Spes contra Spem 2015: intervento di Giovanna Carocci
Fioretta Mazzei: Essere laici non per amare meno.
di Giovanna Carocci
Presidente Associazione Internazionale Fioretta Mazzei – Firenze
La nostra civiltà, quella che ci ha caratterizzati finora come storia, cultura, anche in senso antropologico, retaggio ed elaborazione continua di convinzioni, arte e bellezza nel senso più alto possibile, ha sempre ruotato intorno e a partire dalla donna, cominciando dalla mea Domina per eccellenza: Maria, la Madre di Cristo. E’ questo un sigillo che, piaccia o no, ha costruito ed orientato tutto il nostro modo di riconoscerci e di avviare il nostro rapporto/confronto con noi stessi, gli altri, la società i problemi materiali e temporali e, finalmente, col Trascendente.
Fioretta Mazzei (1923-1998)1) era una donna che si riconosceva pienamente in questa civiltà che, a Firenze, trova sicuramente nel corso dei secoli, alcune delle sue più significative manifestazioni.
Nasce a Firenze il 26 settembre 1923 da una famiglia di antica nobiltà fiorentina. Conosce fin da bambina, nella cerchia delle amicizie paterne, alcune importanti figure di santità come don Giulio Facibeni e Giorgio La Pira.
Fioretta compie gli studi liceali al collegio del Sacro Cuore sul viale dei Colli, poi si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dove si laureerà con una tesi sul Rinascimento con Eugenio Garin. Dall’8 settembre 1943 Giorgio La Pira, ricercato dai fascisti, sarà ospitato e nascosto dal padre di Fioretta, Iacopo – economista e docente prima alla Cattolica di Milano e poi all’Università di Firenze – nella villa di campagna a Fonterutoli, nel Chianti senese. In quei tre mesi di studio della Somma teologica di Tommaso d’Aquino e di conversazioni, matura il sodalizio d’amicizia spirituale tra La Pira e Fioretta al servizio del Regno di Dio e del bene comune. Negli anni Quaranta Fioretta riflette profondamente sulla propria vocazione finché, nella Settimana Santa del 1947, matura irrevocabilmente la sua scelta: si consacra privatamente a Dio nel triplice voto di castità, povertà e obbedienza, decidendo di restare nel mondo per portare il mondo a Dio. Intanto, con altre amiche e con un giovane sacerdote suo coetaneo, don Danilo Cubattoli, suoi compagni “d’avventura cristiana”, si dedica alle ragazze ed ai ragazzi del suo quartiere, S. Frediano, spesso trascurati ed in condizione di povertà. Per loro, oltre all’aiuto nello studio ed all’istruzione religiosa, Fioretta apre l’esperienza delle vacanze, in realtà momenti di maturazione umana e cristiana, in montagna, nella foresta di Vallombrosa. Per decenni quell’esperienza, tuttora aperta, segnerà in positivo la crescita di intere generazioni.
Nel 1951 Fioretta Mazzei inizia la sua vita pubblica: entra nel consiglio comunale di Firenze, con La Pira sindaco, eletta nelle liste democristiane e vi resterà, con brevi intervalli, fino al 1995, fatto più unico che raro nel panorama politico italiano: sempre rieletta per la totale fiducia che i fiorentini nutrono in lei. Ancora dal 1951 Fioretta insegna Religione e Francese negli istituti superiori, il che le darà modo di avvicinare e formare, nel corso dei decenni, migliaia di giovani, accompagnandoli nel loro percorso di crescita e di maturazione personale.
L’aveva respirata, conosciuta e fatta propria a partire dalla sua antica famiglia di stampo piagnone, cioè savonaroliano, tutta intrisa di storia fiorentina, il che fa tutt’uno con molte delle espressioni più alte della civiltà cristiana tout court: da Dante, passando per S. Filippo Neri, con la sua mistica della gioia scanzonata e semplice, quell’Amor Dei che demistifica le situazioni umane e ne svela la loro verità; all’amore mistico e nascosto agli occhi umani della carmelitana S. Maria Maddalena de’ Pazzi, il cui convento – oggi seminario arcivescovile – sorgeva nel rione di S. Frediano, il quartiere dove Fioretta è nata e vissuta. Fino ai santi fiorentini contemporanei, che Fioretta ha frequentato fin da bambina: da Don Facibeni a Don Bensi, a La Pira naturalmente. Senza dimenticare l’incidenza del padre economista, che si pose sempre il problema del lavoro e di una più equa distribuzione sociale della ricchezza.
Tuttavia, quella pienezza di vita interiore, intellettuale e spirituale che traspariva ed affiorava nel suo vivere, quasi suo malgrado, ci è stata consegnata e restituita complessivamente, dopo la morte, attraverso i suoi diari spirituali, vergati con fedeltà quasi ininterrotta dagli anni dell’adolescenza fino agli ultimi mesi di vita. L’impostazione varia e ricca della sua esistenza procedeva da una premessa educativa, per così dire: la fede in Cristo è portatrice di civiltà e questa civiltà, a sua volta, rispecchia Dio, cioè il suo ordine di valori, in cui ogni uomo trova il suo posto, la sua dignità e la sua pace.
Sono innumerevoli le famiglie che si costituiscono con il suo sostegno ed incoraggiamento. Il sindaco La Pira associa sempre più strettamente Fioretta Mazzei alla sua azione politico-amministrativa. Fioretta assumerà la responsabilità di vari assessorati nel tempo: Pubblica Istruzione, Cultura e relazioni internazionali, Sicurezza sociale e il suo ruolo pubblico si prolungherà e rafforzerà ben oltre la parabola politica delle giunte La Pira, anche se lei percepirà sempre l’impegno politico come un’aggiunta alle proprie decisioni esistenziali. Ma la veste pubblica la porterà ad avere intensi e prolungati contatti e rapporti internazionali, che resteranno fino al termine della sua vita.
Dopo la morte di Giorgio La Pira dà vita alla Fondazione omonima che presiede fino alla morte ed in questa veste promuove un’intensa attività culturale. Non interrompe mai il rapporto e l’aiuto ai poveri: nella sua casa, vero cenacolo, sempre aperta, ospita ragazze e persone in difficoltà. Coltiva per lunghi anni la consuetudine d’amicizia e d’affetto con il gruppo fiorentino dell’Amicizia ebraico-cristiana, di cui si occupa, divenendone presidente, dal 1977, anno della morte di La Pira. Dal 1990 al ’95 è presidente della Commissione per la pace del Comune di Firenze, un organismo pensato appositamente per lei. In questa veste promuove il gemellaggio tra Firenze e Nazareth, nel nome dell’Annunziata: con questo nome è venerata a Firenze, la Madre di Dio. Muore a Firenze l’11 novembre 1998 alle tre del pomeriggio, come Gesù, nella memoria di S. Martino di Tours, colui che fece a mezzo del suo mantello con il povero.
Per questo era per lei assolutamente necessario trasmettere le ricchezze millenarie della civiltà giudaico-cristiana al futuro, consegnarla alle nuove generazioni per nuovi ed impensati accrescimenti, senza stancarsi di parlare, ricordare, ri-chiamare, cioè radunare ancora vicino quelli che se ne erano allontanati in preda al sonno della coscienza, cioè della consapevolezza. Da qui la centralità nella sua vita dell’attività di insegnante, oltre a quella di donna politica, di educatrice di generazioni di adolescenti e di giovani: il futuro del mondo. Mossa contemporaneamente dalla certezza, così facendo, di fare opera di pace che, tomisticamente, non è una variabile indipendente da tutto il resto ma la risultante di un ordine stabilito, non dagli uomini secondo logiche utilitaristiche e di dominio, ma voluto da Dio e da Lui rivelato. Sorge così, una chiamata alla fede e all’apostolato precocemente avvertita: Ricordo, – scrive – piccolissima, credo forse a 4 o 5 anni, davanti a una statua di S. Teresina che mi spiegavano, di aver deciso anch’io di rispondere a Dio con amore. Ricordo a quindici anni di aver pensato con chiarezza in cucina a Fonterutoli di non sposarmi, di averlo già pregato… molto prima davanti alla Madonnina in camera mia, di averlo seriamente impostato.
Poi questa vocazione da privata divenne pubblica: accanto a Giorgio La Pira e dopo di lui. E in questo ambito Fioretta profuse, in tappe diverse e di sempre crescenti responsabilità ed autorevolezza, con una generosità uguagliata solo dalla sua lucidità politica, ogni sforzo creativo per la sua Firenze, amata con la forza di convinzione di chi conosce perfettamente la sua storia, vi si riconosce e ne comprende la portata universalistica.
Vorrei provare a identificare a grandi linee, quelle tappe, nei loro connotati essenziali, sapendo che esse sono sempre affiancate ed illuminate da altre conquiste, di natura interiore e spirituale, in cui procedono insieme la riflessione e la maturazione del pensiero e dello spirito, cioè l’evolvere del Magistero dello Spirito Santo in lei: Il punto centrale, intorno a cui gravita tutta la morale, tutta la vita interiore? La nostra unione con Dio.
E’ questa la caratteristica saliente della personalità di Fioretta Mazzei, certo una delle figure più originali e poliedriche del laicato cattolico italiano del Novecento: l’affiancare senza soluzione di continuità, ma sapendoli distinguere, l’umano e il divino, il temporale e lo spirituale, una vita privata quasi “mangiata” dall’aspetto pubblico e che tuttavia è riuscita a preservare la semplicità e la freschezza dei rapporti umani di amicizia e di estrema vicinanza ai poveri e ai sofferenti, senza ombra di pietismo e con una carica di compartecipazione familiare da lasciare sbalorditi.
Era l’amica che arrivava d’improvviso carica di doni e, prima ancora, del suo dono più prezioso: la sua sobria, affettuosa amicizia che colmava completamente le distanze, in una umiltà appresa ed ostinatamente perseguita alla scuola della Vergine Maria, Colei che, in fretta, – dopo l’annuncio dell’Angelo – si reca dalla cugina Elisabetta, incinta di sei mesi, per servirla e starle vicino (Lc 1,39-45).
– Gli anni decisivi della chiamata contemplativa nel mondo
Il decennio degli anni Cinquanta è decisivo e definitivo per la sua compiuta maturazione di donna e di cristiana. Anni di intense riflessioni sulla sua vocazione, di chiarificazione sulle modalità in cui può esprimersi, di puntualizzazione interiore del rapporto col Signore e con gli altri. Fioretta ribadisce e scava ancor più la sua chiamata contemplativa nel mondo, intimo e più sicuro baluardo nelle tempeste mondane, risposta piena agli inviti d’amore che il Cristo le rivolge:
La Comunione ogni giorno. E’ il centro della nostra vita. La ragion d’essere della nostra vita: può non essercene nessun’altra e una vita essere del tutto completa, avere il suo pieno significato. Non si turbi il cuor vostro, dice Gesù. In realtà il cuor nostro si turba dalla mattina alla sera, il cuor nostro piange, il cuor nostro si stanca.
L’unico punto del cuore, l’unico posto dove bisogna ritornare e dove bisogna sempre vivere è qui, nel mistero dell’Eucaristia, qui dove c’è il Signore che ascolta, il Signore dato a noi. E non abbiamo bisogno d’altri, però qui è anche l’unione con gli altri, con tutti gli altri, senza i muri, le barriere, senza le sofferenze così profonde che nascono dal commercio con gli altri. In Lui, nel suo cuore, esiste una pacificazione profonda, un’armonia. La carità nasce qui. L’Eucaristia, cuore del mondo e cuore del mio mondo nel mondo.
E ancora prima, nel 1946: Le cose piccole sono quelle che contano e che piacciono a Dio. Quelle nascoste che solo Lui vede. Quelle segrete nel cuore dell’uomo.. O Signore, bisogna diventare più dolci, più fiduciosi, più attenti, guardare attentamente e fare bene il dettaglio, che è quello che conta.
Possiamo distinguere chiaramente una prima, lunga, operosa fase politica segnata dalla strettissima collaborazione e dal sodalizio di una vita, spirituale, amicale e politico di Fioretta Mazzei con Giorgio La Pira. Non è questa la sede per una analisi attenta e puntuale di quel quindicennio (1951-1965), certamente il più fecondo, ricco e felice della storia fiorentina del Novecento, senza alcun dubbio e paragone. Un periodo da ripercorrere comunque, riconoscendovi la significanza davvero storica di quella che fu, per la città e la Chiesa di Firenze, ma anche per l’Italia, una vera epopea. Ma certamente possiamo sottolineare ora una delle consapevolezze centrali nella riflessione di Fioretta, che ne determinarono anche le scelte storiche: la riflessione sulla natura e i compiti della vocazione laicale cristiana nella società.
Sono frequenti i testi diaristici degli anni Cinquanta, centrali nella maturazione della sua fisionomia intellettuale e spirituale, ma anche successivi, che documentano l’importanza di questo tema nella sua ricerca interiore. E la forza chiarificatrice con cui ne solca i lineamenti ed il perimetro appaiono impressionanti ancora e forse più oggi, in cui debolezza di pensiero e confusione di visione purtroppo non mancano davvero.
Scrive nei suoi appunti privati nel 1958: Essere laici non per amare meno, non per essere meno santi e neanche, sotto certi aspetti, meno ascetici. Essere laici per arrivare col mondo di tutte le cose, per accettare ed amare tutto, tutto quello che hai creato ed amato. Per fare un atto di fondamentale ottimismo, credere nel battesimo. Nel tuo sangue sparso su tutte le cose, per credere che tu arrivi ovunque. Non per amare meno o essere più distratti, o Signore! Per essere ricchi di speranza, virtù teologale. Per intravedere dietro le cose visibili le invisibili, che Tu hai create e che sono altrettanto presenti. Amarti come ti amava la Madonna andandosene per i monti da S. Elisabetta… come ti amava guardando tutta la storia, conoscendo tutta la profezia e riconoscendone il compimento e tutto l’avvenire.. Amarti come chiunque ti può amare tra le spinte di quaggiù, in questa ansia comune, in questo sopraffarsi continuo. Arrivare certo con meno stile, con più debolezze, con più povertà ma, o Signore, che puoi tutto, che non sei legato e soffi dove vuoi, concedi: non con meno amore.
Appare evidente in questo efficacissimo e poetico passo, una sintesi potente della piena consapevolezza di Fioretta Mazzei che quella laicale è una vocazione specifica nella Chiesa, con tutta la dignità e la responsabilità del crisma battesimale e non un minus di maggiore comodità e, in fondo, casualità nelle scelte esistenziali del credente. E tale coscienza appare assai significativa e precorritrice delle conclusioni conciliari a proposito della vocazione e dell’impegno dei laici nel mondo contemporaneo e ancor più affascinante la sua specifica cifra di libertà cristiana in quanto donna, che trova nell’amore oblativo il suo primato creaturale anche rispetto all’uomo.
Tuttavia, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la società italiana nel suo complesso, al di là delle contrapposizioni politico-ideologiche del momento, poteva apparire ancora salda nei valori fondanti, enunciati anche nella prima parte della carta costituzionale, e la Chiesa cattolica sembrava mostrare compattezza e coesione al suo interno, Fioretta Mazzei con le antenne sensibili di una intelligenza fortemente intuitiva e di una fede viva e pronta al movimento dello Spirito, non si sente affatto tranquilla e men che meno ritiene di potersi riposare, come se tutto il defatigante lavoro della ricostruzione materiale e morale del paese fosse compiuto una volta per tutte. Anzi, nonostante le apparenze “rassicuranti”, per così dire, già coglie e analizza con raro acume e coraggiosa individuazione le avvisaglie della gravissima crisi di fede, di pensiero e di relazioni interpersonali che si stanno addensando sulla Chiesa e sulla società italiana nel suo complesso; di quel relativismo secolarista di cui solo oggi, probabilmente, raccogliamo i frutti più amari. Comprende che anche i valori e le istituzioni civili, quando vengano meno nelle coscienze le ragioni profonde che li hanno determinati, cosicché le convinzioni che uniscono diventano mere convenzioni formali, sono perciò stesso destituiti di senso, messi in forse e rischia di venir meno la loro stessa legittimazione morale. In una nota di diario del febbraio 1958 osserva con il suo consueto stile asciutto e demistificante:
Lo spezzettamento del nostro mondo. E’ quel che ferisce di più, che lascia perplessi. Siamo spezzati con i nostri fratelli, siamo spezzati in noi stessi. E come in noi stessi ciò che ci unifica, ciò che ci salva, che ci sana, che risuscita, che dà un senso e un indirizzo, è l’amor di Dio; così fuori di noi, intorno a noi, coi nostri fratelli ci vuole il medesimo amor di Dio che ci unifica dandoci una meta. Ci parlano di democrazia come di un dogma e il baco, il larvato scetticismo di cui è ammalata tutta la nostra democrazia ha fatto ammalare anche tutti noi. Nel sorridere e dolcemente inchinarci a tutti i pareri, nel sottomettersi a quello dei più, e solo perché è dei più e non il migliore, abbiamo tutti perso una meta e una ragione di vivere.
Quando abbiamo guidato le cose e non abbiamo guidato chiaro: “dobbiamo arrivare lì a tutti i costi”. Forse ci siamo anche arrivati, ma con diplomazia e quindi non abbiamo suscitato entusiasmo, se non a volte, un entusiasmo intellettuale per la bella testa che ha saputo girar le cose (De Gasperi- tri- quadri-partito ecc.). Ma senza il cuore. Il cuore della nostra gente è fermo, per questo ci si bisticcia. E invece, per arrivare a qualcosa ci vuole entusiasmo, un grande entusiasmo e basato sulle più valevoli convinzioni umane, perché allora dura, nutrito di sacrificio che lo tiene in vita e guidato, molto guidato da un capopopolo. E nel mondo di oggi, mentalmente così confuso per tutte le novità e le instabilità, il capopopolo deve richiamarsi ai valori eterni. Deve parlare di Dio, ed è poco: deve crederci. Se non ci fosse una storia sacra da costruire, bisognerebbe inventarla per far diventare cristiani i cristiani.
E’ anche del tutto evidente da questa citazione come Fioretta Mazzei sia convinta di una teologia della storia, di un disegno anche storico, temporale oltre che spirituale, di Dio che deve compiersi attraverso la collaborazione dell’uomo, non solo singolarmente ma anche nei popoli attraverso un’azione politica organizzata.
– La traversata nel tempo del deserto
Nel momento dell’estromissione politica di La Pira dal governo fiorentino, nel 1965, Fioretta rifiutò di ricandidarsi perché l’assenza di La Pira significava per lei anche il disconoscimento di quella politica comune a entrambi, di quell’orizzonte ideale, di fede, di pensiero, di prospettive sociali, economiche, culturali e civili che insieme avevano propugnato e vigorosamente attuato. Le pagine dei suoi diari di quei mesi segnalano asciuttamente le sue scelte ed il suo stato d’animo, pacificato e distaccato da ogni passione di potere. Anzi: il sollievo per una riconquistata libertà soggettiva di organizzare le sue giornate ed una vita che, a torto, riteneva essere tornata privata.
Ma ben presto, maturano altre consapevolezze e possibilità. Nella cerchia di La Pira, che si è fatta ridottissima dopo gli anni del potere, e soprattutto da parte di lui e di quella ampia rete di amici e di relazioni che riconoscono il valore, le capacità politiche e di visione complessiva della città da parte di lei, si comincia a spingere Fioretta perché accetti di nuovo una candidatura nelle fila democristiane e torni in Palazzo Vecchio a servire e difendere la sua gente: Mi accorgo – scrive – che non sono tornata affatto a vita privata. Volere o volare non ci riesco più. Non mi è permesso! E’ la gente che ti esige in una certa dimensione, e non c’è nulla da fare. Eppure non arrivo. Non rispondo alla posta perché non ce la fo e altri dettagli. Ma non c’è nulla da fare: devo continuare perché non si può smettere.
Si profila così un nuovo impegno negli anni Settanta come assessore alla cultura, alla gioventù e alle relazioni internazionali: un inedito nel lessico e nelle funzioni politiche di un assessore del tempo. Fioretta riapre Firenze al mondo, con memorabili iniziative culturali e privilegiando l’aspetto più decisivo e a lei congeniale: quello del coinvolgimento delle giovani generazioni in una storia di civiltà, quella fiorentina, che ha saputo esprimere ai massimi livelli i “valori di vertice” di Dio.
Ma lo spirito del tempo volgeva in altra direzione: la prospera società italiana di allora ha in gran parte abbandonato la lettura provvidenziale della storia per abbracciare una prospettiva di sostanziale relativismo materialista, sempre più sordo al richiamo della millenaria ricchezza di Umanesimo cristiano e di civiltà della sua gente, oltre che della sua arte, così ramificata nel territorio, nel suo paesaggio modellato di equilibrio e di una sapienza scaturita dalla fede fatta cultura. Gli anni Settanta sono, per antonomasia, il decennio delle fratture, delle faglie incise nel tessuto vivo e profondo dei fondamenti della nostra civiltà. E queste faglie tagliano trasversalmente tutti gli ambienti e i settori, anche per lo storico avanzamento, gestito da élites ristrettissime, di quel processo di integrazione europea di cui forse soltanto oggi siamo in grado di cogliere tutte le potenzialità inespresse o tradite e anche, diciamolo, tutti i limiti di un certo personale e modello di attuazione. Limiti e deriva che Fioretta, al solito, coglie in profondità col suo disarmante, politicamente scorrettissimo anticonformismo, con lo sguardo intuitivo e quasi profetico della sua libertà cristiana. Scrive nel 1970:
Sono stata di nuovo in Italia meridionale, questa volta in Puglia.. per Natale. E mi sono resa conto per l’ennesima volta che non conosciamo l’Italia, con le sue ricchezze così radicate, le sue civiltà così abbarbicate agli alberi, alle case, alle chiese antiche e meravigliose che nessuna orda barbarica nordica le sradicherà, nonostante tutto.
Mi vien fatto ogni tanto di pensare al MEC e all’Europa unita come alle invasioni barbariche per noi. Cioè ad una preponderante influenza nordica che non tollereremo in definitiva perché, diciamolo pure, tanto più povera di noi. Si ha voglia di cantare: meno civili! Se qualcuno mi leggesse ora mi darebbe di pazza, ma nel tempo chissà! A mio istinto la salvezza viene dal meridione. Qui a Firenze come in tutta Europa, del resto, l’atmosfera è a bollore, a causa degli studenti e dei preti. Due settori in ebollizione e che, stranamente e a loro insaputa, probabilmente si tengono per mano.
Prima – scrive ancora in una nota di diario l’11 ottobre 1976 – era la festa della Maternità di Maria. Ora niente. Lo scrivo con malinconia perché è proprio di ieri il decreto di annullamento delle feste, quelle grosse: Ognissanti, Corpus Domini, Ascensione. Ne ho tristezza perché penso che è un ulteriore laicizzazione, che poi riesce sempre ad intristirci, nient’altro. Essere laici ed essere tristi ecco il tutto. La festa è il retaggio dell’uomo in grazia, dell’uomo contento. La festa è, nella sua essenza, un’espressione religiosa.
In questo senso le vicende delle leggi sul divorzio e sull’aborto segnano uno spartiacque anche simbolico, una ferita non ancora rimarginata nella società e nella Chiesa italiana. Tale abbandono diviene anche politicamente evidente nelle elezioni amministrative del 1975, quando la DC perde Firenze, come molte altre grandi città italiane, che anche grazie a personaggi di grande spessore come La Pira e Fioretta Mazzei, e a molti altri, aveva conquistato e retto consecutivamente per un quarto di secolo.
Inizia ora una nuova, più difficile ed oscura se si vuole, ma non meno feconda e importante fase dell’impegno di pensiero cristiano, come civile e politico di Fioretta Mazzei. Un decennio duro, quello degli anni Settanta, anche sul piano personale (la scomparsa della madre nel ’72, quella di La Pira nel ’77) ma intensissimo e costruttivo. L’eredità di La Pira è enorme ed è lei, da ora in poi l’erede politica e l’interprete autorevole e riconosciuta ma anche creativa e libera.
Nel 1978 Fioretta dà vita alla Fondazione La Pira, di cui sarà presidente fino alla morte, e in questa veste continua a girare in lungo e in largo l’Italia chiamata e cercata ovunque, perché i principi e la testimonianza spirituale e politica di lui vengono da lei incarnati in pienezza e creatività tali da dimostrarsi capaci di decifrare un altro tempo ed altre sfide, continuando ad alimentare ed innervare l’impegno dei laici cristiani in una diversa fase storica.
E insieme, Fioretta, nel suo ruolo di consigliere d’opposizione, ma largamente rispettata ed ascoltata per la sua larghezza di cuore, la lungimiranza e l’amore disinteressato alla città e al bene comune, non cessa di occuparsi di Firenze a cominciare dalla difesa dei poveri: Io difendo i deboli, amava ripetere, perché i forti si difendono anche da soli. E così nell’83, per un repentino cambio di maggioranza, fu ancora assessore stavolta alla Sicurezza sociale, ruolo che aveva voluto apposta: arrivò appena in tempo per bloccare la chiusura dell’Albergo popolare, già decisa dalla precedente giunta social-comunista procedendo invece alla sua riqualificazione con il contributo a titolo gratuito – mi piace ricordarlo – dell’amico pittore Luciano Guarnieri. L’operazione, per la verità, non venne molto apprezzata, anzi: Fioretta dovette subire attacchi giornalistici velenosi e gratuiti ma, come al solito, tirò dritto e l’albergo popolare o, per dir meglio, i poveri, che vi trovano ancora un tetto, furono salvi.
In modo analogo salvò lo storico, brunelleschiano Istituto degli Innocenti dalla chiusura della sua storica destinazione per i bambini abbandonati, voluta dalla Signoria medicea nel Quattrocento: Fioretta con la collaborazione del governo italiano portò agli Innocenti la sezione nazionale dell’Unicef e, con un importante convegno internazionale, fece giungere alle Nazioni Unite la proposta di Firenze per la revisione della Convenzione Internazionale dei diritti dell’Infanzia. Poco dopo un nuovo ribaltone la riportò all’opposizione.
Si apre allora l’ultima, breve ma operosissima fase dell’attività pubblica di Fioretta nelle istituzioni comunali: la battaglia per Firenze e per la pace. Due facce di una stessa visione prospettica, alla cui radice stava un progetto ideale e politico complessivo per l’Italia.
– La bellezza di Firenze, specchio e prefigurazione della Gerusalemme celeste
A Firenze, come altrove del resto, dagli anni Ottanta si afferma un’idea di città come mero agglomerato urbano, formato da funzioni e cubature di cui disporre a piacimento, senza considerazione e rispetto della storia che ha definito il volto della città e del popolo, organismo vivente che la anima, che ha esigenze e diritti naturali e civili da salvaguardare. Firenze presenta dinamiche delicate e faticose, si impone l’esigenza di un riordino delle sue funzioni e c’è uno “spirito del tempo” di cui fa parte il termine “decentramento” come una bacchetta magica. Si sostiene che il centro storico è sovraffollato di funzioni, in particolare quella giudiziaria, e ben presto si individua l’ex area Fiat, a Novoli, nel settore nord-ovest della città, come la più adatta per riunire tutte le funzioni giudiziarie in un unico contenitore, la mega-struttura del palazzo di giustizia, per il quale viene scelto un progetto già vecchio, di mole gigantesca, che cozza vistosamente con lo stile, i valori architettonici, lo skyline stesso della città. Tutti plaudono ma Fioretta è indignata di un progetto che giudica orrendo: così invasivo e apertamente in contrasto con i valori estetici e spirituali di Firenze, un progetto frutto anche di forti interessi speculativi. La sua opposizione è durissima ma isolata da tutti gli ambienti politici, compreso il suo. Lottò come sapeva fare lei: con determinazione, lucidità e coraggio, ma vanamente.
Lo stesso accadde per il nuovo Pignone, la storica fabbrica fiorentina salvata da Mattei e La Pira, e divenuta nel corso degli anni una azienda strategica dell’industria italiana, sia dal punto di vista economico come da quello politico. Uno strumento all’avanguardia dal punto di vista delle competenze umane e delle tecnologie, capace di travalicare gli schemi delle alleanze e degli schieramenti internazionali, anche grazie al quale per decenni l’Italia aveva potuto esercitare un ruolo di primo piano nella politica internazionale in favore della pace.
In piena tempesta di tangentopoli, quando il grido giustizialista servì da grimaldello per smantellare anche l’esperienza politica dei cattolici coprendoli, non sempre a ragione, di un disonore complessivamente immeritato, Fioretta Mazzei alzò forte la sua voce: difese l’italianità del Pignone, difese, ancora una volta in solitudine, il progetto complessivo di paese di cui quell’azienda era divenuta il simbolo nel corso dei decenni.
Così come soffrì profondamente per l’implosione della Democrazia Cristiana, in cui aveva militato, senza mai averne la tessera, fin da quel fatidico 1951 e per il cambiamento del nome in partito popolare, perché vi avvertiva la liquidazione frettolosa di una vicenda cinquantennale che aveva dato all’Italia, lavoro, prosperità, libertà e pace. Mi disse, in quei giorni: Un giorno si studierà con rimpianto il nostro tempo e, quanto al partito dei cattolici, chissà quando e se rinascerà. Era stata profetica, visti i giorni che stiamo attraversando.
Ed eccoci, finalmente, alla parola-chiave, al filo d’oro che ha connotato non solo tutta la sua esperienza politica, ma ancor prima la sua esistenza di donna e di cristiana: la pace di Cristo, annunzio di una Risurrezione non solo individuale, ma anche storica e cosmica, che deve estendersi ad ogni cosa. Il sigillo per eccellenza: Guarda – mi disse un giorno – per me la cosa fondamentale è la pace, il resto viene dopo.
Ma la pace è una risultante e richiede lavoro per essere conseguita, anche se mai stabilmente. Così, dopo la grande gioia provata con l’avvento di Gorbaciov e poi con la caduta del muro di Berlino, Fioretta resta inquieta, non vede la tanto conclamata “fine della storia”, al contrario, assiste preoccupata al profilarsi di nuove guerre, con nuovi pretesti. Nel 1990 la nuova maggioranza di Palazzo Vecchio, in cui era rientrata la DC , istituisce una nuova Commissione consiliare appositamente pensata per lei: la Commissione per la pace e Fioretta, in questa veste si oppone alla 1° guerra in Iraq e alle politiche belliciste che si accompagnano naturalmente al riarmo con la conseguente modificazione degli assetti economici e produttivi, a tutto vantaggio dell’industria militare e degli immensi interessi che vi gravitano intorno, di cui del resto anche oggi siamo insieme protagonisti e vittime.
Come presidente della Commissione per la pace promuove e realizza quello che può essere considerato il suo testamento insieme umano, politico e spirituale, poiché tali aspetti sono in realtà complementari: il gemellaggio tra Firenze, città dell’Annunziata e Nazareth, città dell’Annunciazione. Anche un segno di predilezione rivolto a Maria e insieme la rivelazione più profonda dell’anima sua, tutta protesa al silenzio, al nascondimento, in un’umiltà altissima e di disarmante semplicità, profezia di un mondo e di un tempo pacificato – come scrisse allora – in cui Nazareth è ancora protagonista: in quell’incrocio di popoli di oggi continua una lezione di convivenza e di possibilità di pace.. perché anche agli occhi del mondo sia unita e benedetta la terra di Gesù, annunziato a Nazareth.
E Firenze non lo ha ancora scoperto! Infine, l’ultimo, estremo pensiero, è ancora per lei, per Firenze. A pochi giorni dalla morte detta uno splendido messaggio sulla bellezza di Firenze, riflesso della Grazia, il suo testamento per la città:
La bellezza in realtà è l’apice della situazione umana, tant’è vero che si usa dire che l’atto massimo dell’uomo è la contemplazione, cioè la visione di un qualche cosa di gran lunga superiore a quello che abbiamo intorno. La Pira mi raccontava che a 15-16 anni, ascoltando cantare le suore del convento di Maria a Messina, aveva avuto l’impressione che esistevano delle bellezze straordinarie che superavano qualunque aspettativa e ci potevano essere concesse. E’ la preghiera che genera la bellezza e la poesia. Infatti La Pira scelse per il secondo Convegno per la pace e civiltà cristiana (1953) proprio il tema “Preghiera e poesia”. Quanti uomini seguaci delle ideologie hanno speso la vita nelle lotte, nelle rivoluzioni e nelle guerre, per “cambiare la società”! E’ solo la bellezza che trasforma una società. Domandiamoci cosa sarebbe Firenze senza la cupola, senza Palazzo Vecchio, senza questa simmetria anche interna che collega il granaio (Orsanmichele) alle più alte espressioni civili e religiose..
Abbiate pazienza ma non posso di più, posso solo dirvi che Firenze e la sua poesia mi vive nel cuore ed è in questi giorni uno dei motivi delle mie consolazioni, perché mi richiama visivamente alla fede grandiosa dei nostri padri: con la cupola e il suo architetto e gli immensi valori civili e umani che Palazzo Vecchio, con la sua torre arcigna, in cui convivono però i merli guelfi e ghibellini, ci indica come i più alti. Se si leva tutto questo Firenze o non esiste o non ha alcun valore. Nel suo discorso di Ginevra (1954) La Pira ammonì: – Le generazioni presenti non hanno il diritto di distruggere un patrimonio a loro consegnato in vista delle generazioni future! Si tratta di beni a loro pervenuti dalle generazioni passate e rispetto ai quali esse hanno la veste giuridica di eredi fiduciari.
La dominante di Firenze è la bellezza, la bellezza in un ordine, in una misura. Il segreto della bellezza è anche la misura e Firenze è una città misurata che sfugge le esagerazioni. Anche il barocco, che pure è pieno di effusioni, fa fatica qui, per paura dell’eccesso. E lo stesso manierismo del Rosso e del Pontormo sono una rimisurazione. Un altro aspetto della bellezza sta nel piccolo e non nel grande, quindi nell’armonia del piccolo. Una città può riflettere una bellezza addirittura superiore alla bellezza di un viso perché è una bellezza comunitaria, voluta da tutti, condivisa. E come perfino la bellezza naturale ha bisogno di essere accompagnata, scoperta, anche corretta dallo sguardo e dalla mano dell’uomo, così la bellezza cittadina ha bisogno di una partecipazione cittadina, di un occhio d’amore collettivo.
Il degrado di tante città è dovuto proprio a questo, alla non educazione, alla non comunità. La vita comunitaria riflette la vita del cielo con i suoi misteri che non sono solitari. L’arte poi è sinonimo di libertà, la bellezza conduce ed esige libertà. “I heard last night neath Casa Guidi’s windows by the church a little child go singing ‘O bella libertà! Oh bella!” (Ho sentito stanotte, sotto le finestre di casa Guidi accanto alla chiesa, un bambinetto che passava cantando ‘O bella libertà! O bella!) si legge sulla casa di Elisabeth Barrett Browning. Perché il nostro occhio sia capace in profondità di bellezza e di poesia ci vuole lo stesso atteggiamento interiore umile, semplice, costante. E’ vero che con i tempi il senso della bellezza può fare nuove scoperte, talvolta di grande semplificazione, però non può prescindere da una scelta in qualche modo comune, che ne dia anche la misura perché, nonostante tutto, camminiamo verso il massimo del semplice, dell’umile e del lineare: Dio è semplice. La corruzione e il denaro possono investire tutto, ma non è da questa analisi che ne usciamo, ma in un rinnovamento interiore al quale in fondo tutti aspiriamo e a cui non vogliamo rinunciare.
Eccoci dunque al cuore della questione. Fioretta Mazzei era persuasa, e non da sola ovviamente, della necessità stringente di una conversione intellettuale e spirituale, come premessa ineludibile per un autentico rinnovamento della società. Cui si accompagnava l’altrettanto profonda convinzione di una funzione storica, di una missione temporale dei laici cristiani, senza spogliarsi della propria fede o rintanarla nel privato.
Al contrario, la manifestazione libera – e rispettosa delle convinzioni altrui – dell’ispirazione religiosa è liberante e capace di concorrere a costruire una società libera e accogliente per tutti.
E’ la sfida anche dell’oggi: di fronte a questa Italia, e a questa Europa, contraddittorie e smarrite, resta indispensabile l’apporto di cristiani retti e veraci, preparati e coraggiosi, politicamente organizzati e coesi, perché senza l’aggancio alla Verità che salva, ogni tentativo di costruire un ordine sociale, civile e politico per l’uomo naufraga nella menzogna, nella corruzione e nell’ipocrisia e si rovescia nel suo contrario, come l’attualità ci dimostra fin troppo.