GIORGIO LA PIRA E IL CONCILIO VATICANO II:
LA LIBERTÀ DI COSCIENZA FONDAMENTO DI LAICITÀ, UNA QUESTIONE ATTUALE
Dovendo parlare insieme ad altre voci sull’argomento è possibile circoscrivere il tema del mio intervento. In particolare, nel prendere in esame, come mi è stato chiesto, un tema complesso come il rapporto tra cattolici e politica su cui molto si è scritto, vorrei limitarmi ad alcune sottolineature, senza pretese di esaustività o di organicità; non tanto per ripetere l’insegnamento conciliare (anche se forse qualche bisogno potrebbe esserci, trovandosi sempre più spesso di fronte ad un analfabetismo di ritorno), ma per guardare avanti, alla luce del cammino percorso, con tre sottolineature che aiutano a riflettere su alcune questioni cruciali e che, al contempo, consentono di richiamare tre aspetti anticipati dalla ricca esperienza di La Pira, tenendo quindi sempre sullo sfondo la testimonianza profetica del sindaco di Firenze:
1. l’applicazione pastorale della pagina conciliare;
2. la laicità: un aspetto problematico e una risorsa;
3. l’impegno politico dei credenti nel nuovo contesto pluralistico;
4. la vera sfida: il primato dell’evangelizzazione, la radicalità della proposta cristiana.
1. L’applicazione pastorale della pagina conciliare
La forza grande del Concilio sta nella visione pastorale, in uno sguardo diverso sull’umanità. Giovanni XXIII inaugurando il Concilio aveva detto: “La sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne”. È un modo nuovo di porgere la perenne validità della dottrina che nulla toglie all’incorrutibilità di quel depositum fidei ma che chiede un radicale cambiamento.
Questa lettura nuova, di cui La Pira è interprete e testimone in prima persona, è stata un faro per tutta l’azione pastorale successiva al Concilio. A 40 anni dal Vaticano II, è necessaria una riflessione, un bilancio così come ha fatto al suo esordio l’attuale Papa all’inizio del suo pontificato. Un bilancio tra luci ed ombre, ma dominato dalla speranza.
Una lettura di speranza, con particolare riferimento a quanto cresce silenziosamente nella logica del rinnovamento nella continuità che chiede gradualità, che chiede pazienza: «Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio» .
È l’opera svolta dal Concilio che ha aperto il cammino del laicato cristiano compiuto negli ultimi quarant’anni, un cammino di approfondimento della propria vocazione e della propria soggettività, in un mondo in profonda trasformazione e in una Chiesa percorsa dai venti della novità, ma anche da paure e rischi di “guardare indietro”.
La mia riflessione parte in primo luogo dall’esperienza personale in un’associazione come l’Azione Cattolica, in cui confrontarsi su questi temi ha il duplice valore di formare le coscienze e di portare un contributo al dibattito in corso, con un rinnovato sforzo nel formare uomini e donne con le “schiene dritte” e capaci di guardare lontano, in un costante esercizio di collaborazione e di dialogo con quanti colgono l’urgenza di progettare, di dare speranza, senza aspettare da altri quelle soluzioni dei problemi che non si possono trovare se non insieme.
Ed è proprio sulla “questione laicale” nel duplice versante del possibile impegno nella comunità cristiana e tra gli uomini, che passa oggi la verifica di una prassi pastorale resa più esigente dalle inedite condizioni di questo inizio secolo.
A che punto è la formazione del laicato cattolico? Quale rilievo assume per il laicato la lettura dell’orizzonte storico, la considerazione per i “segni dei tempi”? La situazione di pluralismo a vari livelli chiede oggi una formazione adeguata perché si possa vivere la propria fede e allo stesso tempo dialogare con il mondo, con le culture. È un’esigenza vissuta sia all’interno del vissuto ecclesiale, ma è una esigenza ancora più avvertita nel contesto politico. L’incontro con il mondo è un terreno privilegiato su cui misurare l’attuazione dell’apertura conciliare.
2. La laicità: un aspetto problematico e una risorsa
Le pagine del Concilio sul laicato rimangono un punto fermo che, come sappiamo, raccoglie dalla storia l’esperienza e la riflessione teologica e rilancia una visione nuova di laicato ecclesiale, così come dell’impegno laicale dei credenti nel secolo.
Un insegnamento chiaro, un indubbio passo avanti, rispetto al quale però dobbiamo chiederci a che punto sia oggi la prassi pastorale.
Se ci riferiamo in particolare all’impegno politico del credente, dobbiamo notare in realtà che nel Concilio non c’è una elaborazione organica del concetto della laicità. Anzi, come già notava il teologo Luigi Sartori, “il termine «laicità» è assente dal vocabolario del Vaticano II, come pure quello di «laicismo». In compenso troviamo oltre 200 volte il termine «laico» e qualche volta anche l’aggettivo «laicale»”. La stessa trattazione su Chiesa-mondo, che costituirà il tema di fondo di una costituzione pastorale, non trova nel Concilio una trattazione organica.
Nel Concilio, oltre al fatto che la Gaudium et spes «ha messo in crisi un po’ tutti i settori della vita della Chiesa, e non solo, quindi, quelli del clero e del laicato, v’è da dire che nessun discorso sistematico è stato proposto nemmeno sul rapporto «Chiesa-mondo». Così sempre Sartori nota che nel Concilio “nemmeno il riscontro col termine «autonomia» – al quale fa riferimento reale sia il «laicismo», sia il «senso della laicità» – riuscirà a definire integralmente la «laicità»; anche se può essere sintomatico il fatto che il termine «autonomia» si trovi unicamente in due testi conciliari: appunto quelli dedicati ai laici: Apostolicam Actuositatem (4 volte) e Gaudium et spes (13 volte, e proprio nei capitoli decisivi per il nostro tema). L’autonomia sarà una conseguenza: bisogna vedere su quali principi viene fondata e con quali criteri può essere verificata. D’altra parte, la «laicità» non può essere prospettata anzitutto come «confine», come «limite», per disegnare quasi soltanto una «formalità» nella composizione di conflitti, di alternative, di contrapposizioni; dovrebbe soprattutto comportare una «dimensione» di contenuti positivi, anche all’interno della Chiesa”. Un auspicio, quello di Sartori, che ancora aspetta di essere realizzato appieno.
Un contributo importante sul tema della laicità negli anni appena successivi al Concilio, è venuto dall’Università Cattolica, artefice di una sostanziosa riflessione a cui partecipò lo stesso Sartori, per lunghi anni presidente dell’Associazione Teologica Italiana, culminata poi in un Corso di aggiornamento . Un corso preparato da un approfondimento del Dipartimento di Scienze Religiose dell’Università allora diretto da padre Raniero Cantalamessa.
Si trattava di un contributo “di studio” fortemente voluto da un compagno di strada di La Pira, Giuseppe Lazzati, che con lui aveva condiviso, oltre ad un percorso di approfondimento della vocazione laicale, la pagina decisiva della Costituente e della rifondazione democratica sullo scenario politico del dopoguerra. Ed è a questa pagina che, ad esempio, La Pira fa riferimento, negli stessi mesi in cui Lazzati prepara il Corso di aggiornamento sulla laicità, nel rispondere all’invito di Zaccagnini che gli chiede di candidarsi – siamo nel 1976 – nelle fila della DC.
Con una lettera del 24 maggio 1976 la Pira accetta la richiesta di Zaccagnini e della direzione centrale della DC di candidarsi alle elezioni, in nome della realizzazione di alcuni capisaldi della Costituzione: «Per la comunità italiana, una delle conquiste della Costituzione repubblicana fu quella di garantire i diritti essenziali della persona, ma accanto ad essi si considerò altrettanto essenziale nel nuovo stato democratico l’introduzione e la tutela dei diritti sociali, senza i quali la libertà stessa della persona non sarebbe stata sufficientemente garantita. Questa organica architettura è visibile nella carta costituzionale. Il diritto di iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale (art. 41); il diritto di proprietà privata è finalizzato dalla sua funzione sociale (art. 42); la struttura delle aziende è avviata verso la partecipazione (art. 46)» .
Per La Pira è compito dei cattolici ridare slancio a quest’opera: «A chi crede di aver trovato, sia pure in modo sofferto, facili certezze, alle nuove generazioni dobbiamo ridare la fiducia che noi ci sforzeremo di essere una realtà che ogni giorno lotta per la crescita delle condizioni di piena giustizia, di lavoro operoso e di fratellanza, nella salvaguardia puntuale di ogni espressione piena del pluralismo politico, culturale e civile.
Sono ancora d’accordo con te che questa battaglia è “tanto importante per la democrazia italiana”.. Nel rispetto più assoluto degli altri convincimenti, impegniamoci perché ognuno riscopra fino in fondo le radici della propria identità. Sapremo così evitare ogni pericolo di rimettere in discussione la “pace religiosa” che fu uno dei punti sempre coscientemente presenti ai costituenti italiani».
È una pagina che richiama il fondamento etico dell’impegno politico. Una pagina che ci fa comprendere il nesso tra laicità e valori, tra laicità e primato del consenso.
“Solo se diventa primario il discorso etico-morale, che comprende i valori, i diritti e i doveri degli uomini in quanto universali e che coinvolgono le coscienze, solo allora le questioni religiose riacquisteranno una loro importanza e valenza. La laicità vera e buona, da perseguire, è quella di un’etica di tutti, ma che riscopre come primaria trascendenza, sopra le libertà dei singoli e delle collettività, il mondo dei valori, il mondo dei diritti, il mondo dei doveri. Ecco allora diventare predominanti, all’interno del discorso di una chiesa che si apre all’uomo, i temi della giustizia, della pace, a cui oggi si aggiunge quello non meno urgente dell’integrità e salvaguardia del creato”.
3. L’impegno politico dei credenti nel nuovo contesto pluralistico
L’impegno politico dei credenti si deve oggi confrontare con un inedito scenario. È un contesto molto diverso da quello di 40 anni fa, dove un timido disgelo, carico di attese, andava sostituendo i rigori di una guerra fredda che aveva accentuato le distanze, fatto approfondire gli steccati, e marcare le differenze e le identità.
Le società occidentali, che hanno fatto del metodo democratico il valore fondamentale della convivenza e della dinamica politica, si vengono oggi a trovare ad un bivio tanto urgente quanto drammatico. Devono infatti da una parte difendere strenuamente i diritti fondamentali dell’uomo, tra cui anche il rispetto di tutte le fedi religiose; dall’altra non possono rinunciare ad una mediazione doverosa – quale quella che attiene propriamente alla sfera politica – per costituire un ethos di valori condivisi in vista del bene comune, senza per questo ridurre le fedi a “religioni civili”. È il tema dei nuovi confini per laicità e libertà religiosa.
Avendo come compito principale quello di dare cittadinanza e pari dignità a tutte le opinioni e le religioni, le società occidentali si trovano in una situazione di crescente e generale relativismo etico, come già aveva denunziato Giovanni Paolo II: «Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo – e prima fra esse il marxismo –, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità».
I sistemi democratici sono esposti oggi ad alcune evidenti contraddizioni: si è infatti arrivati al punto di dover ridiscutere principi e valori di riferimento che fino a non molto tempo fa sembravano completamente e universalmente (almeno nel mondo occidentale) condivisibili ed intoccabili.
È il tema del relativismo con cui misurarsi.
Vi è chi ritiene che «il relativismo etico non è un optional per le democrazie. Il relativismo – afferma ad esempio Remo Bodei – costituisce il loro nucleo più consistente, la garanzia della pace civile, quasi la loro ragione d’essere storica» . Naturalmente bisogna capirsi su cosa s’intende per relativismo etico, che non è accettare passivamente che tutto è relativo, che tutto è uguale, perché questo autorizzerebbe a non impegnarsi nel confronto. Occorre invece cercare di costruire alcuni elementi comuni e accettare di autolimitare la propria prospettiva per la convivenza; questo in una dimensione che è attiva e non è acquisita una volta per tutte. D’altra parte non procedere in questa direzione significa non contrastare la difesa ad oltranza da parte di alcuni gruppi (soprattutto di matrice religiosa) di principi fondamentali che stanno alla base del proprio credo religioso, presentandoli quali valori assoluti da contrapporre ad altri diametralmente opposti e inconciliabili. Nascono così diversi fondamentalismi e il sistema democratico non riesce a far sì che si trovino punti di incontro, se non talvolta su principi molto generali se non generici.
Si tratta in sostanza di distinguere bene il relativismo dalle concezioni pluralistiche della società e quindi anche delle opzioni e scelte politiche, perché talvolta si commette l’errore di identificare superficialmente i due aspetti. Il pluralismo etico non impedisce infatti – scrive Lorenzetti – di scoprire nel dialogo e nel confronto critico valori comuni che hanno nella persona il punto di partenza e il punto di arrivo. La persona (la sua dignità e i suoi diritti) è il criterio che discrimina l’ordinamento giuridico in giusto/ingiusto . L’enfasi che oggi si attribuisce al valore della libertà conduce ad un individualismo esasperato che porta a salvaguardare, appunto, più l’individuo che la persona collocata in un contesto e in una comunità.
Siamo pertanto nella necessità di percorrere una strada su cui La Pira ci è maestro: riconoscere i valori comuni che uniscono sempre le culture e attraverso il confronto su questi valori, convergere a risoluzioni più argomentate e solidali. In particolare, sulla scena politica, tale ricerca, tale confronto dovranno andare oltre le possibili divisioni e le legittime articolazioni partitiche. E’ tema attuale come sappiamo.
Si è detto, in occasione della recente Settimana Sociale di Pisa: «Esiste una concezione della laicità che vede il pluralismo all’interno di un comune vincolo sociale. In tale concezione la laicità non è un’ideologia, un’idea di parte, ma nient’altro che la casa comune le cui mura sono costituite dai valori in sé non negoziabili nei conflitti che caratterizzano la vita di una democrazia» . E’ una preoccupazione già espressa da La Pira nella sua relazione alla Settimana Sociale dei Cattolici italiani del 1943 sul senso dell’ispirazione cristiana della Costituzione e che deve portarci a costruire regole comuni senza pretesa di “battezzare” le istituzioni. Disse in quella occasione La Pira: «Questa ispirazione cristiana non consiste nel fatto che lo Stato affermi nel 1° articolo della sua Costituzione di riconoscere la religione cattolica come religione dello Stato […]. L’ispirazione cristiana dipende essenzialmente da questo fatto: che l”oggetto’ della Costituzione, il suo fine sia la persona umana, quale il cattolicesimo la definisce e la mostra. E dipende di conseguenza dall’altro fatto che tutte le strutture dell’edificio costituzionale siano ordinate a questo fine. […] Solo di una Costituzione così fatta si può dire davvero che è cristianamente ispirata: perché l’ispirazione cristiana è incorporata nei suoi istituti, ravviva e finalizza le sue norme, circola nelle sue strutture: in questo caso soltanto l’esplicito riconoscimento di questa ispirazione verrebbe a costituire il degno coronamento e come la naturale volta dell’edificio costituzionale dello Stato».
Mi pare davvero una bella sintesi, attuale. Si ricava da qui la naturale tendenza dell’ispirazione cristiana per la centratura della persona rispetto a riconoscimenti nominalistici.
Per i credenti impegnati in politica si apre oggi un delicato compito di indirizzo e di sintesi che in altre epoche e contesti, cristiani come La Pira furono in grado di compiere. Riduttivo presentarci oggi come i guardiani morali che si candidano a vigilare sui temi che scuotono una società alquanto frastornata. Piuttosto siamo chiamati ad essere portatori di istanze di rispetto per l’uomo e di una tradizione di umanesimo cristiano che, a partire dalla stesura della carta costituzionale, ha portato frutti per il Paese. Il senso di un ritorno come confronto, con una ispirazione, a quella stagione – ritorno come sappiamo non sempre condiviso – ha proprio un profondo significato.
Alla luce di quella pagina è possibile infatti cogliere il valore e la storica concretezza della diaconia politica dei credenti. È il senso alto di una politica da cristiani. Il senso espresso il 25 giugno del 1958 da Giorgio La Pira in uno scritto a Papa Pio XII: «La politica è l’attività religiosa più alta, dopo quella dell’unione intima con Dio, perché è la guida dei popoli. Una responsabilità immensa, un durissimo servizio». Un servizio alto che si piega verso gli umili.
Nel 1951, quando fu eletto per la prima volta Sindaco di Firenze, presentando il programma della nuova Giunta, La Pira individuò come suo primo obiettivo la risoluzione dei «bisogni più urgenti degli umili».
La relazione tra fede vissuta, dimensione culturale, valori non negoziabili e mediazioni politiche mette talmente in rilievo la centralità della fede e quello che abbiamo chiamato il primato dello spirituale, la scelta religiosa, da far emergere una verità storica. E cioè che la fede vissuta diventa cultura quando è presa sul serio nella vita. Mediazione pertanto possibile non solo e non tanto agli intellettuali, bensì a un numero molto più elevato di fedeli. E questo spiegherebbe perché tanti valori sono patrimonio popolare condiviso. È una constatazione che faceva già Tolstoj: «Tutta la vita dei credenti della nostra cerchia era in contraddizione con la loro fede e tutta la vita delle persone credenti e lavoratrici era la conferma del senso della vita che veniva dato dalla conoscenza della fede… E io fui preso da amore per quegli uomini. Quanto più penetravo nella loro vita… tanto più li amavo, e tanto più mi diventava facile vivere… E capii che il senso che veniva attribuito a quella vita era la verità, e l’accettai» . Una verità percepita dagli “umili”, da un popolo di cui il politico deve essere all’ascolto. Scegliere gli umili è un modo intelligente e profondo per essere guidati nelle scelte politiche. È una lezione che per fortuna si ripete anche nel presente.
Le parole pronunciate da mons. Bregantini, vescovo di Locri, dopo la strage di Duisburg in Germania, lo scorso Ferragosto, sono significative e di monito proprio in questa direzione: «La politica non è capace di raccogliere le lacrime e non può quindi tracciare il futuro di un popolo». Parole di denuncia certo, ma anche di profezia e di speranza, perché ci ricordano la funzione della politica, chiamata ad essere in ascolto, a dare, per la sua parte, speranza al futuro. Una politica aperta, dai confini vasti e senza distinzione di razze, popoli, culture. Una politica attenta alle generazioni che verranno.
Una visione che, come sappiamo, in La Pira assumeva due necessarie realizzazioni, entrambe di grande attualità: in un futuro di pace e in un futuro in cui sia possibile costruire la città dell’uomo.
Nella città, così come La Pira andava disegnandola, era possibile trovare allo stesso tempo un antidoto alla moderna versione di stato nazionale e una risposta ai segnali che si manifestavano già allora di quella che avremmo chiamato la crisi di partecipazione. Sotto il primo profilo si pensi a quanto scrive nel 1970: «Le Città sono consapevoli di essere patrimonio del mondo, perché in esse si incorporano la storia e la civiltà dei popoli, i “regni” passano, le città restano; un patrimonio che le generazioni passate hanno costruito e trasmesso a quelle presenti – di secolo in secolo, di generazione in generazione – affinché fosse accresciuto e ritrasmesso alle generazioni future».
Sotto il secondo profilo si può richiamare l’esaltazione che La Pira fece del carattere «cittadino» della responsabilità come risposta alla «gigantesca crisi di disancoraggio propria del nostro tempo».
4. La vera sfida: il primato dell’evangelizzazione, la radicalità della proposta cristiana
Nel riflettere sul tema che oggi ci è stato dato, potremmo pensare che La Pira ci offre una testimonianza sui generis di quella distinzione che sta alla base di una corretta e feconda visione conciliare di laicità. Ma il suo particolare contributo è tutt’altro che estraneo e marginale, perché nella sua coerente radicalità fa cogliere la necessità per il credente dell’unità con Dio e, allo stesso tempo, dell’impegno grande e generoso per la costruzione della città dell’uomo. Di qui la sua forza e la sua credibilità che andava ben oltre l’immagine di ingenuità o di integrismo: il radicamento spirituale del cristiano che fa politica è ben altra cosa dall’evocazione esibita del cristianesimo. Intendo dire che il nucleo indispensabile della mediazione per il credente sta sempre nel radicamento spirituale. Senza questo il metodo, corretto e opportuno, della distinzione potrebbe risultare anche solo un inutile virtuosismo intellettuale. Lontano da una “centratura spirituale” dell’impegno politico del credente vi sono i rischi di una mediazione infeconda o di un uso strumentale del “marchio”.
La Pira in questo ha offerto una testimonianza credibile di un’originale mediazione.
Per lui infatti il laico che voglia esser coerente con la propria fede non può sottrarsi, neppure in nome della difesa delle «mura silenziose dell’orazione» all’impegno della carità politica: «Bisogna lasciare — pur restandovi attaccato col fondo dell’anima — l’orto chiuso dell’orazione; bisogna scendere in campo; affinare i propri strumenti di lavoro; riflessione, cultura, parola, lavoro, ecc., altrettanti aratri per arare il campo della nuova fatica, altrettante armi per combattere la nostra battaglia di trasformazione e di amore. Trasformare le strutture errate della città umana; riparare la casa dell’uomo che rovina. Ecco la missione che Dio ci affida. Tu mi dirai: ma è proprio questo il nostro compito? Non potremmo puntare più a fondo sulla orazione? È proprio necessario occuparci di tutto questo vasto complesso di problemi che distraggono l’anima dall’unico necessario? La risposta è precisa: l’orazione non basta; non basta la vita interiore; bisogna che questa vita si costruisca dei canali esterni destinati a farla circolare nella città dell’uomo. Bisogna trasformare la società!».
Ecco perché è così centrale il tema della città quando pensiamo all’impegno politico da credenti.
Come è stato notato «Le Città di Giorgio La Pira hanno sempre la C maiuscola. Il loro “autore” le considerava come delle entità spirituali, custodi e quindi “domicilio” della vita dei loro abitanti. Più che delle costruzioni le Città erano delle incarnazioni, dove i caratteri formali dell’urbanistica e i caratteri ideali della storia erano sottoposti alla durezza dell’esistere e all’annuncio del Vangelo».
Per La Pira “l’architettura della città dell’uomo non può ricavarsi che dalla contemplazione e dalla imitazione dell’architettura della città di Dio” . Quindi solo chi contempla la città di Dio sarà in grado di costruire la città terrena.
La radicale provocazione di La Pira politico sta – e in anticipo rispetto al Concilio – in una grandissima libertà che ha origine all’interno dell’uomo e si fonda sulla sua coscienza.
In conclusione del discorso al Consiglio Comunale del 24 settembre 1954, La Pira dirà:
«Ripeto, voi avete un diritto nei miei confronti: negarmi la fiducia. Dirmi con fraterna chiarezza – signor Sindaco lei è troppo fantastico e non fa per noi! E io vi ringrazierò: perché se c’è una cosa cui aspiro dal profondo dell’anima è il mio ritorno al silenzio e alla pace della cella di San Marco, mia sola ricchezza e mia sola speranza! Ed è forse bene, amici, che voi decidiate così! Io non sono fatto per la vita politica (nel senso comune di questa parola: non amo le furbizie dei politici ed i loro calcoli elettorali); amo la verità che è come la luce; la giustizia che è un aspetto essenziale dell’amore; mi piace dire a tutti le cose come stanno: bene al bene male al male. Un uomo così fatto non deve restare più oltre nella vita politica che esige – o almeno si crede che esiga – altre dimensioni tattiche e furbe! Ma se volete che resti ancora fino al termine del nostro viaggio allora voi non potete che accettarmi come sono: senza calcolo: col solo calcolo di cui parla l’evangelo fare il bene perché è bene! Alle conseguenze del bene fatto ci penserà Iddio!».
Al centro c’è il fare il bene: l’amore di Dio e/è l’amore del prossimo. Specie di chi ha più bisogno. Ecco la radicale provocazione: con il Vangelo non si può giocare. Non c’è tattica, non c’è giudizio cui ricorrere, a cui spesso fanno riferimento tanti che provano ad utilizzare a proprio vantaggio quell’essere “furbi come serpenti…”. La testimonianza di La Pira mette in luce la forza e la fecondità di chi, anche nel mondo complesso della politica, si pone con la semplicità della colomba.
Dalle parole pronunciate in Consiglio comunale emerge la natura più profonda della figura di La Pira, capace in ogni occasione di fare appello soltanto alla sua più intima coscienza, sede della libertà più autentica, come lo stesso Concilio ha insegnato:
«Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro.
L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» .
Sono parole che fanno riflettere e aprono uno scenario di grande orizzonte che esige una fede impegnata, pensata, vissuta non per rassegnazione e abitudine ma radicata nel nostro intimo, nelle domande più vere del nostro cuore. È anche la strada della collaborazione che ci unisce all’intero genere umano. Facciamo risuonare ancora la bellissima pagina del Concilio:
«Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità».
Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato. Scriverà uno dei primi commentatori della GS: “Il paragrafo è dedicato interamente al fondamento della morale: ed è notevole che il problema venga impostato partendo dall’uomo e non da Dio; partendo cioè dall’esperienza del valore morale e non dalla legge eterna di Dio”.
E’ sempre il Concilio ad esaltare l’eccellenza della libertà, affermando che «l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà». Per aggiungere che la vera libertà «è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina». Nel disegno di Dio, infatti, l’uomo è lasciato «in mano al suo consiglio» perché «cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione».
Confrontarsi con la testimonianza di La Pira a quarant’anni dal Vaticano II significa misurarsi con un uomo che ci si presenta con una coscienza illuminata, un uomo libero con la capacità di affrontare la diversità, le mille diversità, senza negarle ma sapendole collocare in un orizzonte creaturale (che è più che globale!) che gli dava la possibilità di aprirsi senza paura al mondo, capace di una profezia che oggi, più volte, ci sembra essere se non assente, certo più debole. Ma sappiamo che così non è. Sappiamo che le strade e i sentieri degli uomini sono sempre sotto lo sguardo misericordioso di Dio.
Nell’impegnarsi sulle polverose strade che percorrono e condividono con tutti gli altri uomini, i credenti, nel dialogo e nella ricerca di soluzioni condivise, non potranno mai tralasciare la testimonianza – non meno luminosa perché impastata di peccato – di chi annunzia come da parte di Dio (EN n. 32) la liberazione.
Proprio perché ci si impegna tra le case e le cose degli uomini, si sceglie di mettere al primo posto, in modo da non dimenticarla mai, la finalità specificamente religiosa dell’evangelizzazione (EN n. 32). Il cristiano impegnato in politica non è “meno religioso”, ma lo dovrà essere di più.
Sta ai credenti, con umiltà e fervore, rendere presente una fede che ama la terra e quel Dio che è misericordioso e paziente verso tutti (Salmo 85) per attirare tutti a sé («Io, quando sarà elevato da terra, attirerò tutti a me» Gv 12,32).