Fulvio De Giorgi

La sfida della laicità da Giorgio La Pira a Vittorio Peri

 

Una riflessione compiutamente storica, non agiografica né apologetica, una riflessione che direi ‘compiutamente laica’ sulle figure di Giorgio La Pira e di Vittorio Peri deve metodologicamente comprendere e studiare tali figure nel loro contesto storico e, più precisamente, in relazione ai movimenti profondi del momento storico che toccò a loro di vivere. In questo senso, il punto di partenza è il pontificato di Pio XI, durante il quale – tra il 1924 e il 1926 – si ebbe la ‘svolta religiosa’ e il maturarsi della vocazione laicale di La Pira [1].

D’altra parte, il papa Pio XI, con il suo pontificato – dal 1922 al 1939 –, non poteva non risentire del clima culturale, spirituale, psicologico e delle dinamiche sociali di fondo che caratterizzavano il periodo successivo alla Grande Guerra e, più in generale, gli anni compresi tra i due conflitti mondiali. Si trattò dell’età dei totalitarismi così che, per molti aspetti, accentuando le posizioni intransigenti, già da tempo presenti al suo interno, e marginalizzando, invece, quelle conciliatoriste, ci fu – anche per la Chiesa Cattolica – un’età totalitaria che comprese, appunto, i pontificati di Pio XI e di Pio XII e che fu chiusa, forse definitivamente, dal Concilio Vaticano II.

Non è questa la sede per ricostruire a tutto tondo aspetti significativi e caratteristiche storiche di quella che possiamo chiamare la “Chiesa totalitaria” [2], affiancata allo Stato totalitario. Si può tuttavia ricordare che ci fu una più accentuata centralizzazione romana – accompagnata da una esaltazione del ministero petrino, quasi un ‘culto della personalità’ del papa – e, insieme, uno slancio attivistico impresso a tutta la Chiesa e, in particolare, al laicato: con le organizzazioni di massa dell’Azione Cattolica, con la precisazione del concetto di ‘apostolato dei laici’, con l’orizzonte teologico-spirituale della regalità di Cristo, intesa come regalità sociale su tutto l’uomo, su tutta l’umanità, su tutti gli aspetti della società. Il modello militante e massimalista che padre Agostino Gemelli, Armida Barelli, Francesco Olgiati avevano promosso a Milano fu allora esteso a tutta l’Italia (e, tendenzialmente, a tutto l’orbe cattolico).

Una cifra esteriore, ma emblematica, di questa tensione totalitaria, che allora caratterizzò quasi tutti gli ambiti ecclesiali, fu il ricorso vastissimo alla metafora militare per indicare i vari aspetti della Chiesa e della sua azione. Omelie e lettere pastorali, articoli della stampa cattolica e motti episcopali, canti e sussidi catechistici rigurgitavano, fino al parossismo, di crociate e di combattimenti, di nemici e di armature, di ‘soldati di Cristo’, di ‘sante battaglie’ e di ‘falangi di Cristo redentore’ [3].

La regalità di Cristo e il culto di Cristo Re, introdotto da Pio XI, furono la modalità spirituale, liturgica e pastorale per dare un saldo fondamento, personale e comunitario, a questo variegato movimento di uomini e di donne, giovani e meno giovani, lanciati nel mondo con uno spirito di conquista. Peraltro l’idea della “pace di Cristo nel Regno di Cristo”, programma sintetico del pontificato di Ratti, cercava di condurre ad unità sia l’indirizzo pastorale anti-modernista di Pio X (instaurare omnia in Christo) sia l’indirizzo anti-integralista e, soprattutto, pacificatore e conciliatore di Benedetto XV. Certo le diversità di sensibilità, di prospettive culturali e di visioni pastorali non scomparvero. Ma, per tutto il pontificato di Pio XI, furono strettamente subordinate all’indirizzo generale e perciò, almeno esteriormente, unificate.

Su due significative conseguenze storiche di questi processi mette conto, in questa sede, fissare l’attenzione. Innanzi tutto vi fu l’attivizzazione di massa di laiche e laici cattolici, resi, attraverso l’Azione Cattolica, partecipi di quello che veniva chiamato ‘apostolato gerarchico’, con un’implicita alternativa al totalitarismo fascista e alle sue organizzazioni di massa: il laicato veniva, dunque, fortemente valorizzato, sul piano pastorale e teologico, e, insieme, legato strettamente alla guida della gerarchia. In secondo luogo, si sviluppava una nuova spiritualità dei laici ed un’ascetica laicale di tipo nuovo che portavano ad una inedita consapevolezza della ‘vocazione laicale’. Nacquero allora nuovi sodalizi che univano tale coscienza laicale matura con la ricerca di uno stato di vita simile a quello dei religiosi: nel 1947 Pio XII li avrebbe chiamati “istituti secolari”.

Le ricerche storiche di Vittorio Peri hanno fatto vedere come dalla prospettiva della regalità di Cristo, dalle indicazioni del pontificato di Pio XI negli anni ’30 e dall’azione di padre Gemelli si venne precisando e radicando in alcuni laici cattolici italiani, che sarebbero stati dei protagonisti della successiva storia nazionale, una caratteristica vocazione spirituale, alla quale essi rimasero poi sempre fedeli, pur prendendo strade diverse [4]. Com’è noto, padre Gemelli fondò due sodalizi laicali – le Missionarie della Regalità di Cristo e i Missionari della Regalità di Cristo – che dovevano vivere i consigli evangelici nel secolo, con un particolare impegno per l’Azione Cattolica e per l’Università Cattolica e con una spiritualità centrata sulla regalità di Cristo.

Del sodalizio maschile fecero parte, tra gli altri, Padovani, Fanfani, La Pira, Dossetti, Lazzati, Franceschini, Gedda, Carretto. Nel 1938 ci fu una crisi, dovuta prevalentemente a motivi interni, come la documentazione disponibile e gli studi di Peri fanno vedere. E tuttavia si può  congetturare che forse spingevano pure verso una svolta motivi di portata storica più generale: è difficile, cioè, immaginare che l’incupirsi della situazione culturale e politica europea, il legarsi del fascismo italiano al nazismo tedesco (già chiaramente ammonito da Pio XI con la Mit Brennender Sorge), la stessa introduzione in Italia delle leggi razziali potessero rimanere senza eco nelle coscienze cristiane di tali laici, come peraltro si sarebbe presto visto; mentre è facile pensare che tali eventuali preoccupazioni o riflessioni critiche potessero, inizialmente, restare riservate o forse perfino inespresse.

Dalla crisi del 1938 presero l’avvio strade nuove rispetto al sodalizio gemelliano. Nel 1939, poi, la morte di Pio XI e l’elezione di Pio XII e, insieme, lo scoppio della seconda guerra mondiale, con le sue conseguenze di ampio raggio (per l’Italia, tra l’altro, non solo con la sconfitta ma anche con le sofferenze di un conflitto combattuto, nelle sue fasi finali, sul suolo nazionale, acuito dalla tragicità della guerra civile) segnarono definitivamente una profonda svolta storica.

Il dopoguerra infatti, da una parte, vide Pio XII continuare nella via pastorale del totalitarismo ecclesiale e dell’Azione Cattolica di massa, avviata dal suo predecessore, ma dall’altra vide pure un contesto complessivo nuovo, non più totalitario e fascista ma libero e pluralista ed anche, sia pure lentamente e con contraddizioni, democratico. In tale contesto si conobbe meglio cos’era stata la Shoa; si affermarono sempre più i valori dell’umanesimo laico – ma non anticristiano – delle Nazioni Unite prima e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo poi; in un mondo ormai avviato alla divisione in due blocchi, si posero le basi – con gli accordi di Bretton Woods – per un nuovo ordine mondiale di governo dell’economia di mercato; si svilupparono in paesi dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia e la Germania, forti partiti democratico cristiani che concorsero alla stesura di nuove costituzioni democratiche. Tali epocali processi storici, che fanno parlare del Novecento come di un ‘secolo spezzato’ [5], segnato cioè dalla profonda svolta periodizzante del 1945, non potevano non avere influenze anche sulla compagine ecclesiale, cominciando ad erodere i fondamenti di quella ‘Chiesa totalitaria’ avviata da Pio XI e continuata da Pio XII. Riemersero allora, sempre più chiaramente, prospettive pastorali differenti, nonché sensibilità spirituali e culturali anche molto diverse. Ci furono peraltro ricerche teologiche innovative, specialmente in Francia, che toccarono anche – basti solo pensare a Congar – la teologia del laicato.

In questo contesto storico, dunque, cominciò a palesarsi quella che possiamo chiamare la sfida della laicità. Questa espressione mi pare significativa in due sensi. Da una parte, infatti, segnala la cruciale questione del ‘laicato’ come questione interna della Chiesa cattolica: ‘sfida della laicità’ allude allora agli interrogativi che una più matura consapevolezza dei laici, nel loro apostolato, poneva alla Chiesa nel suo complesso e, in particolare, al discernimento della gerarchia; significa occasione e chance per un approfondimento dell’autoconsapevolezza ecclesiologica; significa, infine, provocazione positiva al rinnovamento strutturale per fare posto a nuove forme di ministerialità. Ma, d’altra parte, con ‘sfida della laicità’ si allude pure ad una dinamica più vasta e ad extra: non solo della Chiesa verso il mondo, ma del mondo verso la Chiesa. Si tratta allora della sfida cruciale che la ragione laica, la scienza e la tecnica, innervando sempre più il mondo contemporaneo, portavano al pensiero religioso. Erano, dunque, processi storici di grande portata, che, in una certa misura, giungono fino a noi [6]. La mia, dunque, sarà una ricostruzione di taglio storico, ma con la convinzione di una permanente attualità di tali riflessioni: la ‘sfida della laicità’ si pone, infatti, anche oggi, quasi negli stessi termini, alla Chiesa del XXI secolo e nel contesto della globalizzazione.

Mi è parso opportuno, inoltre, studiare alcuni, significativi aspetti della ‘sfida della laicità’, visti paradigmaticamente attraverso il prisma delle due figure del laicato cattolico italiano, già ricordate e tra loro collegate: Giorgio La Pira e Vittorio Peri. La Pira rappresenta infatti la fase iniziale, diciamo pre-conciliare, di tale sfida, mentre in Peri si riflettono gli approfondimenti post-conciliari, peraltro visti spesso anche in continuità creativa con l’esperienza dello stesso La Pira, da Peri conosciuto e amato e, poi, studiato con filologica accuratezza [7].

La Pira, come ho già detto, sviluppò una prima, decisiva autoconsapevolezza religiosa della propria vocazione laicale nell’istituto fondato da padre Gemelli, dove incontrò anche, tra gli altri, Dossetti e Lazzati. Dopo la crisi del 1938, La Pira rimase nell’istituto gemelliano [8] mentre Dossetti e Lazzati ne uscirono. Lazzati fondò poi, anche nel solco dell’influenza spirituale del card. Schuster, un altro istituto secolare, a cui aderì anche Dossetti, il quale poi lo abbandonò per seguire la propria vocazione monastica, fondando la Piccola Famiglia dell’Annunziata. Durante gli ultimi anni della guerra, La Pira, Lazzati e Dossetti testimoniarono la “carità politica” (di cui aveva parlato Pio XI), con percorsi diversi, ma tutti caratterizzati da un antifascismo esplicito e militante. Peraltro, come, giustamente, ha fatto notare Peri, l’originaria, comune matrice giovanile, sedimentatasi durante il pontificato di papa Ratti, restò in realtà il fondamento profondo delle vicende esistenziali di La Pira [9], di Lazzati e di Dossetti, pur nello svolgersi peculiare dei loro cammini e delle loro differenti scelte [10].

Inoltre, com’è ben noto, nel secondo dopoguerra, La Pira, Dossetti e Lazzati si sarebbero trovati ancora fianco a fianco alla Costituente e in quella componente di sinistra della Democrazia Cristiana che diede vita alla rivista “Cronache Sociali” e che fu allora chiamata ‘dossettiana’. Tuttavia se, sul piano politico e, oggi, della storia politica, è stato ed è legittimo parlare di ‘dossettismo’, sul piano invece della storia dei movimenti spirituali e di cultura religiosa dovremmo, a mio parere, parlare piuttosto di ‘lapirismo’: fu allora infatti l’impostazione spirituale ed ecclesiologica di La Pira, che includeva i decisivi riferimenti a Maritain [11] ma pure a De Lubac, a Chenu ma pure a Thils, a S. Tommaso ma pure a S. Agostino, a risultare fondamentale e di più vasta influenza, comprendendo al suo interno anche i presupposti spirituali del dossettismo politico.

La Pira, del resto, meglio di Dossetti, di Lazzati e di altri, rappresentò allora uno sviluppo omogeneo delle posizioni decantatesi durante il pontificato di Pio XI e di Pio XII, maturando un progressivo approfondimento, in forma evolutiva e senza strappi o rotture traumatiche, verso paradigmi nuovi che prepararono la via al rinnovamento conciliare. Questo è anche, a mio avviso, uno degli aspetti più importanti, sul piano storico generale. La figura di La Pira ci consente cioè di tracciare un percorso di continuità tra pre-concilio, Concilio e post-concilio, evitando le due estremizzazioni contrapposte di chi vede nel Concilio stesso una svolta innovativa positiva dal passo addirittura millenario nella storia della Chiesa (quasi che lo Spirito santo ritornasse a soffiare e a parlare dopo secoli di silenzio) e di chi invece considera il Concilio come l’origine di tutti i problemi della Chiesa contemporanea (come se tra Concilio e Spirito santo non ci fosse alcun rapporto). In realtà i problemi di fondo erano già emersi prima del Concilio e osservatori acuti, come La Pira e come altri, li avevano ben percepiti. Tali osservatori proposero perciò una via di rinnovamento radicale ma non una rottura nella continuità profonda, piuttosto un ricollegarsi alla grande Tradizione superando gli angusti e ormai sterili tradizionalismi: una primavera ecclesiale, dunque, che mettesse fine all’inverno della Chiesa totalitaria.

La Pira non scrisse espressamente sulla laicità e sul laicato: anche se, meditando sull’esperienza di Vico Necchi e, soprattutto, di Piergiorgio Frassati, espresse convinzioni profonde che riflettevano il suo stesso personale modo di vivere la vocazione laicale. Ma mi vorrei soffermare, in questa sede, su un testo che mi pare, per più versi, esemplare, anche per la sua permanente attualità: è il commento che La Pira scrisse, sui numeri di ottobre e novembre 1947 di “Cronache Sociali” [12], alla lettera pastorale per la Quaresima 1947 dell’Arcivescovo di Parigi, card. Suhard [13]. In quel testo egli utilizzò alcune parole-chiave, che sarebbero state decisive nel successivo magistero di Giovanni XXIII (penso a “aggiornamento” e “interdipendenza”) e di Paolo VI (penso a “dialogo” e a “umanesimo mondiale”), e rimandò ad alcune immagini che sarebbero ritornate con il Concilio (penso a “primavera della Chiesa”). Ma questi accenti nuovi erano armonicamente intrecciati ai temi più consueti dei pontificati di Pio XI e di Pio XII, nella continuità della prospettiva della ‘conquista’: del primo, in particolare, si sottolineava la tematica della regalità di Cristo, la sintesi di anti-modernismo e di anti-integralismo, lo slancio (riprendendo, in forma rinnovata, le indicazioni di papa Sarto) di “instauratio di tutta la realtà in Cristo”; del secondo invece si riprendeva, con particolare enfasi, l’ecclesiologia della Chiesa come Corpo mistico. E tuttavia anche questi evidenti ed espliciti tratti di adesione al magistero pontificio coevo trovavano in La Pira vibrazioni originali, in particolare nella sua concezione di un cristocentrismo storico e cosmico, che integrava il rispetto dell’autonomia delle realtà temporali e la capacità realistica di discernere e assimilare il buono di ogni posizione filosofica e umana, propri di S. Tommaso [14], con la “ricapitolazione in Cristo” di S. Paolo e di S. Agostino: il tomismo [15] come metodo e l’agostinismo come sistema (in una ‘linea’ ideale che da Bossuet passava per Vito Fornari e culminava in Blondel); la cultura religiosa e civile domenicano-savonaroliana [16] e la spiritualità [17] e la teologia francescano-bonaventuriana (in una linea che nella regalità di Cristo faceva sintesi della mistica cherubica dell’Epifania e della mistica serafica dell’araldo del gran Re [18]). Il cristocentrismo si sviluppava, peraltro, non in un ecclesiocentrismo, non in un trionfalismo della Chiesa, ma in due parallele dimensioni, ricomprese nel “Cristo totale”: da una parte il cosmo e dall’altra la Chiesa, vista secondo una ecclesiologia misterica e teandrica.

Novità, meno evidenti ma più incisive, e continuità erano, dunque, ricomprese in un orizzonte personale, tipicamente lapiriano. La cifra fondamentale era quella del paradosso cristiano: era proprio questa spiritualità e questa linea culturale, come punto focale e apicale di una costellazione teologica e di un vissuto testimoniale, che consentivano di conferire un senso complessivo nuovo e diverso a spunti e ad accenti che altrimenti potevano scadere nella ‘sconfitta della laicità’, nella marginalizzazione del laicato, in un complessivo depauperamento ecclesiologico. Affermava, dunque, La Pira: “Non bisogna mai dimenticare che il cristianesimo è un «paradosso», un sistema «di paradossi»: perché se è vero che esso è nel tempo non è meno vero che esso è nell’eterno”. E il paradosso cristiano comprendeva anche la realtà della Chiesa, altrimenti incomprensibile: “La Chiesa è, dunque, un mistero di fede: senza gli occhi della fede non è possibile traversare il suo corpo giuridico, visibile, istituzionale e percepire la sua realtà soprannaturale. Da qui gli errori che si commettono nel giudicarla: sembra in agonia ed invece è viva e se ne prepara la primavera! La conclusione, dunque è questa: la Chiesa ha una natura «teandrica»: […] è indefettibile e subisce delle crisi: è e diviene: […] si è adattata a tutte le civiltà ed a tutte le culture lievitandole tutte, ma senza mai legarsi ad alcuna: e quando queste civiltà e queste culture sono crollate, la Chiesa non è crollata con esse”.

Da questa impostazione ‘paradossale’ derivava una transvalutazione dello spirito di crociata e di conquista, che diventava “missione di lievitazione e di conquista”: cioè la ‘conquista’ era letta, secondo un’immagine e una prospettiva evangelica, come azione del lievito nella pasta. Evidentemente un’impostazione di questo tipo si discostava in modo deciso dagli indirizzi allora prevalenti nell’apostolato dei laici e inaugurava o, almeno, suggeriva un atteggiamento nuovo.

A differenza di altre personalità del mondo cattolico che erano anch’esse a disagio rispetto alla mobilitazione di massa di Gedda e padre Lombardi, ma che erano o sacerdoti (come don Primo Mazzolari) o religiosi (come padre Giulio Bevilacqua), La Pira, con la sua maturità laicale, non manifestava critiche ma cercava, quasi si direbbe, di prendere per mano le posizioni più chiuse e astiosamente polemiche verso la civiltà moderna e di accompagnarle, gradualmente e con persuasiva mitezza, verso il coraggio dell’apertura cordiale e dialogante. Così, dunque, faceva anch’egli ricorso al linguaggio militante e alle metafore militari ma per realizzare, passo passo, un vero e profondo disarmo degli animi, delle mentalità e, dunque, delle prospettive di apostolato. Lo scontro si risolveva in un reciproco integrarsi: con una particolare importanza, dunque, per quello che potremmo chiamare ‘principio di integrazione’, premessa e fondamento del ‘principio di laicità’.

Affermava il professore dell’Ateneo fiorentino:

La civiltà moderna e la società moderna da un lato, la Chiesa dall’altro: i due protagonisti del grande dramma storico sono, per dir così schierati l’uno di fronte all’altro.

Per il combattimento finale? Sia pure: ma è un combattimento sui generis: un incontro, anziché uno scontro: un incontro fatto per arricchire reciprocamente e per integrare reciprocamente: è bene ripetere il grande principio di orientazione: il mondo ha bisogno della Chiesa e la Chiesa ha bisogno del Mondo. […]

Il «mondo» è lì, schierato, per dir così, davanti alla Chiesa: conquistarlo significa, per il cristianesimo, penetrarlo dall’interno, operare in esso come opera il lievito sulla pasta, operando delle integrazioni, delle purificazioni, delle elevazioni: non veni solvere sed adimplere. […]

Quale la teologia, tale la strategia della conquista: il mondo che si schiera davanti alla Chiesa non è un «nemico» da abbattere: è un «amico» da amare: un «malato» da guarire: amare il mondo, rispettare il mondo, redimere il mondo perché in esso si articola il Corpo di Cristo.

Quello che La Pira chiamava “principio di orientazione”, cioè la reciproca integrazione tra Chiesa e Mondo, suggeriva, dunque, la più corretta messa a fuoco della laicità, della sfida ad essa connessa, nonché delle scelte da compiere per “la fioritura tutta nuova dell’apostolato dei laici associati all’azione della gerarchia”.

Ma proprio per questo, allora, occorreva evitare i due impedimenti all’integrazione: l’impedimento di chi più che l’integrazione suggeriva un semplice dissolvimento della Chiesa nel Mondo moderno e l’impedimento di chi considerava il Mondo moderno come irrimediabilmente anti-cristiano e assegnava alla Chiesa il compito di combatterlo per accelerarne l’ineluttabile caduta.

Alla radice di questi due impedimenti, che erano in realtà due zavorre pastorali che appesantivano e impacciavano l’azione della Chiesa, stavano due errori ecclesiologici: l’errore, che La Pira chiamava “modernista”, di chi nega di fatto il volto divino della Chiesa e persegue un radicale pragmatismo, un’umanizzazione completa del cristianesimo; e l’errore, che La Pira chiamava “integralista”, di chi nega di fatto il volto umano della Chiesa. Implicitamente La Pira suggeriva che, nella Chiesa contemporanea, il rischio principale viene dall’integralismo. Mentre, infatti, gli bastava un accenno al “modernismo”, dal quale peraltro distingueva l'”ammodernamento” tecnico e il metodo dell’adattamento, si soffermava invece ampiamente sull’integralismo: non faceva riferimenti espliciti, ma chiaramente alludeva a certe espressioni dell’Azione Cattolica geddiana, ai toni da crociata di padre Lombardi, al tradizionalismo sclerotizzato degli ambienti che la storiografia avrebbe indicato come “partito romano”.

A proposito, dunque, di questo “triplice integralismo”, La Pira svolgeva riflessioni che mette conto citare con ampiezza, anche per la loro intramontabile verità:

Disconoscimento del volto umano della Chiesa: ecco l’integralismo, nei suoi tre aspetti: 1) dottrinale, 2) tattico, 3) morale.

È una specie di arteriosclerosi questo «fissismo» integralista: una incapacità a crescere, a restare giovane, a sensibilizzarsi con la giovinezza sempre rinnovata dei secoli. Ed infatti, cosa è l’integralismo dottrinale? È la somma di due carenze: pigrizia mentale, da un lato, incapacità assimilatrice dall’altro […]: la verità si arricchisce, si incrementa, per l’apporto che ad essa danno anche coloro che la frammentano o la combattono: essa si feconda con l’apporto di tutti. […]

Non v’è sistema errato che non contenga frammenti preziosi di vero, che non porti qualche incremento all’edificio totale della verità. Si pensi a tutta la storia complessa e drammatica del pensiero moderno: da Cartesio a Rousseau, da Kant ad Hegel ed a Marx. Tutto da rigettare? Nessun profitto, nessun apporto per la crescita della verità?

Una risposta siffatta non è davvero conforme alla visione genuinamente cattolica della realtà. La visione davvero cattolica è aperta, ha comprensioni profonde, non è manichea. […] Trarre profitto da questa verità parziale, da questo bene parziale: lasciarsi fecondare da qualsiasi germe di verità da chiunque seminato: chi non è contro di me è con me!

Orbene: all’integralismo dottrinale manca la capacità di assimilare questi germi di vita nuova: è rinserrato in un torrione invecchiato che esso scambia per «roccaforte tomista» e si preclude, chiuso come è ad ogni luce interiore, quelle vaste prolificazioni di cui la verità è sempre ricca nel corso dei secoli. […]

Ecco ciò che non capisce l’integralismo dottrinale: crede di essere un difensore agguerrito della Chiesa e non vede che le sue armature son troppo vecchie per essere proporzionate alle strategie sempre nuove e sempre più approfondite del combattimento umano nel quale la Chiesa è sempre impegnata nel corso dei secoli.

Integralismo tattico? Altro fondamentale errore di metodo! Combattere «gli avversari» con le stesse armi con le quali essi muovono all’assalto del cristianesimo. Ecco la tesi troppo semplicistica di questo integralismo frettoloso: ricorda la fretta degli apostoli quando erano con Gesù ed erano ancora inesperti del mistero profondo della redenzione e dell’amore.

Ed il rimprovero di Gesù è vivo ancora: non bisogna, per troppa fretta, estirpare il grano credendolo zizzania! La conquista apostolica ha metodi assolutamente originali, i metodi che Gesù ha usato, quelli che sull’esempio di Lui hanno usato ed usano i santi. […]

Niente fretta, dunque, e niente crociate affrettate: l’amore è paziente, è benigno, tutto crede, tutto spera: perdere oggi può essere la condizione essenziale per la conquista di domani!

Integralismo morale? Errore metodologico non meno pericoloso anche questo: è una forma di quietismo, di giansenismo: consiste in un ancoraggio pigro e accigliato allo scoglio della preghiera e della interiorità. […]

Ma un’orazione che si chiudesse in se stessa, che sdegnosamente chiudesse gli occhi alle «impurità» del mondo potrebbe davvero essere chiamata un frutto dell’amore? Costituirebbe una prova di amicizia? Avrebbe un palpito ed un significato di redenzione? San Paolo diceva: vorrei essere anatema pei miei fratelli!

Proprio in questa analisi acuta, puntuale e mai superata dell’integralismo, La Pira giungeva al punto culminante della sua riflessione. Essa esprimeva al meglio la sfida della laicità nella sua forma pre-conciliare o, forse, proto-conciliare. Il Concilio Vaticano II, aperto da papa Roncalli con uno spirito che, per più versi, poteva dirsi lapiriano, sviluppò poi un magistero che raccolse e valorizzò nel modo più compiuto tale sfida.

Conclusosi nel 1965 il Concilio, Vittorio Peri pubblicava, nel 1966, per l’editore Sales di Roma, il volume Laicato ministero apostolico, con una prefazione di padre Marie-Dominique Chenu, uno dei grandi teologi del Vaticano II. Il libro usciva nella Collana “Chiesa viva”, diretta da mons. Del Monte, nella quale erano già comparsi, oltre a due testi di autori vari (uno sulla spiritualità dei laici e uno sulla Lumen Gentium), un saggio dello stesso mons. Del Monte – La Chiesa Mistero di  Salvezza – e, soprattutto, uno di G. Philips (un altro grande teologo del Concilio) dal titolo Laicato adulto.

Il primo paragrafo del libro di Peri si intitolava L’ora dei laici. Quarant’anni dopo, nel Convegno della Chiesa italiana di Verona, nel 2006, il card. Tettamanzi affermava che era necessario accelerare l’ora dei laici. Evidentemente c’è qualcosa che si è inceppato o si è interrotto. Mi pare allora opportuno ritornare alla riflessione di Peri, perché – proprio alla luce dello stimolo del card. Tettamanzi – si può riconoscere in essa una fresca attualità.

La visione di Peri, come quella di La Pira, era cristocentrica. Si fondava su Gesù Cristo, il Messia, Dio incarnato, punto focale della storia, perché nella sua persona, le due nature – umana e divina – sono unite senza confusione e senza separazione: la differenza delle nature non è cioè soppressa dalla loro unione. In tal modo “In Cristo la divinità è stata partecipata all’uomo, nel rispetto straordinario e inconcepibile delle sue sostanziali strutture costituzionali: naturali, psicologiche, storiche” [19].

La riflessione di Peri, dunque, era in sintonia con il cristocentrismo lapiriano, ma lo sviluppava a sua volta per approfondire l’insegnamento del Concilio Vaticano II: della Costituzione Lumen Gentium e del decreto Apostolicam Actuositatem, correttamente riportato nella cornice della stessa Lumen Gentium. Ne derivava, pertanto, un approfondimento tanto originale quanto in profonda continuità, come già per La Pira, con la grande Tradizione della Chiesa.

In Cristo, affermava Peri, la salvezza dal peccato si realizza sia con un movimento dall’esterno sia con un movimento dall’interno. In Cristo, infatti, giungono all’uomo, limitato e decaduto, la santificazione e la salvezza, inattese ed insperabili, come dal di fuori, cioè non dalla natura umana corrotta ma dagli abissi trascendenti e insondabili della augustissima Trinità [20]. E del resto, in Cristo, Dio fatto uomo, le realtà umane, abbracciate e condivise da Gesù, sono state pure santificate come dall’interno: “Ogni realtà umana da lui condivisa – fosse una relazione di familiare parentela come un’appartenenza etnica e civica, un’attività professionale come un sentimento consueto – fu per ciò stesso santificata ed apparve santificabile. Degna di Dio, insomma: nel più vero e profondo senso del termine. Santificata e santificabile di fatto e spontaneamente. Quasi dal di dentro della stessa sua ristabilita autenticità e risanata natura, raddrizzata e fatta capace, nella fisica, storica, sostanziale comunione con Cristo, di accogliere ed assimilare la santificazione e la grazia nello Spirito stesso di santità di chi la faceva Sua” [21].

In questa visione, la Chiesa prolunga misteriosamente ma realmente nella storia Cristo vivente ed è, come lui, realtà umana e divina ad un tempo [22]. L’ecclesiologia misterica e teandrica di La Pira veniva, dunque, ripresa da Peri, il quale notava che, attraverso la Chiesa, lo Spirito Santo opera duplicemente, dall’interno e dall’esterno delle realtà da santificare [23]. Da questa ecclesiologia, saldamente impiantata nella cristologia calcedoniana, Peri derivava – ed è questa la cifra essenziale della sua riflessione – una originale accentuazione delle due forme di apostolato nella Chiesa, intese come due uffici (munera): quello dell’episcopato e quello del laicato. Di entrambi fonte e origine unitaria è Cristo; di entrambi il fine è la totale e completa ricapitolazione di ogni realtà in Cristo. È evidente che questo perfetto e armonico parallelismo eliminava alla radice, in modo preventivo e chiaro, ogni clericalismo e ogni svalutazione, subordinazione, emarginazione del laicato. Si aveva così, per parafrasare La Pira, una precisa architettura costituzionale cristiana del Popolo di Dio:

Salito al cielo, Gesù risorto confidò agli uomini che in Lui avevano e avrebbero creduto, fino alla fine dei secoli, fino cioè alla seconda e definitiva e gloriosa sua venuta, i propri poteri. Li confidò in due distinte forme, essenzialmente differenziate: o dall’esterno, trasmettendoli istituzionalmente, o dall’interno, lasciandoli all’umanità in quanto tale, come debita eredità che già con la Sua nascita e la Sua vita autenticamente umana, Egli, Verbo di Dio, aveva guadagnato, come appannaggio ormai suo proprio, all’umanità stessa. […] Mediante due apostolati, quello episcopale e quello laicale, entrambi in Lui ed attraverso di Lui, riconducibili, come ultima provenienza, al Padre. […]

Ogni ufficio (munus), per potersi efficacemente esercitare secondo il naturale regime della condizione umana, suppone dei poteri. Nella Chiesa, di conseguenza, ogni fedele deve umilmente sottostare, ovviamente nello scrupoloso rispetto dei modi propri, a due sorte di poteri, essenzialmente distinti ma parimenti autentici e con diversa modalità derivanti dall’unica loro fonte ed origine, Cristo. Sono: il potere gerarchico dei Pastori e quello, intrinsecamente ordinato su un diverso e peculiare modulo, dei laici. […]

Episcopato, laicato: ordini stabili ed indispensabili nella Chiesa. In mezzo al Popolo di Dio, costituendolo, essi sono destinati a due specie distinte di apostolato; godono rispettivamente di specifiche prerogative e ricoprono due uffici, distinti tra loro essenzialmente e non solo come grado; hanno propri e diversi diritti e doveri, dei quali diversamente rispondono in sedi diverse. Eppure tra loro e nello svolgimento stesso della duplice funzione ecclesiale, nella compagine di carità soprannaturale e visibile del Corpo di Cristo, è più che una coesistenza, più che una convivenza. V’è una reale unione e unità.[24]

In questa visione calcedoniana, dunque, distinzione e unità tra gerarchia e laicato erano derivate dalla distinzione delle due nature nell’unità di una sola persona in Cristo: dunque non laicismo che separa spirituale e temporale, clero e laicato; ma neppure integralismo che li confonde, rendendo di questo mondo il Regno di Dio [25]. Il binomio gerarchia-laicato, di marca pre-conciliare, veniva non sostituito ma sviluppato e ricompreso nel binomio ministeri-comunione: la distinzione, per dir così, ‘orizzontale’ tra un livello inferiore del laicato e un livello superiore dell’episcopato era non cancellata ma riorientata nella distinzione ‘verticale’ tra due ministeri o uffici paralleli, entrambi sorgenti dalla comunione-comunità.

In questa prospettiva, ogni vescovo, attraverso il triplice mandato di santificare, insegnare e governare, comunica al mondo, attraverso i sacramenti, l’invisibile e inaccessibile Signore: un annuncio ed una salvezza che provengono dall’alto, come dal di fuori. Il collegio episcopale è così pure radice visibile dell’unità della Chiesa. Il laicato invece, fermento d’unità dell’intero mondo redento, è chiamato a contribuire, quasi dall’interno, alla santificazione delle realtà temporali.

Nella Chiesa, il laicato obbedisce all’autorità dei Vescovi. Quando si tratta di realtà temporali, sono i Vescovi che devono ascoltare i laici. I laici, in questo senso, hanno un preciso diritto e, se sono uniti a Cristo, una vera autorità: “Il diritto, insomma, se sanno che una cosa si muove nel mondo – fosse pure la terra stessa! – di affermarlo con voce franca, leale, responsabile, senza essere indotti a mormorarlo delusi tra sé e sé, in un clima di diffidenza, di freddezza o di ostilità. Questa autorità, autonoma e valida nella conoscenza oggettiva dei singoli ambiti di verità e nell’uso d’ogni realtà terrena conforme alle sue leggi interne, può assurgere per il laico a vera autorità ecclesiale, solo in ragione della sua vitale e sostanziale comunione con Cristo” [26].

Più sottilmente, Peri osservava la necessità di “due obbedienze”, alla confluenza delle quali si trova l’autorità del laico: l’obbedienza docile ai vescovi e l’obbedienza al bene che c’è nel mondo, cioè la capacità e lo sforzo di cercare e di accogliere ogni valore positivo ritrovato in tutta la completa estensione delle realtà temporali. Modello per il laico è così la vita di Gesù a Nazareth: “Per trent’anni a Nazareth, in una crescita discreta e faticosa come ogni crescita dell’uomo, il Salvatore obbedì ai genitori, alle circostanze storiche, alle convenienze sociali, alle leggi esigenti del lavoro e a quelle distensive del riposo meritato. Obbedì agli uomini e alle cose. Nel farlo, ricorda l’Evangelista, già perfettamente obbediva a Dio, suo Padre. Così, analogamente, si potrebbe dire nella Chiesa dei laici. […] Insegnano a tutti, anche ai preti impazienti, a fare la coda davanti agli sportelli dell’anagrafe umana. È la loro autorità, la specifica potestà, di cui godono nell’ordinata compagine ecclesiale. Sicché forse potrebbe descriversi il loro, come un ministero ecclesiale necessario e permanente” [27]. Ecco appunto la tesi di Peri: laicato ministero apostolico.

Attraverso tale ministero, la Chiesa offre il servizio dell’obbedienza alla natura, alle verità del bene creato, alle positive esigenze di crescita degli uomini e delle cose: “È un servizio permanente, indispensabile e costituzionale nella Chiesa e della Chiesa” [28]. E come vi è un sacerdozio comune a tutti i battezzati e un sacerdozio sacramentale e gerarchico che culmina nell’episcopato, vi è pure – secondo Peri – una secolarità comune a tutti i battezzati e una secolarità sacramentale che è propria del laicato e che è data dal sacramento del matrimonio, del quale i laici sposi sono ministri e nel quale ricevono una particolare grazia di stato: “Come il privilegiato commercio sacramentale con le realtà divine dispone i membri dell’Ordine Sacro ad una più penetrante intelligenza e ad una più autorizzata amministrazione di tali realtà per il bene di tutta la Chiesa, analogamente, potrebbe pensarsi che l’evidente e sacramentale commercio con le realtà secolari redente da Cristo costituisca i laici sposati nel grado più elevato e specifico del ministero laicale, rivolto ancora al bene di tutta la comunità ecclesiale” [29].

Il profilo ecclesiologico che Peri raccoglieva dal Concilio era dunque chiaro: una complementarietà, un’armonica reciproca compensazione, una simmetrica corrispondenza tra ministero apostolico episcopale e ministero apostolico laicale. Se il rinnovamento post-conciliare aveva creativamente sviluppato forme nuove – come il Sinodo mondiale dei Vescovi – per un più pieno e fecondo esercizio della collegialità episcopale, Peri sperava che uno sforzo creativo altrettanto serio e profondo stesse per essere dedicato al laicato e perciò auspicava “nuove strutture istituzionali per il laicato, capaci di collocarsi, con funzione autonoma e dignità ecclesialmente qualificata, accanto a quelle di natura più propriamente ecclesiastica già esistenti e meglio sviluppate” [30].

In conclusione si può forse affermare che l’auspicio formulato da Peri, ormai più di quarant’anni fa, resta ancora valido e attuale: perché valido, attuale e assolutamente necessario resta il magistero del Concilio Vaticano II. Ed è proprio la continuità profonda con la grande Tradizione della Chiesa – secondo quanto mostrano il pensiero e l’azione di uomini come La Pira, che hanno preparato il Concilio, e come Peri, che hanno accolto con spirito di intelligenza il magistero conciliare – a costituire il saldo ancoraggio cristologico, ecclesiologico e pastorale per quella ‘sfida della laicità’ che è sempre più davanti a noi e che dobbiamo raccogliere [31].

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[1] Sulla giovinezza di La Pira cfr. almeno G. Miligi, Gli anni messinesi e “le parole di vita” di Giorgio La Pira, Messina, Intilla, 1995; R. Meridiani, La Pira giovane. Itinerario storico e spirituale fino alla pubblicazione di “Principi” 81904-1939), Firenze, Cultura nuova, 1990; P.D. Giovannoni, La Pira e la civiltà cristiana tra fascismo e democrazia (1922-1944), Brescia, Morcelliana, 2008. Per un agile, ma rigoroso, profilo biografico cfr. M. De Giuseppe, Giorgio La Pira. Un sindaco e le vie della pace, Milano, Centro Ambrosiano, 2001. Cfr. infine, per un aggiornamento degli studi: P.A. Carnemolla, Rassegna degli studi su Giorgio La Pira (1999-2007), in  C. Vigna – E. Zambruno (a cura di), Giorgio La Pira. Un San Francesco nel Novecento, Roma, Ave, 2008, pp. 311-369.

[2] Su questo tema sto da tempo lavorando. Dopo contributi parziali, spero di poter organare un lavoro complessivo.

[3] Cfr. F. De Giorgi, Linguaggi totalitari e retorica dell’intransigenza: Chiesa, metafora militare e strategie educative, in L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, Brescia, La Scuola, 2003, pp. 55-103. Per un’eco di questo lessico nel La Pira di “Pincipi” (ma ciò continuò anche oltre) cfr. M. Toschi, Giorgio La Pira e il volto della pace, Firenze, Associazione Don Giulio Facibeni, 2007, pp. 10-13.

[4] Cfr. V. Peri, La Pira Lazzati Dossetti. Nel silenzio la speranza, Roma, Studium, 1998.

[5] Cfr. L. Paggi, Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in “Parole chiave”, 12, (1996), pp. 74-107.

[6] Cfr. F. De Giorgi, Laicità europea. Processi storici, categorie, ambiti, Brescia, Morcelliana, 2007.

[7] Cfr. V. Peri, Giorgio La Pira. Spazi storici frontiere evangeliche, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2008.

[8] Cfr. P.A. Carnemolla, Giorgio La Pira missionario francescano della Regalità di Cristo, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 2-3 (2003-2004), 2-3, pp. 9-25; M. Badalamenti, Sei lettere inedite di Agostino Gemelli a Giorgio La Pira, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 5 (2006), 5, pp. 119-146; P.A. Carnemolla, Giorgio La Pira ed Ezio Franceschini missionari della Regalità di Cristo, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 6 (2007), 1, pp. 45-96.

[9] Cfr. V. Peri, I fondamenti teologali della santità dei laici: Giorgio La Pira, tra speranza storica e carità politica, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 2-3 (2003-2004), 2-3, pp. 27-56.

[10] Cfr. Peri, La Pira Lazzati Dossetti. Nel silenzio la speranza, cit.

[11] Per quanto riguarda questo rapporto negli anni dell’immediato secondo dopoguerra (che sono quelli dello scritto che si prenderà in considerazione) cfr. J.-D. Durand, Giorgio La Pira – Jacques Maritain: dialogo per un’Europa cristiana (giugno-luglio 1946), in “Studium”, (2001), 6, pp. 893-912.

[12] Si può fare riferimento alla ristampa anastatica di “Cronache Sociali”, recentemente curata da Alberto Melloni.

[13] L’unico studio, finora, su questo testo di La Pira è: P.A. Carnemolla, Due ecclesiologie a confronto. La Pira e la Pastorale del Card. Suhard, in Aa. Vv., Amicitiae causa. Scritti in onore del Vescovo Alfredo M. Garsia, S. Cataldo Caltanissetta, Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata”, 1999, pp. 327-355. Più in generale cfr. P.L. Ballini (a cura di), Giorgio La Pira e la Francia. Temi e percorsi di ricerca da Maritain a De Gaulle, Firenze, Giunti, 2005.

[14] È stato giustamente osservato: “il tomismo di La Pira è ‘militante’ e politico, nel senso che del pensiero dell’Aquinate è colto in modo privilegiato, sebbene non esclusivo, il versante antropologico, pratico ed etico-politico, più che quello metafisico-gnoseologico: la dottrina della persona e della società, del diritto e della legge, del bene comune, della proprietà, del fine della Società e dello Stato, della guerra e della pace, ecc.” (V. Possenti, La Pira tra storia e profezia. Con Tommaso maestro, Genova-Milano, Marietti, 2004, p. 27).

[15] Cfr. C. Vigna, La Pira tomista, in  Vigna – Zambruno (a cura di), Giorgio La Pira. Un San Francesco nel Novecento, cit., pp. 289-308.

[16] Si veda l’introduzione di La Pira a L. Frassati, L’impegno sociale e politico di Pier Giorgio, Roma, Ave, 1953: ripubblicata in “La Badia”, (1990), 11, pp. 65-71.

[17] Sulla spiritualità di La Pira cfr. almeno V. Possenti (a cura di), Nostalgia dell’altro. La spiritualità di Giorgio La Pira, Genova-Milano, Marietti, 2005.

[18] Cfr. M. Badalamenti, Giorgio La Pira araldo francescano del Gran Re, in “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, 5 (2006), 5, pp. 41-69.

[19] V. Peri, Laicato ministero apostolico, Roma, Sales, 1966, p. 27.

[20] Ibid., p. 29

[21] Ibid., p. 25.

[22] Ibid., pp. 31-32, 36.

[23] Ibid., p. 34.

[24] Ibid., pp. 39-41.

[25] Ibid., pp. 137-147.

[26] Ibid., p. 58.

[27] Ibid., pp. 62-63.

[28] Ibid., p. 69.

[29] Ibid., p. 133.

[30] Ibid., p. 152.

[31] Per qualche spunto, in questo senso, mi permetto di rimandare al mio saggio: Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano, Milano, Paoline, 2008.