. Maria Novella a Firenze).

Nella vita di Ludovico Necchi dal titolo L’anima di un apostolo, – richiestagli da p. Gemelli con cui era entrato in contatto dal 1928 – in un brano che rispecchia il suo itinerario personale La Pira esprime la sua tensione apostolica “Il santo è un’anima bruciata di amore divino e bisognosa di versare immediatamente su numerose altre anime  il fuoco di amore che interiormente lo consuma: il santo è per ciò stesso un suscitatore della santità in altre anime: ora quest’opera di traboccamento della carità in altre anime è un’opera che presuppone il contatto diretto con queste anime” [11].  Con un linguaggio segnato dalla retorica del tempo si manifesta una attitudine di apertura agli altri e di relazione, indice di una esperienza di fede non rinchiusa in senso intimista ma vivente nella comunicazione.

Sempre nella Vita di Ludovico Necchi evidenzia i tratti del missionario della regalità così come egli intese il suo impegno sorto dall’incontro con p. Gemelli: “egli deve possedere una concezione unitaria del mondo divino e umano in tal guisa da abbracciare con un unico sguardo Dio e l’uomo. Questo mondo umano, con tutti i suoi difetti e le sue amarezze non è qualcosa di avulso dalla sua anima; esso, anzi, è parte essenziale della sua vita interiore (…) l’apostolo deve essere, anzitutto, un uomo capace di svolgere con la massima precisione il dovere sociale che Dio gli assegna: nello svolgimento di questo compito egli, anzi, deve eccellere: egli deve con questo mezzo conquistare quella stima umana che è il presupposto naturale  dell’opera sovrannaturale di amore” [12].  Anche in questa pagina emerge un senso del rapporto con il mondo umano che respira di unitarietà tra esperienza di fede e vita e rifugge da visioni dualistiche e dalla spiritualità della fuga mundi.

Questa radice profetica della esistenza di La Pira può essere collocata in una chiamata che egli avverte e che orienta tutta la sua esistenza. Intraprendere il cammino di fede fu per lui fu percorso esistenziale e autentica esperienza di relazione con Dio in cui la contemplazione diveniva esperienza di vita con ricadute concrete nelle motivazioni che lo conducono a scelte di vita e nella concretezza [13]. La sua attitudine contemplativa non si traduce solamente in uno stile di vita segnato dal tempo dedicato alla preghiera ma in uno sguardo globale sulla vita che diviene modalità di porsi nei confronti del mondo, della storia, delle persone che incontrava.

Questa esperienza di fede lo conduce ad un lettura della Bibbia e ad uno sguardo alla storia che ne coglie la dimensione di un percorso in cui è presente un disegno di Dio: egli matura da questa sorgente interiore un forte senso della Provvidenza di Dio come presenza di Dio nel cammino storico. Nonostante le contraddizioni, le scelte umane che ritardano, la storia è come un fiume il cui movimento è orientato ad un fine di pace dei popoli, di comunione, di unificazione di lingue culture, percorsi religiosi. Una provvidenza che ha come centro attrattivo dell’intera storia e dell’intera vicenda umana la presenza di Cristo risorto. Riprende l’immagine di Boris Pasternak, a conclusione del suo romanzo Il dottor Zivago: “Pasternak ha ragione: tutti i secoli, come zattere, vanno verso la foce ove c’è uno che li attrae: Cristo Risorto” [14].

La sua lettura del vangelo – di alcuni passi in particolare – e la lettura dei profeti, di Isaia, lo condusse a maturare uno sguardo sulla storia umana segnato dall’orizzonte profetico e messianico, come percorso del sentiero di Isaia. “Il moto della storia umana non è un moto casuale, senza finalità e senza speranza: è un movimento, invece, finalizzato da una speranza, attratto da un amore! ‘L’amor che move il sole e l’altre stelle’ (Paradiso XXXIII, 145). C’è una ‘terra promessa’ al termine della navigazione faticosa della storia dell’uomo! Sull’orizzonte della storia umana brilla sempre, luminosa e confortatrice una stella. La storia di Israele è, in proposito, un insegnamento decisivo e permanente: c’è un viaggio da compiere, un ‘esodo’ da attuare nel mondo; ma non è un viaggio senza scopo, un ‘esodo’ senza obbiettivo; c’è una ‘terra promessa’ che attira, anche se da lontano, le speranze e le fatiche dell’uomo!” [15]. Scrive ancora in una delle sue lettere alle claustrali: “Come vede, Madre Rev.da, si tratta di tappe di un solo cammino lungo una sola strada: il cammino della grazia e della pace lungo la strada di Cristo; la strada indicata da Isaia” [16].

Tale sguardo profetico sulla storia – personale come vocazione e sociale come movimento dei popoli – lo condusse progressivamente ad un impegno senza tentennamenti per la pace e per il dialogo. A mio parere va collegata a questo un altro incontro vissuto da La Pira nella sua età giovanile oltre all’incontro della fede: l’incontro con i poveri. La Pira visse in prima persona la condizione di difficoltà economica nella famiglia degli zii a Messina e sperimentò fortemente questo incontro con i poveri non nel senso assistenzialistico del fare del bene ad altri lontani e diversi, ma come luogo in cui scoprire la propria condizione e in cui cogliere il senso profondo della propria vita.

In una cartolina postale del 1927, nella festa di san Giuseppe, riflettendo sulla figura dell’umile falegname di Nazareth, La Pira esprime come il contatto con i poveri abbia una valenza formativa. Compare questa radice che affonda nell’incontro e nella vita e la legge come occasione di scoperta della propria condizione e dell’orizzonte a cui si è chiamati (la costruzione di legami di fraternità): “E’ bene chinare la nostra anima verso i più poveri; riconoscere nella povertà altrui anche la nostra è atto di saggezza che modera i desideri umani e ci fa conoscere la nostra indicibile esigenza: e abituare i bambini a queste riflessioni pratiche è quanto mai salutare per la loro educazione. Quando la carità non è ostentazione (e spesso, purtroppo, essa è tale) ma è cordiale partecipazione alla indigenza comune, allora essa foggia le anime sul modello di Colui che fu ed è Padre amorevole dei poveri” [17]. E’ intuizione fondamentale nel giovane La Pira la carità come partecipazione ad una condizione che accomuna e rende solidali.

Tra questi incontri – la fede e i poveri – si dipaneranno i due momenti di conversione suggerite nello studio di Paola Palagi [18]. La prima conversione nel 1924 che costituisce il passaggio ad intendere la sua vita in una dedizione totale a Dio assumendo l’impegno di studio e di insegnamento come luogo di una testimonianza evangelica in una radicalità di servizio e di dono [19].

Poi più tardi la seconda conversione, preparata negli anni in particolare nel suo incontro con la città di Firenze: si tratta della conversione degli anni ’30 e maturata poi nel tempo della guerra. Nel 1934 inizia l’esperienza della messa di san Procolo. L’incontro con i poveri vissuto come esperienza in cui apprendere la propria identità di povero e in cui scorgere la chiamata di ogni vita umana è anche fondamento dell’impegno politico e della sua reazione all’ideologia fascista – su questo torneremo parlando delle radici del suo pensiero nel riferimento a san Tommaso – [20].

Negli anni del dopoguerra soprattutto nel suo impegno al ministero del lavoro, l’impatto con la dimensione strutturale della povertà lo conduce a maturare l’esigenza di una spiritualità capace di guardare la realtà sociale con uno sguardo alla rilevanza della dimensione sociale e politica per la fede stessa [21].

In questo quadro di dimensione profetica della sua vita situerei alcuni incontri fondamentali che hanno formato l’interiorità di La Pira sin dal tempo della giovinezza e poi a Firenze. L’inserimento nella vita della città passò attraverso il contatto con il convento di san Marco, con don Bensi (parroco della chiesa di s. Michelino e insegnante di religione al liceo classico Galileo, assistente della gioventù cattolica), con don Facibeni testimone di carità soprattutto verso gli orfani con la ‘Pia opera delle divina provvidenza’ (La Pira faceva lunghe soste di preghiera presso la cappella dell’orfanotrofio di don Facibeni); e con il card. Elia Dalla Costa. Firenze vive nel 1931 un passaggio fondamentale con l’arrivo del vescovo Elia Dalla Costa il 19 dicembre, personaggio di grande levatura umana e spirituale che si distinse per la sua distanza dal regime fascista. Con lui La Pira ebbe da subito un rapporto di intesa e collaborazione.

Nella spiritualità di La Pira l’incontro con Dio percepito presente diviene immediatamente mandato ad un a testimonianza che egli riconobbe nell’esempio di Contardo Ferrini e poi di Ludovico Necchi di cui scrisse una vita – richiesto da padre Gemelli – in cui per molti aspetti rifletteva il suo itinerario e le sue scelte sino ad allora. Per La Pira la contemplazione, l’attitudine che lascia spazio di attesa e attenzione alla dimensione spirituale, alla pietra profetica delle civiltà umane, deve essere posta in relazione con il mondo attivo, dell’impegno e della politica nel senso profondo che tale attività aveva nel suo pensiero.

Non ultimo fu quindi l’incontro stesso con la città di Firenze, con la sua storia, con l’eredità culturale e spirituale racchiusa nelle sue mura, palazzi e strade che per lui fu un elemento centrale nella maturazione della coscienza della città e dell’importanza della costruzione della città. In tale contesto sorse l’iniziativa dei Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana, che vedranno lo svolgimento dal 1952, primo convegno, fino al 1956, per cinque anni consecutivi. La Pira stesso dice che questa idea sorse in lui dopo che nel 1951 aveva riflettuto sul senso delle città di Firenze in particolare.

Per esprimere in una breve formula quanto ho cercato di evidenziare si potrebbe dire che La Pira si è lasciato ammaestrare e guidare dagli incontri, dalle persone, dalle esperienze vissute scoprendo poi quanto egli espresse nei termini di una presenza di Dio che si rende vicina nelle cose, nell’umano. Una vocazione la sua profetica, proprio perché mistica. Presa tutta si potrebbe dire da un volgersi ad un disegno che investe l’immanenza proprio perché consapevole di una presenza trascendente.

Sta qui un tratto dell’originalità di La Pira. “E’ vano, Madre Rev.da, chiamarci ‘sognatori’; noi descriviamo fatti, citiamo documenti, stiamo legati alle cose; ci lasciamo ammaestrare da esse”.[22] Si può dire che La Pira si lasciasse ammaestrare dalle cose, dalle esperienze dell’umanità.

 

La pietra metafisica

Pietra metafisica è immagine da interpretare come riferimento a radici di un modo di pensare ad una metodologia che investe anche l’azione, E’ questa una metafora utilizzata da La Pira per indicare la rilevanza di un pensiero capace di offrire i principi all’agire e in cui ritrovare un ordine architettonico per dare unità alla vita intellettuale e al sapere [23].

In un importante discorso tenuto all’Abbazia di Fossanova del 10 aprile 1974 (organizzato dall’Ufficio scuola della Democrazia Cristiana) per ricordare il VII centenario della morte di san Tommaso, La Pira stesso espresse il suo debito a questa radice del suo pensare certamente ma anche di quegli orientamenti che gli fecero avvertire il pericolo  della ideologia fascista e lo fecero reagire nella breve stagione della rivista “Principi” pubblicata come supplemento a “Vita cristiana” dei domenicani di san Marco, con l’espressione di una articolazione di pensiero che a Tommaso era profondamente debitrice [24].

Così si esprimeva La Pira nel 1974: “il pensiero dell’Aquinate ha fatto da luce illuminante e da stella orientatrice al nostro cammino ed alla nostra speranza! Questa luce ci ha permesso di attraversare con una certa sicurezza intellettuale e storica il periodo in certo senso più oscuro della storia del mondo (quello del ‘progetto demoniaco’ della ‘soluzione finale’ per il popolo di Israele e dei popoli dell’intiera famiglia abramitica e del dominio millenario della croce uncinata e della razza ariana su tutti i popoli) e di passare dall’inverno più crudo ai primi lontani albori della primavera e della estate più promettente (l’immagine è di Pio XII nel celebre discorso sulla speranza storica del 19 marzo 1958) della storia del mondo: il periodo in certo senso ‘messianico’ indicato da Isaia (11,1s)” [25].

La lettura di La Pira è segnata dalla visione teleologica della storia: il mistero di Cristo è punto di attrazione dell’intera creazione e a lui tutta la storia è finalizzata [26]. Tommaso è visto come testimone di una luce, ne è stato un riflesso per comunicare il dono di un conoscenza divina impressa nell’uomo. La Pira legge così la presenza di Tommaso nel quadro di quel disegno storico che è la ‘teleologia della storia’. Vede in lui una figura eminente, suscitata da Cristo nel suo piano teleologico sulla storia, “per riflettere sulla chiesa e sulla civiltà intiera quella quaedam impressio divinae scientiae (Summa Theol. I q.1 a.3, ad 2m) che egli, con la Summa, aveva con tanta luminosa contemplazione ed elaborazione scientifica cercato di percepire” [27].

La Pira scorge nell’ordine, nella visione sintetica e nell’organicità degli elementi in cui Tommaso articola la Summa, come edificio, il dono di una presentazione del disegno unitario di Dio verso l’unità e la pace. Le tre parti della Summa esprimono con ‘attenzione a Dio all’umanità e a Cristo tale disegno in una coerenza di cui La Pira resta ammirato. 

E’ anche interessante notare come La Pira sottolinei una analogia tra la genesi del sistema della giurisprudenza romana nelle sue parole “la genesi cioè della scientia iuris, della architettonica scientifica, della tecnica scientifica del diritto, quella che ha dato valore universale al diritto romano e lo ha fatto e lo fa attraversare tutti i secoli e tutti i popoli”[28] e la metodologia che sta alla base del pensiero di Tommaso. In questo egli individua l’angolo di visuale metodologico, cioè di pensiero, come uno degli angoli in cui egli ha sperimentato Tommaso come stella orientatrice del suo cammino.

“Lo stesso metodo (cioè la estensione al diritto dell’arte del definire, sistemare, unificare e dedurre che ha le sue origini nella dialettica di Socrate e Platone e soprattutto in Aristotele e che fa passare dal diritto romano alla scientia  iuris) “lo stesso metodo -dice La Pira- è stato applicato da san Tommaso per la costruzione della scienza teologica: col metodo aristotelico della ricerca dei principi sui quali fondare l’edifici scientifico e quindi col metodo della divisione e della deduzione, applicato alla teologia, egli ha costruito quell’edificio della Summa così perfetto nella sua armoniosa , unitaria, architettura, da restare, per tutti i secoli e per tutte le civiltà e per tutte le generazioni, modello in certo modo insuperabile – quasi irriformabile nelle sue strutture essenziali – di ogni scienza teologica!”.[29]

Egli aveva trovato questo riferimento in Tommaso. La sua lettura di Tomaso è profonda, diretta, e capace di non lasciarsi impantanare nelle secche della neoscolastica che in quella stagione era fiorente. Anche a proposito della lettura di Tommaso si può riscontrare una originalità propria di La Pira connessa anche ad un modo personale e diretto di accostare i testi. Tra le sue letture giovanili aveva frequentato Maurice Blondel, filosofo che dava spazio a quel percorso che a partire dall’immanenza si apriva a cogliere l’apertura dell’agire umano ad una realtà che sta oltre e che sta anche dentro il medesimo processo dell’azione umana.[30]

In Tommaso La Pira coglie la luce di una organizzazione del pensare capace di dare unità. Coglie la dimensione architettonica. ‘Architettura’ è termine chiave nel pensiero di La Pira: ritorna nel titolo del suo scritto dedicato all’interrogarsi su come costruire uno stato democratico dopo la guerra come raccolta di pensieri sulla costituzione.[31] Ne sottolinea alcuni aspetti di unità. Ma La Pira legge liberamente Tommaso e da questa ispirazione profonda coglie gli elementi per il suo approccio alla storia nella linea della teleologia della storia. Facendo questo si fa interprete profondo della riflessione sul fine di Tommaso e del quadro globale del suo pensiero. Ma anche assume quel metodo dialogico, capace di accoglienza e incontro fecondo, fondato su un fondamentale ottimismo sulla realtà della grazia che non distrugge e non annulla ma conduce a compimento tutto ciò che appartiene alla vita umana, alla sua natura.

Da Tommaso La Pira ricava anche una impostazione fondamentale nel suo approccio alla persona umana che a mio avviso sta alla radice di quel quadro organizzativo che egli pone nel suo lavoro alla Costituzione: partendo dalla persona legge la persona all’interno di una serie di cerchi concentrici che vanno dalle prime formazioni sociali della famiglia, delle aggregazioni sociali, della città, dello Stato fino ai livelli dei rapporti internazionali.

Ma questa intuizione fondamentale che ebbe fioritura nei lavori alla Costituente ebbe le sue radici negli anni ’30 e prima espressione di impegno e coraggio nella scelta di pubblicare i suoi articoli in ‘Principi’ – La Pira aveva 35 anni quando nel 1938 inizia questa rivista che ebbe vita assai breve -. Così ne parla nel discorso di Fossanova: “Facemmo ricorso a san Tommaso: facemmo cioè appello pubblicamente – mediante la pubblicazione di Principi (1938-39) – alla filosofia di san Tommaso per rivendicare – in radicale opposizione con la teoria hegeliana dello Stato (assunta dal fascismo e dal nazismo) – il valore sostanziale  e l’autonomia fondamentale della persona umana”.[32]

Per La Pira Tommaso è il riferimento non solo ispiratore di un metodo di pensiero che egli vede come una costruzione un edificio e che lega insieme alla sapienza che gli proviene dalla sensibilità giuridica. Ma Tommaso è stato per lui ispiratore di azione politica costituzionale e storica.

Nella redazione di Principi egli esprime il riferimento alla fortezza a cui si aggrappò individuando nella riflessione sulla persona umana e sul principio che egli definì la frontiera filosofica ed evangelica: la persona pur essendo parte di un tutto che è la comunità sociale, tuttavia non è ordinata totalmente alla comunità politica, ma l’orientamento fondamentale della persona è a Dio. Su questo principio dell’irriducibilità dell’intera persona umana alla dimensione statale si radica la contestazione della pretesa di una autorità statale e di un sistema politico che si pone in termini di riferimento assoluto per la vita delle persone [33].

Così dopo l’inverno del fascismo e della guerra nel momento della costruzione della casa costituzionale  del popolo italiano La Pira ancora si riferisce a quei principi che derivava dalla sua lettura di Tommaso“Quale architettura scegliere? A quale architetto riferirsi? Su quale modello modellare la nuova costituzione?”. La Pira rinvia alla architettonica seguita nella elaborazione della prima parte dei Principi della Costituzione e ne mette in luce l’impianto tomista dell’esser sociale che parte dalla persona e che si estende nelle formazioni sociali della famiglia, della chiesa, della nazione sino ad uno sguardo che coinvolge l’intera umanità (…) “Come il pensiero dell’Aquinate ci aveva fatto da lume durante le tenebre della notte storica e dell’inverno storico (la Resistenza, principi, etc.) così ora ci faceva da lume nel ‘ritorno dall’esilio’ per ‘la riedificazione’ di Gerusalemme (‘del tempio, delle mura, delle case, delle piazze di Gerusalemme’! Esdra e Neemia): l’architettonica della ricostruzione portava di nuovo, fondamentalmente, il nome e il sigillo dell’Aquinate” [34]. La Pira sottolinea l’influsso di modello di Tommaso nella tessitura della costituzione. E ne sottolinea l’impostazione del pensiero politico fondata su due principi: che tutti i cittadini siano chiamati a partecipare alla cosa pubblica e che vi sia un bilanciamento dei poteri e rileva come su questi due punti si articola problematica teorica e pratica degli Stati.

Al di là di una certa enfasi sulla forza della costruzione unificante di Tommaso, La Pira intuisce al cuore del pensiero di Tommaso la centralità della grazia quale elemento essenziale del cristianesimo come adesione a Cristo e a Dio stesso. Questa grazia ha un’unica fonte Dio stesso e giunge a noi nella umanità di Cristo. “Eccoci nel cuore stesso del mistero di Cristo; del suo essere ‘bipolare’ (le due nature, divina e umana, unite nella persona del Verbo); della sua ‘missione’ di salvezza, per tutti i popoli, del mondo; quella di partecipare a tutti gli uomini (ed a tutti i popoli) la grazia di cui egli ha la pienezza (‘dalla pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto’ Gv 1,16): e che, come acqua divina vivificante, è destinata a irrigare … e fecondare … tutti gli uomini, tutte le civiltà e tutti i popoli?” [35].

Sta qui la radice del discorso che fece davanti al Soviet nella sua visita a Mosca: un programma costruttivo (una architettura costituzionale). cfr. discorso al Soviet:

“Dunque signori del Soviet: il nostro comune programma costruttivo, il nostro disegno architettonico deve essere questo: dare ai popoli la pace, costruire case, fecondare i campi, aprire officine, scuole, ospedali, far fiorire le arti e i giardini, ricostruire e aprire dovunque le chiese e le cattedrali (…) Soltanto così il nostro ponte di pace tra Oriente e Occidente diventerà incrollabile” [36].

Commentando questo discorso Vittorio Citterich disse che La Pira non aveva fatto un discorso clericale o confessionale, piuttosto aveva posto la libertà religiosa nel quadro delle altre libertà e dei diritti fondamentali dell’uomo: con riferimento alle dimensioni concrete della vita la famiglia (casa), l’istruzione (la scuola), il lavoro (l’officina), la sanità (l’ospedale) [37]. Lavoro, casa, libertà furono i tre valori solidali che sono state orientamento dell’intera opera di La Pira nell’impegno amministrativo per Firenze [38].

La lettura che La Pira compie di Tommaso è un approccio libero, non chiuso nella aridità di un ragionare staccato dalla vita, ma sensibile a cogliere i principi vivificanti di tale costruzione in rapporto alla sua visione della storia che egli individua al cuore della stessa architettura della Summa nella dimensione del fine della storia connesso a Dio e al mistero di Cristo. Ma proprio l’aver colto l’elemento della grazia come caratterizzante il cristianesimo gli apre le prospettive di un ottimismo della grazia che egli fece ridondare non solo nel suo pensiero ma nel modo di accostare le persone, ogni altro, con sguardo grazioso, capace di scorgervi un’opera dello Spirito pur con la lucidità di individuare contraddizioni e opposizioni.

Dalmazio Mongillo sottolinea come La Pira in Principi svolga una riflessione in cui “La riflessione sulla perfezione della persona si abbina a quella sulla struttura giuridica e politica che deriva, tramite la legge naturale, dalla legge eterna di Dio. Entrambe queste riflessioni illuminano l’unica e ricca vocazione e responsabilità umane: orientare la vita nella linea della struttura trascendente della persona e impegnarsi nella costruzione della città. Quest’impostazione riflette la distinzione tra la monostica e la politica a cui fa riferimento Aristotele e che Tommaso nel Commento all’Etica riconferma. Essa scioglie anche nella struttura della Summa (i-II) nella quale la dottrina sul fine ultimo (I-IIae qq.1-5) e sull’agire (I II qq,6-89) è separata da quella che ha per oggetto le leggi (I II 90-108)” [39].

A questo punto su può cogliere la stretta connessione e il rinvio che dalla radice di pensiero che in Tommaso ha i suoi riferimenti ispiratori si apre ad un’altra radice della formazione e sensibilità di La Pira, la sua formazione giuridica e di giurista attento alle dinamiche proprie del diritto romano nella sua storia e nella sua tradizione.

 

La pietra giuridica

Questo elemento è strettamente legato a quanto abbiamo esaminato relativamente al pensiero filosofico ed alla costruzione teologico di Tommaso. Vorrei sottolineare tuttavia un aspetto caratterizzante l’approccio di La Pira [40]. La sua sensibilità è profondamente marcata dalla scienza giuridica e dal riferirsi al diritto romano con la sua capacità di distinguere, di ritrovare i principi e di indicare deduzioni, e nel contempo la sua sapienza pratica lo conduce a compiere questa lettura in rapporto a quella che può essere indicata come architettura della città. In questa linea vedrei congiungersi l’attitudine profetica e quella giuridica.

Le radici di questa attenzione di La Pira alla rilevanza di un pensiero fondato su principi e nel contempo sulla urgenza di costruire una città a mio avviso sono da ritrovare nel suo studio, nel suo discepolato con il prof. Betti di cui recentemente è stato edito il carteggio sin dagli anni ’20 e direi anche con l’esperienza dell’incontro con Firenze e la rilevanza dello sguardo alle città che lo condurrà a cogliere le relazioni tra i popoli e il ruolo del Mediterraneo per la pace mondiale.

Riguardo al suo rapporto con il prof. Betti vorrei ricordare la sottolineatura evidenziata da Giuseppe Dossetti nel suo discorso nel X anniversario della morte di La Pira che Emilio Betti non fu solo grande maestro di diritto romano, ma unì a tale competenza la elaborazione della teoria ermeneutica generale e La Pira ne ebbe certamente influsso e acquisì importanti orientamenti per il suo studio.

A Firenze in due mesi svolge un intenso lavoro nella tesi che trova le lodi nella discussione di laurea il 10 luglio 1926 (era arrivato il 3 maggio). Quando pochi anni dopo ebbe l’incarico alla cattedra di diritto romano, poco dopo aver intrapreso il corso scriveva ad un amico di Messina, il 15 dicembre 1933: “… Ho nel cuore una gioia traboccante: gioia che comunica anche alle mie lezioni un timbro speciale di vita … Gli studenti mi seguono: ad essi io mi sforzo di mostrare le bellezze geometriche del diritto romano. Credilo c’è tanta luce in questo panorama di ‘istituti’ che offrono allo sguardo linee architettoniche così belle. Il diritto romano va insegnato mostrando queste prospettive ricche di simmetria: solo così il nostro insegnamento ha una funzione educativa di grande importanza. Sarebbe bello se potessimo dare agli studi giuridici questo afflato di bellezza che solleva dalla tecnica pura alla visione di un panorama unitario. Dobbiamo far circolare nei nostri studi queste luci di sapere che resero così attraenti gli studi dei nostri antichi” [41].

In questo periodo coincidono due movimenti nell’animo del giovane La Pira: la meraviglia per la bellezza della città di Firenze di cui rimane da subito colpito e la bellezza architettonica del diritto romano. Questa dimensione di bellezza segna la sua spiritualità [42]. “Firenze è fatta di arte e tutto in essa ispira bellezza” [43].

Così il prof. Gian Gualberto Archi sottolineò come il diritto romano fu per la La Pira uno strumento in vista dell’attenzione alla vita delle persone, per una utilità non da intendersi in senso utilitarista, ma nella direzione di una ricerca di offrire risposte ai desideri di vita e di maturazioni di tutte le dimensioni della vita personale e sociale:

“A La Pira interessava il diritto come fenomeno vivente: lo interessava in quanto destinato a quella utilitas hominum, alla quale egli, seguendo le precise parole di un giurista romano, lo intendeva destinato. E questa conclusione non è affatto banale (…) Mai una volta che la sua attenzione si sia manifestata come concentrata sull’uomo in sé isolato, ma sempre invece sull’uomo in un rapporto di alterità. Il che significa, trasportato sul piano giuridico, considerare il diritto essenzialmente come mezzo di convivenza di tutti e sfuocarlo in quanto salvaguardia dei singoli” [44].

Il pensiero giuridico per La Pira è strumento non solo per vivere la sua vocazione di studioso così come intuì negli anni giovanili, ma per costruire la città, in cui la bellezza che lo aveva affascinato si unisce con l’elemento della dignità delle persone che insieme nella città, quale organismo di relazioni e di società convivono. Qui si lega insieme il suo lavoro per la Costituzione e la sua intuizione della vocazione delle città come luogo di socialità che si contrappone alla guerra che gli ispirerà i convegni per la pace e per la civiltà cristiana.

“Nella razionalità ed universalità delle architetture concettuali romane egli non ravvisa l’impronta di uno schema teorico culturale chiuso nel proprio passato (‘il sistema non è una semplice intelaiatura di nozioni prima disperse ed ora ricondotte ad unità’). All’edificio logico-sistematico creato dalla giurisprudenza classica La Pira chiede di farsi modello pragmatico, criterio orientativo dell’agire : “l’unità è feconda di luce, è generatrice di sviluppi, è vitale” [45].

Rimangono ancora luminose – di fronte alla crisi della democrazia che stiamo sperimentando nel nostro presente e nelle incertezze riguardanti la questione delle riforme costituzionali – le sue considerazioni quando si poneva il problema di trasporre la sua competenza giuridica nella elaborazione di un testo costituzionale che offrisse l’impalcatura per la vita di uno stato democratico. Riguardo alla costituzione in Architettura di uno stato democratico La Pira scrive parlando del tessuto della futura costituzione:  “Bisogna costruire un edificio costituzionale non in crisi, non sproporzionato alla natura della persona umana e alla struttura reale del corpo sociale: perché questa natura e questa struttura non peccano né dell’uno né dell’altro eccesso. La formula – abbastanza felice – che indica questo tipo costituzionale nuovo e che ne definisce l’architettura è questa: tipo personalista e pluralista di edificio costituzionale [46]. “(…) anzitutto  riconoscimento e tutela dei diritti naturali della persona umana: diritti perciò anteriori ad ogni ad ogni riconoscimento statuale e pertanto inviolabili. Sin qui la coincidenza con la costituzione dell’89 è piena. Ma comincia subito la differenziazione. La risposta va ricavata dal duplice aspetto della personalità umana: quello della libertà e quello della solidarietà (socialità): vi sono diritti che si radicano nella prima e diritti che si radicano nella seconda: l’insieme degli uni e degli altri costituisce il quadro integrale di questi diritti naturali essenziali dell’uomo. Ma da ciò deriva una conseguenza: i diritti che si radicano nella solidarietà, per sussistere, presuppongono l’esistenza di comunità che ne sono il sostegno. Tali comunità, quindi, hanno anche esse i loro diritti essenziali che non possono essere dallo stato essere disconosciuti. Ecco allora il quadro integrale dei diritti della persona, non solo i classici diritti di libertà civile e di libertà politica (diritti che si riferiscono alla persona isolatamente considerata ed alla persona in quanto è membro della comunità statale); ma anche i diritti sociali fondati sugli status che la persona possiede: in quanto cioè, essa è membro di una comunità familiare, di una comunità religiosa, di una comunità territoriale, di una comunità di lavoro e di classe (sindacati, corpi professionali) della comunità nazionale ed internazionale; e di conseguenza anche i diritti di queste medesime comunità (pluralismo giuridico) che hanno ciascuna il loro fine e il loro statuto giuridico” [47].

Nel discorso a Ginevra all’incontro della Croce Rossa del 12 aprile 1954 La Pira parlò delle città e in esso espresse una prima elaborazione del suo pensiero sulla missione delle città nel tempo dell’era atomica: la sua riflessione sulla città ha radici lontane nella maturazione del suo sguardo profetico, unito alla riflessione sulla persona e sulla società e alle radici giuridiche del suo pensiero che guardava ad una architettura sociale [48]. “Le città hanno una vita propria: hanno un loro proprio essere misterioso e profondo: hanno un loro volto; hanno, per così dire, una loro anima ed un loro destino: non sono cumuli occasionali di pietra: sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni di Dio…”.

A Ginevra si fece chiaro in lui l’intuizione che il destino dell’umanità trovava un luogo di riferimento fondamentale nel destino delle città e si poneva con forza la questione del diritto delle città alla sopravvivenza. Così parlò: “La mia dolce misurata ed armoniosa Firenze, creata insieme dall’uomo e da Dio, per essere come città sul monte, luce e consolazione  sulla strada degli uomini, non vuole essere uccisa! Questa medesima volontà di vita affermano, con Firenze, in virtù di un tacito ‘mandato’ conferito al Sindaco di Firenze, tutte le città della terra: città, ripeto, capitali e non capitali; grandi e piccole; storiche e non storiche; artistiche e non artistiche; tutte! Esse proclamano unanimi il loro inviolabile diritto all’esistenza: nessuno ha diritto, per qualsivoglia ragione, di ucciderle” [49].

L’anno dopo nell’ottobre 1955 convoca a Firenze i sindaci delle capitali di tutto il mondo. Come egli stesso confessò la maturazione di tale iniziativa era avvenuta a Ginevra l’anno precedente. Le ragioni dell’utopia per La Pira erano le ragioni del realismo di fronte ad una storia da leggere come grande alternativa  Aveva detto nel discorso citato a Ginevra “Quando dico che tutte le città della terra, davanti al reale pericolo di una condanna a morte, proclamano unanimi il loro inviolabile diritto all’esistenza, io non faccio una retorica e non faccio del nominalismo: non uso cioè parole ed immagini cui non corrisponda una solida realtà” [50].

Un’ultima considerazione sulle radici del pensiero e sull’azione di La Pira la riserverei per la sua intuizione del Mediterraneo come luogo dell’incontro e della costruzione di un rapporto nuovo di popoli in cui le grandi tradizioni religiose potessero esprimere le loro valenze di pace proprio a partire dalla medesima origine abramitica. Mi sembra questa una intuizione di una attualità che provoca la situazione contemporanea, dove sempre più appare come la questione della pace e la pace nel contesto mediterraneo sia uno snodo fondamentale per la possibilità di un futuro per la vicenda di tutti i popoli nel mondo.

A tal riguardo egli è testimone di una maturazione del suo pensiero e di una lenta apertura a orizzonti più ampi di quelli rinchiusi in una visione di chiesa per molti aspetti ancora debitrice di modelli del tradizionalismo cattolico. Da una preoccupazione che segnava i primi convegni nell’orizzonte di affermare la validità della civiltà cristiana nella costruzione della pace, il dialogo con voci diverse lo conduce ad elaborare posizioni critiche verso l’occidente identificato con il cristianesimo, in una considerazione del mondo non solo nella tensione tra Ovest ed Est ma nella più consapevole lettura dei rapporti Nord Sud. In questa intuizione confluiscono le radici di quei tre elementi che mi appaiono centrali nella vicenda personale di La Pira.

Nell’idea dell’uomo mediterraneo La Pira immette la sua visione profetica: si fa ascoltatore della questione centrale del colonialismo, problema centrale per i popoli dell’Oriente e del Sud – a differenza del comunismo quale problema per le regioni dell’Europa occidentale negli anni ’50 – e individua nel Mediterraneo lo spazio snodo per una possibile apertura della pace mondiale.  Non un fossato ma grande lago di Tiberiade. In questa visione confluisce la radice metafisica in cui riconosceva il confluire della sapienza che proveniva dal pensiero di Tommaso insieme al contributo della filosofia araba.

Quando introdusse il Colloquio mediterraneo del 1961 sul tema L’idea del Mediterraneo e l’Africa nera ricordò che l’iniziativa dei Colloqui gli era sorta mentre era in Palestina ad Hebron, presso la tomba di Abramo, padre di una famiglia di credenti che si strutturava nelle tre grandi tradizioni di ebrei cristiani e musulmani.

Nella visione del Mediterraneo come grande lago di Tiberiade compito storico era una azione che ponesse insieme questa dimensione profetica e  metafisica, con una azione da condurre con capacità giuridica e operativa, toccando il momento economico. In una strategia che traducesse l’intuizione profetica di un cammino storico in forme concrete e in scelte. Ebbe a dire a Cagliari nel 1973: “Ed una grande civiltà – la nuova civiltà del mondo – avrebbe qui, in Terra santa e nel Mediterraneo, il suo fondamento e il suo grande punto di genesi. E’ un sogno? E’ vero: ma questa età apocalittica in cui viviamo e nel cui interno sempre di più ci inoltriamo, è appunto l’età dei sogni…”.

Vorrei concludere richiamando il tema di questo nostro convegno. Due parole care a La Pira, che spesso ritornano nelle sue lettere e nei suoi discorsi: spes contra spem. E’ citazione dalle lettere di Paolo, Rom 4,18 in cui si parla della speranza di Abramo. La Pira fa propria all’interno di un movimento di fede in cui egli trova forza per uno sguardo lungo sulla storia e da cui egli trova anche ispirazione per l’impegno a rispondere a tale opera di Dio, nonostante ogni fatica e contraddizione del presente. Sta qui la più profonda radice del suo pensiero e della sua azione.

Nel 1964 alla Tavola rotonda Est Ovest a Firenze offrì una sintesi della azione fiorentina per la pace, da cui erano sgorgati i convegni per la pace, i colloqui mediterranei e l’incontro dei sindaci: “Ecco cari amici il significato che Firenze attribuisce a questa sessione fiorentina della Tavola rotonda: una sessione che si situa appunto, nel quadro prospettico della speranza storica di Firenze: e che da questa prospettiva di grande speranza – spes contra spem – trae nuovo vigoroso impulso per il suo grande compito d’indicazione e di esplorazione della strada del disarmo, della conversione e della pace. Siamo utopisti? Sognatori? Crediamo di no, cari amici: i fatti convalidano ogni giorno (malgrado tutto) le nostre tesi; la storia avanza in modo irresistibile ed irreversibile verso la sua primavera e verso la sua estate; avanza irresistibilmente lungo la strada biblica di Isaia e di san Giovanni; verso il punto omega (per usare l’espressione tanto significativa di Teilhard de Chardin) che il Padre celeste ha prefissato nei secoli per la pace, la grazie e la prosperità della intiera famiglia degli uomini: ‘e regneranno con Cristo per mille anni’ (Ap 20,6)” [51].

Così scriveva proprio all’indomani dell’elezione di Giovanni XXIII il 29 ottobre del 1958: Andiamo molto in là col desiderio e con la speranza? Sì è vero; ma il motto di Firenze cristiana è stato in questi ultimi anni, tanto drammatici ed avventurati, il motto paolino: spes contra spem: che fu anche la “divisa avventurosa” del patriarca Abramo” [52].

 

  1. Cfr. P.A.Carnemolla, Un cristiano siciliano. Rassegna di studi su Giorgio La Pira (1978-1998), Sciascia, Caltanissetta – Roma 1999.
  2. Ernesto Balducci al suo arrivo a Firenze annotava nel suo Diario: “Fra gli altri ha parlato La Pira, eloquenza povera, parola incerta, periodi frantumati, anacoluti, ripetizioni (…) pure una ricchezza di sentimento che sommergeva e trasfigurava la povertà dell’eloquio. Anima ardente in piccole membra, aperta a larghi orizzonti. Mi ha fatto bene” (cit. in B.Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità, Laterza, Bari, 2002, 132).
  3. C’è una descrizione efficacissima di Giuseppe Dossetti in un discorso tenuto in occasione del 5 novembre 1987 decimo anniversario della morte (pubblicato col titolo Un testamento fatto di parabole in “Quaderni della Fondazione La Pira”, 1 (1987), 3-29. Cogliendo in La Pira il carattere mediterraneo così lo descriveva: “Tutto in lui richiamava invece il tipo mediterraneo, se mai con marcati segni di provenienza dall’altra sponda: la statura piccola, il corpo flessuoso e sempre un po’ come sospeso, il colore della pelle, le grosse labbra, gli occhi scintillanti, splendidi, penetrantissimi, che trapassano l’interlocutore e l’indescrivibile espressività mimica delle sue mani e del suo volto, che oltrepassavano sempre la parola e risolvevano tutto là dove la parola e il concetto restavano impotenti e quindi alla fine il fuoco, l’ardore luminoso, direi il calore bianco che emanava da tutto il suo essere. Un esempio significativo lo si può veder nella fotografia col patriarca ortodosso di Mosca… Questa mediterraneità che era già iscritta per natura, e poi per grazia, in tutta la personalità di La Pira, è un dato a cui La pira è rimasto sempre fedele e che non ha mai permesso che egli si lasciasse assorbire, neppure culturalmente dal settentrione…”.
  4. G. La Pira, Il sentiero di Isaia. Scritti e discorsi (1965-1977), a cura di G. e G. Giovannoni, Cultura, Firenze, 1978, 531.
  5. Ibid., 531.
  6. Ibid., 531.
  7. G. La Pira, Giorgio La Pira sindaco: scritti, discorsi e lettere, a cura di U. De Siervo, G. e G. Giovannoni, Cultura Nuova , Comune, Firenze, 1988-1989.
  8. G. La Pira, Lettere a Salvatore Pugliatti  (1920-1939), Studium, Roma 1980, 138. Settembre 1933: “Io non dimenticherò mai quella Pasqua del 1924 in cui ricevei Gesù Eucaristico: risentii nelle vene circolare una innocenza così piena da non poter trattenere il canto e la felicità smisurata”. Nella pagina del Digesto di Giustiniano che a quel tempo stava studiando La Pira annoterà: “Con la mente più chiara e l’anima aperta in attesa di un venire cui la speranza non ha mai cessato di tendere e la Fede mai cessato di sollevare. E sempre con umiltà. A 20 anni: epoca di luce e inizio di Unione col Maestro”.
  9. La Pira, Lettere a Salvatore Pugliatti, cit., 56. Cfr. S. Nistri, La spiritualità del giovane La Pira, Fondazione La Pira, Firenze, 2005. Si tratta dell’intervento al Convegno “Nostalgia dell’altro. La spiritualità di Giorgio La Pira”, Roma, PUST, 12-13 novembre 2004, i cui Atti sono stati pubblicati da Marietti 1820, Genova (V.Possenti [a cura di], Nostalgia dell’altro. La spiritualità di Giorgio La Pira, Marietti 1820, Genova 2005).
  10. Dopo una parentesi di studio a Vienna e Monaco, fu incaricato dell’insegnamento a Firenze e Siena, Pisa e ancora a Firenze. Nel 1930 conseguiva la libera docenza e nel 1933 vinse il concorso a cattedra. Cfr. F. Milazzo, Giorgio La pira, professore di diritto romano, XXIII anniversario della morte di Giorgio La Pira, Associazione Giorgio La Pira ‘Spes contra spem’, Pozzallo,  Grafica, Modica, 2000.
  11. G. La Pira, L’anima di un apostolo. Vita interiore di Ludovico Necchi, Vita e pensiero, Milano, 1932, rist. 1988, 105-106. Alla zia Settimia scrive: “Lavorare per la Chiesa nell’opera di apostolato e nella carità spirituale e materiale è diventato l’esigenza fondamentale della mia vita. Trarre occasione da tutte le circostanze per proclamare al mondo che se ne è dimenticato la dolce verità di Gesù Cristo, di un Dio fatto uomo e morto in croce per noi, è opera che commuove profondamente la mia anima” (alla zia Settimia, aprile 1931, Lettere a casa, Vita e pensiero, Milano, 1981, 142).
  12. La Pira, L’anima di un apostolo, cit. 42.
  13. La dimensione della preghiera segna la vita di La Pira sin dalla gioventù. Ne testimonia Fioretta Mazzei che scrive: “Non si immagina fino a che punto egli abbia dato importanza a questo tempo di preghiera, ne scrive moltissimo e ne parla sempre, insiste di fare altrettanto: orientare tutta la giornata intorno all’Eucaristia; farne la preparazione e il ringraziamento; riservare al Signore il tempo migliore, il più vivo, il più attento, il più affettuoso; imparare la ‘dolcezza mite del crocifisso’. (F. Mazzei, Giorgio La Pira. Cose viste e ascoltate, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1980).
  14. Ibid., 27.
  15. G. La Pira, La preghiera forza motrice della storia: lettere ai monasteri femminili di vita contemplativa, a cura di Vittorio Peri, Città nuova, Roma, 2007, 3 marzo 1954, 122.
  16. Ibid., 982.
  17. La Pira, Lettere a casa, cit.,  51.
  18. P. Palagi,Giorgio La Pira. Politica e opzione per i poveri, Dehoniane, Bologna, 1996.
  19. Palagi, Giorgio La Pira, cit., 13-42; 43-74.
  20. Palagi pone in evidenza come l’incontro con i poveri abbia suscitato la sua riflessione sui sistemi economici e la sua opzione a favore di una visione keynesiana della politica economica. Non solo, ma la sua azione è stata intensa e creativa traducendo in scelte operative tale ispirazione: “Egli denuncia con forza la non neutralità della scienza economica e rifiuta ogni sua pretesa di autonomia rispetto all’ordine morale (…). All’epoca di La Pira (ed anche successivamente) non conosciamo un altro sindaco o politico italiano che abbia agito con la stessa determinatezza ed incisività per rendere effettivi i diritti sociali. La requisizione di case sfitte, la non formale solidarietà con gli operai ingiustamente licenziati, la difesa dell’occupazione condotta instancabilmente con tutti i mezzi a disposizione, costituiscono un vero ‘linguaggio’, non meno importante ed efficace di quello scritto” (Ibid., 204-205).
  21. Ibidem., 43-74.
  22. G. La Pira, La preghiera forza motrice della storia, cit., 515.
  23. Vittorio Possenti individua nella lettura di san Tommaso una delle radici del pensiero e dell’impegno di La Pira: “La centralità della persona umana con il valore ultimo dell’atto contemplativo con il quale l’uomo si unisce a Dio” e “la portata storica della risurrezione di Cristo, punto di forza e di propulsione dell’intera storia”.

V. Possenti, “La Pira e san Tommaso nel contesto storico multiculturale di Firenze”, Convegno di studio, 5-7 novembre 1981.

“La Pira non ricorre all’Aquinate per fondare il realismo conoscitivo o per argomentare sulla validità della metafisica dell’essere, cose d’altronde di cui è pienamente convinto, ma per affermare il valore ultimo dell’atto contemplativo e insieme l’essenziale politicità del cristianesimo (e anche dell’intero insegnamento di san Tommaso) da cui trarre le perenni regole della edificazione della civitas humana… dottrina della persona e della società, del diritto e della legge, del bene comune, della proprietà, del fine della società e dello Stato, della guerra eccetera. La ricca eredità tomista viene assunta non come un lascito di tempi ormai lontani da rendere oggetto di ricerche erudite, bensì come una struttura pienamente contemporanea, capace di produrre sempre nuovi frutti, per guidare l’azione storica dei cristiani” (V.Possenti, Giorgio La Pira e il pensiero di san Tommaso, Roma, a cura della PUST, Massimo, Milano 1983, 21; anche Id., La Pira tra storia e profezia con Tommaso maestro, Marietti 1820, Genova 2004).

  1. Cfr. Carnemolla, Un cristiano siciliano, cit. 182-212 in cui viene delineato il percorso che condusse La Pira da Il frontespizio a  Principi, le motivazioni e l’impianto tematico di Principi e i motivi tomistici del pensiero lapiriano in questa fase.
  2. Omaggio al Maestro, in “La Badia” 4, 5 novembre 1980, 12-36, qui 12.
  3. Dossetti nel suo discorso del 5 novembre 1987 osserva che “la fede di La Pira come fede realistica nel Risorto, quale il Polo supremo di attrattiva e di trasfigurazione di tutta la realtà, era già tutta costituita quando lui a 21 anni scriveva la ‘lettera prima’” (p. 14). Dossetti fa riferimento ad una lettera inviata da La Pira del 14 settembre 1925 allo zio, in cui egli scriveva: “Il cattolicesimo … è azione, cooperazione fattiva di Dio e dell’uomo: gettar mille ponti che permettono il passaggio dalla terra a Dio: vuole che ogni uomo esperimenti – sia pure in minima parte – le delizie della santità inizi l’ascesa della scala mistica che Gesù Cristo pose tra la terra e il cielo. Ora questi esperimenti sono concreti, richiedono tutto l’uomo nella sua bellezza interna ed esteriore. La pace che l’animo possiede deve rispandersi sulle cose della terra, per sollevarle, ordinarle, purificarle. E tutta la sublime sapienza della Chiesa, non ha altro fine che questa armonia sempre accresciuta, che questa sempre più perfetta aderenza del mondo esteriore e interiore” (la lettera è pubblicata nel medesimo Quaderno [dicembre 1987] alle pagine 33-37).
  4. La Pira, Omaggio al Maestro, cit., 13.
  5. Ibid., 15.
  6. Ibid., 15. Cfr. anche ibid.: “Due genesi scientifiche analoghe, dovute – in due campi diversi – (diritto e teologia) ed in tempi diversi ad una identica metodologia: applicazione cioè di uno stesso metodo (quello aristotelico) unitivo del sapere: de iure civili in arte redigendo (per un verso) de theologia (si può ben ripetere) in artem redigenda (per un altro verso): una theologia diventata, cioè, nella Summa, un edificio pieno di armonia e di unità, scientificamente perfetto!”.
  7. Alcuni maestri nella fase giovanile di La Pira a Messina, furono Federico Rampolla del Tindaro, suo insegnante di lettere all’Istituto Jaci e don Onofrio Trippodo, amico di Gentile e di ispirazione blondeliana, che lo avviò alla lettura di Maurice Blondel e lo introdusse a conoscere autori importanti per la loro interpretazione della storia come Bossuet (Discorso sulla storia universale), Fornari, Vico e altri; cfr. Nistri, La spiritualità del giovane La Pira, cit. e G. Miligi, Gli anni messinesi, Intilla, Messina 1995, 269.
  8. Cfr. “L’architettura della città dell’uomo non poteva ricavarsi che dalla contemplazione e dalla imitazione dell’architettura della città di Dio” con queste parole La Pira indicava il senso del dialogo che egli intendeva attuare con le suore di clausura (Lettere alle suore di clausura, Immacolata 1952, in Lettere alle suore di clausura 1951-1960, 34).
  9. La Pira, Omaggio al Maestro, cit., 16.
  10. Ugo De Siervo ne riscontra le radici nel contatto tra La Pira e l’insegnamento di padre Cordovani negli anni ’30 a Firenze: dal 1933 al 1937 questo frate domenicano, provinciale dal 1933 della Provincia romana tenne a Firenze un corso di filosofia tomista applicata alla giurisprudenza presso la Facoltà di giurisprudenza. Cordovani divenne un punto di riferimento per l’ambiente cattolico fiorentino: nel 1936 iniziarono le settimane dei laureati cattolici a Camaldoli e dal 1936 si svolgono i primi tre convegni nazionali dei laureati cattolici: cfr. U. De Siervo, I rapporti fra padre Cordovani e La Pira negli anni trenta, in Fondazione Giorgio La Pira, La Pira e gli anni di “Principi”. La riflessione su Tommaso d’Aquino e la lotta alla dittatura, Cultura Nuova, Firenze, 1993, 93-119, in part. 100-105.
  11. La Pira,Omaggio al Maestro, cit., 18.
  12. Ibid.,27.
  13. Cfr. V. Citterich, Un santo al Cremlino. Giorgio La Pira, Milano, Paoline 1987, 110-111.
  14. In Architettura di uno Stato democratico scrive: “quando la Provvidenza mi sottrasse alla mia vita normale di meditazione e di studio e mi portò sugli scanni dell’Assemblea costituente io mi sono trovato nello stato d’animo di un ‘architetto’ cui sia stato affidato il compito di costruire un edificio nuovo al posto di quello vecchio in parte o in tutto crollato … perché è crollato l’edificio costituzionale anteriore? Come edificare questo nuovo edificio costituzionale perché eviti le debolezze intrinseche del precedente …? (G. La Pira, Architettura di uno Stato democratico, Fondazione La Pira, Firenze 1996, 5).
  15. P. L. Ballini, La Pira Sindaco, in La Pira, l’Europa dei popoli e il mondo: le pietre del dialogo, Polistampa, Firenze, 2014, 41-45.
  16. D. Mongillo, La riflessione sull’etica e sulla politica di san Tommaso in “Principi” in Fondazione La Pira, La Pira e gli anni di ‘Principi’, cit., 195-212, qui 207.
  17. P. Giunti, La pietra giuridica, in La Pira, l’Europa dei popoli e il mondo, cit., 109-114.

41.

  1. Cfr. F. Fabbrini, L’influenza del diritto romano sulla spiritualità di Giorgio La Pira, Convegno di studio, Firenze, 5-7 novembre 1981. In una lettera al prof. Betti del 21 febbraio 1927 da Messina La Pira rispondendo ad una sollecitazione del professore che lo spingeva per una scelta di spostamento a Firenze scriveva: “di una cosa voglio rassicurarla, ed è che io ho ben netta innanzi a me la meta che debbo prefiggermi (e che mi sono prefissa): lo studio del diritto romano – Ella lo sa – mi è particolarmente caro: esso trascende il senso comune di studio per assumere – direi – valore di strumento della mia medesima formazione interiore. Ha un valore ideale grandissimo e costituisce il tratto caratteristico della mia persona” (Il carteggio Betti – La Pira, a cura di G. Crifò, Polistampa, Firenze, 2014, 373-374.
  2. La Pira, Lettere a casa, cit., 45.
  3. G. G. Archi, Ricordo di Giorgio La Pira (1904-1977), in “Studia et documenta historiae et iuris” 44 (1978), 632. Cfr. Carnemolla, Un cristiano siciliano, cit., il paragrafo dal titolo “Il professore di diritto romano”, alle pp. 313-322 in cui sono discussi gli studi di G. G. Archi, di F. Fabbrini, P. Grossi e P. Catalano su La Pira docente di diritto.
  4. P. Giunti, La pietra giuridica, cit., 113.
  5. G. La Pira, Architettura di uno Stato democratico, cit. 28.
  6. Ibid.
  7. Cfr. E. Balducci, Giorgio La Pira, San Domenico Fiesole, ed. Cultura della Pace, 1986, 152. Viene riportata la seconda parte del discorso pronunciato il 12 aprile 1954 nella riunione straordinaria del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Ginevra (cfr. “La Badia” 3, 5 novembre 1979, 6-10). Balducci osserva come La Pira sostenendo il primato della persona umana aveva maturato uno sguardo di sospetto verso le forme stataliste. Ma il suo pensiero si apre ad una fondamentale dimensione sociale nel suo interpretare le città come luogo di una storia che è storia dei popoli. Ed in questa considerazione agganciava il suo approccio alla questione della pace: “il problema della pace cambia di qualità a seconda che lo si osservi dai culmini dello Stato o dalla cerchia di una città, dall’alto o dal basso, ed ha soluzioni diverse a seconda che lo si affidi al percorso delle trattative o al lungo cammino del cambiamento delle coscienze e delle culture” (Balducci, Giorgio La Pira, 63-64).
  8. “La Badia” 3, 5 novembre 1979, 6-10, cit. in Balducci, Giorgio La Pira, cit. 64.
  9. E’ interessante come nella sua riflessione sulla città confluiscano le radici di un pensiero che pone insieme radice profetica, metafisica e giuridica. Un esempio può essere colto da una conversazione del 1960 alla Facoltà di architettura di Firenze. In esso si può leggere: “Che cos’è … la città? E’ una casa grande, come la casa è una città piccola. E’ il principio comunitario insomma: la casa è parte di un organismo comunitario più grande che è la città. La città offre a ciascuna casa tutto ciò che è necessario per essa. Cosa è necessario per l’individuo? La casa, poi l’officina per lavorare, la scuola per l’intelligenza, l’ospedale per guarire, la chiesa per pregare, il palazzo comunale per le relazioni fra i cittadini. Ecco in che modo abbiamo concepito l’Isolotto, questa città-satellite… Il principio che ci ispira è sempre quello: la difesa della persona umana. Perché ci sono due modi di concepire la comunità: una comunità che diventa una gabbia e opprime la persona, e una comunità che fa contesto con la persona, la integra”. Per giustificare l’idea di una città a stella con una struttura fatta di città satelliti rinvia alla struttura del diritto romano come sapienza legislativa elaborata attorno ad alcuni grandi principi (cfr. La città comunitaria in “La Badia” 3, 5 novembre 1979, 48-50).
  10. G. La Pira, Lettere alle claustrali, Milano, Vita e pensiero, 1978, 3 luglio 1964, 498.
  11. La Pira, La preghiera forza motrice della storia, cit., 29 ottobre 1958, 364.