“L’uomo soffre per mancanza di visione”
Prof. Andrea Riccardi
La Pira Lecture 2009
Firenze 18 novembre 2009
C’è un bel verso di Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, scritto negli anni tristi e plumbei della sua vita polacca. E’ tratto da una poesia intitolata, Una vecchia conversazione…: “io credo che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione”. Sull’orizzonte polacco del card. Wojtyla non si vedeva nessun segnale di cambiamento, nessuna prospettiva. Era un orizzonte cupo in cui il futuro Giovanni Paolo II cercava una visione di speranza. Maturava nel dolore quella fatica della speranza che lo ha reso forte.
Oggi, in un tempo di globalizzazione dei media, si ha la sensazione di vedere tutto, a qualunque distanza sia collocato da noi. Sembra che ci siano tante diverse prospettive. I media, con la loro forza invasiva, svelano quel che sembra destinato a restare nascosto. Fatti ed eventi lontani ci raggiungono. Tutto si può vedere e tutto sembra più chiaro: presente e futuro. Eppure siamo in un tempo di mancanza di sostanziose visioni del futuro. Lo si soffre nei paese europei, dove siamo concentrati sul presente, distratti dal futuro, anzi spaventati da esso. Certo è finito il tempo delle visioni fabbricate nei laboratori dell’ideologia. Ma, dopo la grande demistificazione, sfuggono i confini reali del presente e del futuro. Leggere il presente e guardare al futuro diventa difficile. Eppure si hanno tante informazioni e si accendono tante luci mediatiche. Scrive un critico d’arte inglese, John Ruskin: “E’ l’eccesso di luce che rende la vita di oggi perfettamente volgare”. La volgarità della vita è la concentrazione sul presente, svuotato e abbagliato dall’eccesso di luce. Si crede di conoscere e di illuminare la nostra e l’altrui vicenda umana, ma si tratta di fuochi di artificio. Molto spesso siamo al buio, senza visioni, tra tante notizie o, per i più dotti, prigionieri di una conoscenza specialistica.
Dalla mancanza di visione del futuro viene la paura della nostra Europa, da cui nasce la continua domanda di sicurezza (destinata ad essere mai soddisfatta). Questa è la sofferenza, spesso inespressa, dell’uomo e della donna del nostro tempo. La si ritrova in altri termini nel dibattito politico, tra le forze politiche che si compongono e si scompongono: la carenza di visioni tante volte significa mancanza di un rapporto fecondo tra politica e cultura, in favore di un rapporto tra politica e media. Ne emerge un clima spesso aggressivo in modo teatrale, più che caratterizzato dalla battaglia delle idee sul futuro. Un limite simile, anche se di natura diversa, si ritrova pure nel mondo dei credenti. I cristiani fanno fatica a leggere il presente, quelli che – in linguaggio conciliare – si sono chiamati i segni dei tempi. Talvolta sono spaesati nel presente e spinti a ripiegarsi su di sé o sulle proprie istituzioni.
E’ difficile far maturare una visione. Ma questa situazione non è frutto necessario dei tempi complessi che viviamo? Ieri gli orizzonti erano ristretti alla nazione, alla regione o alla città; ma come avere oggi una visione, quando gli orizzonti sono sconfinati e globalizzati? La ricerca di una visione non fa parte di una cultura e di una politica legate a moduli novecenteschi? Non ragioniamo con categorie ed esigenze ormai vecchie?
Conviene ritornare al poeta Wojtyla:
“Se soffre per mancanza di visione – deve allora aprirsi la strada fra i segni
fino a ciò che gravita dentro e che matura come frutto della parola.
E’ questo il peso che in sé avvertì Giacobbe
Quando in lui caddero stelle stanche come gli occhi del suo gregge?”
Karol Wojtyla afferma: cercare una visione è aprirsi la strada tra i segni, che si colgono nella storia, ma anche maturarla interiormente come frutto di fatica e ricerca. Questo atteggiamento pensoso, che è anche dialogico (il futuro papa ne parla a proposito di una conversazione con un amico, che confessa il suo dolore per la mancanza di visione), richiede una concentrazione pensosa. Non è anacronistico quando la scena mediatica è dominata da tanti fuochi d’artificio e da pressanti e mutevoli domande? E’ finito il tempo delle visioni?
Visionario o realista?
Viene da chiedersi se la figura di Giorgio La Pira oggi non ci riporti a un mondo novecentesco, che non esiste più. Non si fa memoria di un uomo che, con il suo modo di pensare e di agire, è fuori dal nostro tempo, perduto in un mondo che non esiste più?
Il sindaco di Firenze, mentre era vivo, fu accusato di essere un visionario. Nel 1954, Pio XII, nel radiomessaggio natalizio parlava dell’involuzione dell’uomo politico cristiano, quando non si attenga a chiari principi e all’esperienza oggettiva: diventava “banditore carismatico di nuova terra sociale”. Quindi un pericoloso visionario. Molti videro in questa allusione generica del papa un riferimento a La Pira. Il Sostituto Montini, sollecitato dal sindaco per chiarire, smentì ma poi aggiunse, tortuosamente, che, se lui si ritrovava nella figura tracciata dal papa, evidentemente correva rischi di questo tipo.
Visionario? La Pira scriveva a Pio XII nel gennaio 1955: “Un sogno? Una poesia? No, Beatissimo Padre…”. Ed aggiungeva: “alcuni dicono (i “sapienti” politici): La Pira è un ‘ingenuo’: si lascia giocare. Ebbene sarò anche un ingenuo: gli altri crederanno magari di fare il loro giuoco. Ma intanto ecco i fatti…”. Cinque anni dopo, scrivendo a Kruscev, dopo averlo invitato a considerare i fattori spirituali tra le forze che fanno la storia, affermava: “Credetemi, signor Kruscev, non mi inganno nel dirvi questo: non sono un visionario: sono estremamente realista”. Più volte ritorna su questo interrogativo. “Sogniamo? Ci illudiamo? Siamo utopisti?” – scrive nel 1962 a Giovanni XXIII.
Un cattolico romano e la storiografia del profondo
Visionario o realista? Giorgio La Pira aveva una capacità particolare di leggere la storia. Innanzi tutto si fondava su un orientamento profondo, maturato in una fede vissuta e in una preghiera intensa. Non fu un postcristiano o solo un uomo di cultura cristiana. Fu un credente radicato nella Chiesa cattolica, tanto da essere considerato un clericale e un bigotto. Parlava sempre del papa. La sua pietà lo portava a fare delle apparizioni della Madonna a Fatima una chiave interpretativa per il XX secolo. Erano posizioni che facevano sorridere quelli che si consideravano cattolici maturi. D’altra parte, le posizioni del sindaco facevano scalpore. Di lui dice nel 1961 don Giuseppe De Luca, prete erudito, amico di letterati: “l’Italia è in mano al nostro Fidel Castro o La Pira che si voglia dire, corrispondente attivo col capo della chiesa russa…”. E’ un confuso per Sturzo; comunistello di sacrestia per settori della Curia, come quelli del card. Ottaviani, ma anche per settori dell’imprenditoria italiana.
La Pira è prima di tutto un cattolico. Per lui il papa ha un’importanza decisiva. Ho pubblicato – grazie alla fiducia della Fondazione La Pira – due volumi con le lettere che il sindaco scrisse ai papi, da Pio XII a Giovanni XXIII (quest’ultimo assieme al prof. Augusto D’Angelo). Ma si rivolse con una cospicua corrispondenza pure a Paolo VI, che precedette di un anno nella morte, nel 1977. Mi sono reso conto come questa corrispondenza sia una specie di diario, le cui idee sono riprese in tanti altri testi del professore. La Pira è in profondità un cattolico “romano”, per cui la romanità e l’universalità del papato hanno una visione decisiva.
Per lui, la Chiesa ha una funzione centrale nel mettere in movimento la storia. E’ una realtà spirituale, ma per questo orienta in modo forte la storia dei popoli:
“mai come oggi – scrive nel 1958 – la Chiesa è apparsa quale ‘nave ammiraglia’ di tutte le navi che compongono la famiglia dei popoli e delle nazioni: battezzate o non battezzate, tutte le nazioni appartengono ad una flotta unica nella quale la nave ammiraglia è costituita dalla Chiesa cattolica e, più esattamente, dalla Sede apostolica”.
Ma la storia va scrutata e interrogata. Era uomo di preghiera. Amava pregare davanti alla carta geografica. “Due sono i libri sacri da leggere: il tempo presente, con i suoi movimenti, le sue anse… le sue profondità difficili da sondare – ‘storiografia del profondo’ – … L’altro libro da leggere è la Bibbia… il libro che contiene la chiave dell’interpretazione storica. Non si capisce niente senza di esso”. Bisogna fare la storiografia del profondo: tale pratica lo porta a intuire dei movimenti profondi della storia con grande anticipo rispetto ai contemporanei. Pur in una storia agitata alla superficie – scrive un anno prima di morire – “vi sono delle grandi e misteriose correnti che trascinano in un senso ben preciso: verso l’unità e la pace”.
Vorrei ricordare un aspetto delle intuizioni preveggenti di La Pira. Fin dagli anni Cinquanta affermava che il comunismo era ferito a morte e non avrebbe tardato a finire. Era un tempo in cui il blocco sovietico appariva granitico, tale che solo una guerra mondiale avrebbe potuto scuoterlo. Il professore non credeva alla logica dello scontro, ma a quella dell’incontro capace di esercitare un’attrazione sul “nemico”. La Pira non ridimensionava l’avversione al comunismo sovietico, per lui ostile alla libertà e alla vita religiosa. L’anticomunismo del professore è chiaro: non c’è niente in lui del compagno di strada dei fronti popolari in tutte le loro diverse edizioni o del cattolico comunista.
Piuttosto che affrontare il comunismo frontalmente, egli sentiva che bisognava attrarre il mondo russo, far emergere le contraddizioni e le attese che permanevano al fondo di esso. In questo spirito compie il viaggio a Mosca del 1959, dopo anni di contatti privilegiati con i sovietici (che avevano individuato in lui un importante interlocutore occidentale, tanto da consegnargli in anteprima il rapporto di Kruscev al XX congresso del PCUS, che aprì la destalinizzazione). Il sindaco percepisce che da Mosca vengono segnali nuovi che non vanno fatti cadere, anzi i sovietici – è il messaggio che invia agli americani – vanno aiutati:
“forse questa semente irresistibile di rinascita già opera nell’animo non pacificato dello stesso Krusciov: forse la personalità potente di Ivan III non è senza risonanze… c’è qualcosa che lo attrae irresistibilmente verso l’Europa, verso la storia di ieri, che è prefigurazione della storia di domani”.
Il comunismo: una questione epocale
Nel 1951 Giuseppe Dossetti si recò da La Pira per comunicargli la sua decisione di lasciare la politica: bisognava concentrarsi sulla vita religiosa, perché, nel volgere di qualche tempo, il comunismo avrebbe vinto anche in Italia. Ne seguì una lunghissima discussione tra i due, di cui fu testimone Ettore Bernabei. Alla fine, il professore stremato concluse: “il comunismo non vincerà mai, perché è ateo”. Negli anni Cinquanta, quando comunisti e sovietici sembrano una realtà granitica, scrive a Pio XII: “Il comunismo non vince più né in Italia né fuori…”. Il suo limite di espansione è raggiunto. In Italia bisogna allargare la politica sociale per strappare ai comunisti il sostegno del mondo dei disperati e dei poveri.
Nel quadro internazionale, il Professore crede che, sotto la glaciazione sovietica, germoglieranno fermenti di spiritualità e di libertà. Sono gli “uomini del sottosuolo”, per usare un’espressione di Dostoevskij, che metteranno in crisi il sistema. In particolare egli individua nella Polonia l’anello debole del sistema. Fin dal 1939, all’epoca dell’invasione tedesco-sovietica, il giovane La Pira aveva espresso simpatia per il popolo polacco scrivendo sulla rivista fiorentina “Principi”. Da quel momento non aveva perso di vista la Polonia, cogliendo il fervore religioso vissuto negli anni del regime comunista. Nel 1959 egli scrive alle claustrali, con cui condivideva le sue visioni geopolitiche, chiedendo loro di pregare:
“La Chiesa per un verso, l’impero comunista – sì, già allora parlava di impero con una terminologia invalsa dopo l’89 o che Aron usava più tardi – per l’altro verso: combattimento drammatico, che non ha nulla di meno, in sostanza, del combattimento drammatico tra la Chiesa e l’impero romano. Quale è il destino prossimo di questo gigantesco duello? Quali i sintomi della sua soluzione? La presenza del cardinale Wyszynski è, in proposito, estremamente significativa: è un segno ‘misterioso’, ma anche tanto luminoso dello svolgimento di questo duello e del termine che lo aspetta. Il cardinale Wyszynski è la Chiesa che, perseguitata, avanza e vince: è Pietro prigioniero cui si sono aperte miracolosamente le porte della prigione. L’impero comunista, nonostante tutto e malgrado le apparenze, è già colpito al cuore: le mura di Gerico, nonostante le apparenze, sono già abbattute…”
La prospettiva è che “sia ‘abbattuto’, ‘vinto’ – non con le armi, si capisce – e convertito l’impero romano odierno, la Babilonia odierna”. Bisogna cambiare strategia, evitare l’isolamento arroccato sovietico, aggredire “cordialmente” questo mondo: “Uscire da una posizione sterile di sospetto e di difesa ed assumere un atteggiamento ardito (sino a sembrare ingenuo!)… La guerra non si può e non si deve fare: ed altro? Allora bisogna con le armi della grazia e della speranza penetrare in Gerico ed alzare proprio nella piazza di Gerico il vessillo della luce e dell’amore…”. Questi propositi risuonavano ingenua improvvisazione negli anni della guerra fredda. Ma La Pira mette in campo una strategia dell’incontro e dell’attrazione per spingere non solo i dirigenti sovietici, ma la popolazione stessa, al confronto con l’Occidente, partendo da una convinzione che pochi condividevano.
E’ la convinzione, rifiutata dal pessimismo anticomunista e dalla stessa sinistra, che il sistema sovietico era minato alle fondamenta. E’ un’intuizione che, qualche tempo più tardi, è alla base della visione di Karol Wojtyla, non condivisa anch’essa dagli osservatori occidentali. Il Professore affermava con decisione (siamo nel 1959): “questo è l’anticomunismo autentico: spezzare l’ateismo; mostrarne la vecchiezza, la superficialità: e tentare di aprire alla Russia gli orizzonti preziosi della sua storia cristiana…”. In questa prospettiva, con rapporti cordiali, andava appoggiata la Chiesa russa, per lui un polmone di libertà spirituale nel grigio mondo sovietico (ma per l’opinione ecclesiastica coeva, un’istituzione nelle mani del KGB).
La forza dell’Europa
L’Europa ha un grande ruolo verso l’Est sovietico e il mondo. La sua visione dell’Europa richiama quella del generale de Gaulle e di Giovanni Paolo II (piuttosto rara all’epoca della guerra fredda): il futuro – scrive nel 1966, più di vent’anni prima della caduta del Muro – conduce alla unità e pacificazione di tutta l’Europa (tutta: dall’Atlantico agli Urali)…”. Ma l’Europa deve lasciarsi alle spalle il passato coloniale. Siamo negli anni complessi della decolonizzazione, in cui il sindaco è a fianco dei cosiddetti popoli nuovi. Lo è anche nella difficile questione dell’indipendenza dell’Algeria dalla Francia, che tanto divide l’opinione pubblica francese e cattolica.
Un mondo nuovo di soggetti nazionali, emersi dal colonialismo, si affaccia all’orizzonte. Il sindaco non condivide che la fine del dominio coloniale significhi il ritrarsi dell’influenza della Chiesa o un drastico ridimensionamento del ruolo europeo. L’Europa ha una missione nel mondo che si va organizzando, dopo la conferenza di Bandung del 1955, nel movimento dei non allineati. Anche in questo settore la politica europea dev’essere l’attrazione (tecnica e spirituale – egli precisa). Il Professore pensa che un volto simpatico dell’Europa la possa condurre ad esercitare una leadership in quello che allora veniva chiamato il Terzo Mondo, un insieme di paesi che, rifiutando i modelli del capitalismo occidentale, si trovavano alle strette con il marxismo proposto da Mosca. Scrive a Fanfani nel XXX:
“Dove volgeranno lo sguardo i popoli nuovi e le nuove nazioni? Verso la Russia? Verso l’America? Verso l’Europa (ma quale Europa)?”.
Infatti, nei paesi terzomondiali, egli coglieva esigenze spirituali. In particolare, nel mondo musulmano, di cui aveva colto l’emersione del protagonismo fin dagli anni Cinquanta. Infatti il sindaco aveva realizzato un contatto molto stretto con alcune personalità francesi sensibili all’islam, tra cui soprattutto il grande orientalista Louis Massignon, maestro del frate fiorentino Giulio Basetti Sani, il francescano marocchino Abd el Jalil o il turco cretese mons. Mulla. Si era convinto, prima del Vaticano II, che l’accostamento all’islam andava fatto a partire dai valori spirituali e nel rispetto della personalità musulmana. La forza dell’Europa, oltre la sua grande capacità “tecnica” (come diceva e che non sottovalutava) era quella di possedere un lessico spirituale e culturale, che la rendeva capace di entrare in contatto con i paesi nuovi, musulmani e non musulmani.
Il re del Marocco, Muhammed V, che visitò Firenze, era uno dei suoi interlocutori (il suo paese rappresentava – per il sindaco – un ponte tra Europa e islam). Ma La Pira ebbe un cordiale rapporto anche con il nazionalismo egiziano, esecrato da una parte importante dell’opinione europea. Bisognava, secondo lui, fare i conti con Nasser, che esprimeva la voglia di contare degli arabi. Con lui ha un rapporto personale e di fiducia. L’amicizia con alcuni leader fa parte integrante della sua strategia di pace.
Il visionario La Pira è tra i primi, fin dagli anni Cinquanta, a convincersi dell’esigenza che arabi e israeliani debbano trattare. L’amico degli arabi è – a differenza di molti cattolici del suo tempo – convinto che la nascita dello Stato d’Israele sia un fatto epocale, anzi dal chiaro significato spirituale. Dalle leggi razziste del 1938, La Pira ha colto il dramma ebraico e ha creduto che i cristiani debbano cambiare atteggiamento verso gli ebrei. Non è un caso che sia il fondatore dell’Amicizia ebraico-cristiana. Arabi e israeliani debbono dialogare per stabilire la pace in Medio Oriente. Martin Buber, grande pensatore ebraico, sostenitore di una soluzione federale arabo-ebraica, è con La Pira nelle sue iniziative fiorentine di dialogo.
Firenze, in un tessuto di incontri e attraverso le missioni del suo sindaco, diventa centro promotore di uno spazio mediterraneo, radicato nella tradizione di Abramo, pater omnium credentium, ebrei, cristiani e musulmani. La pace mediterranea, per La Pira, non vuol dire prevalenza degli uni sugli altri, ma coabitazione nel rispetto delle diverse identità. Il Mediterraneo, per storia e geografia, percorso da tensioni unitive, ma tanto diviso, obbliga a vivere insieme o a combattersi irriducibilmente. Il Mediterraneo, dove convivono identità religiose e storiche differenti può essere il laboratorio – uso un’espressione che mi è cara – della civiltà del convivere. Il dialogo è strumento e simbolo di questa civiltà.
Ma il sistema mediterraneo non è chiuso, anzi è un centro di gravitazione per Europa e Africa. La Pira – lo si è detto – guarda all’Africa indipendente, credendo che la vitalità del Sud si possa incontrare con la civiltà tecnologica del Nord. Gli è accanto, come interlocutore di grande rilievo, il poeta-presidente senegalese Leopold Sedar Senghor, sostenitore di Eurafrica, nuovo quadro di relazioni postcoloniali. E’ la personalità africana di più larga visione di quel periodo. La visione lapiriana della convivenza mediterranea e di Eurafrica si esprime in queste brevi righe del 1959:
“Abbiamo ‘favorito’ Nasser ed i popoli nuovi del mondo nuovo di Asia e Africa: ma per sottrarli alla attrazione atea ed attirarli nell’orbita teologica! Per mostrare loro il volto dell’Occidente autentico: quello cristiano!”.
Laico o clericale?
L’Italia e l’Occidente “cristiano”: egli diceva. In realtà nell’intreccio tra visioni spirituali, percezioni di correnti profonde, visioni profetiche, si è spinti a dubitare della laicità di Giorgio La Pira. Ernesto Balducci, in una bella biografia del sindaco (con cui aveva condiviso tanti momenti), sostiene che la sua visione fu marcata, come per Dante nel De monarchia, dall’incontro tra Chiesa e impero. Quindi, in un certo senso, sarebbe stato sempre alla ricerca di un nuovo Costantino. La Pira guarda con simpatia a de Gaulle e ne sostiene lo sforzo. Crede che ci sono uomini di Stato capaci di compiere una missione storica al di là delle contingenze: uno è il presidente francese; l’altro è Fanfani, che recepisce le idee geopolitiche del sindaco; altri sono Kennedy e lo stesso Kruscev. Il Professore ha una comunanza di visioni con Enrico Mattei, il presidente dell’ENI, che tenta di fare dell’Italia una protagonista nella politica energetica internazionale. Il realismo lapiriano è consapevole che le grandi visioni hanno bisogno di uomini e di volontà politiche che se ne facciano carico.
Molto realismo e tanta spiritualità si intrecciano facendo del Professore un laico singolare, non solo perché viveva da consacrato. Indubbiamente, La Pira non è l’uomo della laicità della separazione alla francese. C’è in lui quasi un’eredità neoguelfa che impregna la sua visione dell’Italia, paese di tutti, cattolici e non cattolici, ma imbevuto di storia cristiana. E il cristianesimo per lui non è solo la tradizione, ma un futuro fresco per il paese. C’è anche una visione delle questioni spirituali, non solo cristiane, inseparabile dalla realtà politica e sociale: era originale, ma considerata arcaica in anni, soprattutto dopo il ’68, in cui si dava il fenomeno religioso come inevitabilmente declinante sotto l’urto della secolarizzazione. Certo il sindaco non è l’uomo della separazione tra spirituale e politica. Era estraneo ad una visione che riducesse storia e politica a fenomeni avulsi dallo spirito; ma rifiutava la confusione e credeva nella libertà di tutti. Da qui il suo antifascismo e il suo anticomunismo.
Era soprattutto amico della libertà: la libertà dei popoli coloniali, dei credenti nei regimi comunisti, la libertà dal bisogno di poveri e disoccupati. Nel 1961, incorrendo in un incidente giudiziario, La Pira volle la proiezione di un film francese contro la guerra, Tu ne tueras pas, proibito in Italia dalla censura. Dette in Palazzo Vecchio un premio ai direttori dei giornali che avevano protestato contro il provvedimento. Fu un gesto studiato e provocatorio in favore della cultura della pace, ma anche della libertà di espressione. Realista, spirituale, sostenuto dalla DC e senza tessera democristiana, cattolico obbediente ma con una visione chiara delle responsabilità della Chiesa, amante della libertà, La Pira fu un singolare laico, neoguelfo, cattolico papale, giudicato estremista, libero, creativo. Trascese, forte di alcuni riferimenti, le definizioni e gli incastellamenti: forse perché, radicato su di una linfa antica, guardava con passione al futuro, quasi desideroso di prevenirne e assecondarne i movimenti.
La storia va verso Oriente
La vittoria alleata nella seconda guerra mondiale aveva inaugurato una stagione di egemonia occidentale contrastata dal blocco sovietico-comunista, retto da un’ideologia anch’essa occidentale. Il cuore della guerra fredda, come si vide dai fatti d’Ungheria del 1956, era ancora in Europa. L’emersione del Terzo Mondo fu di grande rilievo per La Pira, ma non così determinante come l’orientamento della storia verso l’Asia, che La Pira coglieva. Questo sì avrebbe spostato la storia. Nel 1964 il sindaco fu colpito da una particolare coincidenza: Paolo VI andò – la prima volta di un papa – in Terra Santa; allo stesso tempo il primo ministro cinese Ciu en Lai si spostò sul Mediterraneo per una visita ufficiale in Egitto, Algeria e Marocco (la Cina comparve come potenza mondiale alle soglie dell’Europa). La Pira saluta questo viaggio con due messaggi. Del resto, fin dal 1955, aveva invitato ai colloqui di Firenze il sindaco di Pechino (nonostante l’Italia non avesse rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare). Il Professore non si illude:
“il comunismo cinese è durissimo; è stato tessuto con filamenti severi di sovversione; è bellicista; è strutturalmente e severamente ateo; e tuttavia chi può negare che questa scorza severa e pesante che avvolge alla superficie la vita di quella immensa nazione è destinata a spezzarsi…”.
Bisogna – conclude – “imbarcare i popoli dell’Asia (700 milioni di cinesi; 500 milioni di indiani)”. Il suo interesse si indirizza alla Cina: “la Gerico che bisogna ora assediare con la preghiera e col sacrificio è (dopo la Russia) la Cina; la muraglia che bisogna ora arditamente abbattere è la muraglia cinese… passare per così dire, da Mosca (senza mai lasciarla) a Pekino”. “Ciu en Lai: un grande! La Cina viene, cambia” – diceva La Pira (così ricorda l’indimenticabile Fioretta Mazzei, amica del professore e testimone privilegiata).
La Cina – siamo a metà anni Sessanta – è per La Pira la protagonista del tempo nuovo. Egli sentenzia con sicurezza. “la prua della storia punta verso Oriente”. Qui la Chiesa è assente. In questa prospettiva spinge Giovanni XXIII ad accettare l’invito a recarsi in Indonesia rivoltogli dal presidente indonesiano Sukarno (sarebbe un segno per il mondo musulmano, ma anche – aggiunge – “l’Indonesia alle porte della Cina: quante cose potrebbero derivare da questo viaggio!”). Molto colpito dalla frattura tra l’URSS e la Cina, il Professore considera centrale la questione cinese. Reclama attenzione al problema:
“questo è il ‘nodo’ della storia odierna del mondo: è il nodo della Cina: perché la storia… proceda verso i grandi fini di pace e di unità e di fraternità fra tutti i popoli della terra bisogna sciogliere questo nodo; bisogna “levare” questa pesante pietra che ostacola il cammino… Scioglierlo come? – continua – Con la guerra? No: scioglierlo con i grandi mezzi della giustizia, della verità e dell’amore…”.
L’ossessione lapiriana, se così si può dire, è far cadere le mura e aprire le porte, evitando contrapposizioni che rafforzino chiusure o esclusioni, come quella della Cina popolare dall’ONU. In questa prospettiva La Pira sente estremamente pericolosa la guerra tra il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud, con il coinvolgimento americano, sia per la portata del conflitto sulle popolazioni che come prefigurazione di uno scontro tra comunismo asiatico e Occidente. Proprio nel delicato quadrante vietnamita, il sindaco compie – ma non è qui il caso di parlarne nei dettagli – una ardita e realistica missione di pace. Infatti La Pira non solo parla di pace, ma opera concretamente per la pace, soprattutto favorendo i contatti laddove non esiste comunicazione, come fa tra israeliani e arabi. La pace – si potrebbe dire – è il grande scopo della sua vita, consapevole com’è di come si tratti di una realtà complessa che, assieme alla fine della belligeranza, richiede una profonda comprensione umana e culturale.
Da Firenze al mondo intero
Padre Balducci, a proposito di La Pira, specie dopo il ’68 (egli verso cui ebbe un atteggiamento di grande, – secondo alcuni – eccessiva attenzione), parla di un “collasso della profezia nella fabulazione più o meno arbitraria”. Ma La Pira ha inteso essere un profeta? Non certo, nel modo in cui lo si diceva, negli anni del postConcilio in cui spesso profezia veniva a coincidere con la novità, l’originalità o la contrapposizione. Uomo di grande familiarità con la Bibbia, stimolato dal rapporto con Martin Buber (grande studioso dei profeti), sapeva quale fosse la forza del profetismo biblico e che cosa rappresentasse lo spirito profetico nelle prime generazioni cristiane. E talvolta La Pira si espresse con un linguaggio allusivo, intuitivo, visionario, un po’ fabuloso, ma non fece il profeta.
A partire da un forte sentimento interiore, fatto di fiducia nel Dio che guida la storia, di speranza, di orrore per la guerra e di coscienza della forza del male e dell’inimicizia, lesse instancabilmente piccoli e grandi avvenimenti di ogni giorno. Costruì una visione della storia, partendo da una mappa mentale, cercando di individuare orientamenti, punti di conflitto, risorse positive, varchi di speranza, comunanze possibili e differenze irriducibili. C’è un’analogia – con tutt’altra storia – tra La Pira e Giovanni Paolo II, non solo nel giudizio sul comunismo e sull’Europa, ma anche su una teologia delle nazioni come motore della storia. Entrambi condividono l’idea che l’incontro è lo strumento per cambiare il corso della vicenda storica in un intreccio tra volontarismo dell’azione e fiducia in Dio.
Uomo del sogno – proprio nel senso di cui parlava Martin Luther King – fu anche un realista. Preoccupato del ripetersi della guerra, fu alla ricerca di piste di pace e di incontro. In un mondo che soffriva per mancanza di visione, fu l’uomo della visione, contrastata, discussa, dileggiata, ma capace di imporsi per purezza di intenzioni e passione travolgente. Fu anche un politico attento, ingenuo fin scaltro, diplomatico accorto senza che nessuno gli avesse conferito alcun incarico. Le sue visioni nascevano nel laboratorio artigianale delle intuizioni, degli incontri, delle riflessioni appassionate, della ricerca di un segreto della storia, nella sua modesta ma sincera rete di amicizie.
Ma riveniamo alla questione posta all’inizio: La Pira non è un uomo fuori dal nostro tempo con il suo laboratorio artigianale della visione, mentre iperinformati think-tank lavorano su tante settori della vita internazionale? Eppure la visione lapiriana ha colto tanto dell’orientamento della storia nella seconda metà del Novecento.
Il nuovo secolo si è aperto con due eventi: il tragico attentato dell’11 settembre (espressione della volontà di innescare uno scontro di civiltà e di religione tra Occidente e islam, con la sua conseguenza della guerra in Iraq), l’11 novembre, la globalizzazione del mercato con l’ingresso della Cina e dei suoi un miliardo e trecento milioni di abitanti nell’organizzazione mondiale del commercio. Grandi concentrazioni di informazioni e di specialisti non hanno impedito l’errore della guerra in Iraq. E’ ovvio che il mondo contemporaneo è complesso e di difficile lettura. Ma come affrontarlo senza visioni? Senza farle condividere alla gente, in un mondo in cui pochi possono destabilizzare interi paesi?
Ci vogliono visioni! E’ insostituibile la bottega artigianale in cui si elaborano visioni, che hanno al centro un uomo appassionato e che pensa. Disse Olivier Clément, parlando nel 1964 in Palazzo Vecchio: “la pace del mondo si realizza prima di tutto in sé; è trasformando se stessi che si aiuta la trasformazione del mondo”. Torna La Pira, che vive con la pace nel cuore e l’inquietudine di scrutare i tempi oltre la cronaca. La cronaca – sembra chiara e leggibile – ma ci imprigiona nella catena delle reazioni. La cronaca si illumina, quando si ha il senso dei tempi, degli orizzonti, delle tensioni che percorrono la vicenda umana. Era necessario al tempo della guerra fredda, ma lo è ben di più in un mondo globalizzato, unificato, ma allo stesso tempo abitato da tante, differenti, talvolta configgenti identità culturali, politiche, religiose. Non si tratta del lavoro di un intellettuale, ma di un insieme di pensiero, azione, relazioni. La bottega dell’artigiano è decisiva; non la biblioteca del ricercatore, ma un luogo connesso a una comunità umana. Ci fu La Pira e con lui Firenze:
“Questa Firenze – dice il sindaco nel 1963 – che ha avuto l’imperdonabile ardimento di dire al mondo intiero che l’inverno storico della guerra era finito per sempre e che la primavera storica della pace era spuntata per sempre; che ha osato parlare con estrema chiarezza dell’inevitabilità del disarmo e della pace; che ha dato una mano vigorosa… ai popoli del terzo mondo (Cina compresa)…”.
Giuseppe Dossetti ha affermato che non è stata Firenze a dare al suo sindaco una proiezione internazionale, ma lui l’ha inventata mentre la città gli fu di supporto. Concordo, ma sono convinto che da solo La Pira non sarebbe stato un uomo dell’universale, ma un trepido intellettuale. Ha parlato ed agito in nome di una comunità cittadina di grande prestigio storico; ha offerto la città come spazio alto dell’incontro. L’artigiano delle visioni e la sua città sono divenuti un laboratorio di civiltà del convivere. Genio personale, storia urbana, città hanno creato una miscela dinamica, che è divenuta una rete di rapporti e un’autorità.
Questa esperienza non è del passato, ma nel mondo globalizzato, mentre si affievolisce la funzione degli Stati, le città possono essere luoghi alti dell’incontro, crocevia, politici, finanziari, culturali. Le città possono tornare ad essere soggetti internazionali. Sì, perché oggi vicende storiche particolari, iniziative, risorse umane e di visione, possono qualificare una comunità – non solo una città – come un soggetto internazionale.
Tornare a guardare La Pira, in un differente quadro geopolitico, ribadisce oggi che è possibile avere visioni, realizzare una politica amica della visione, porsi come soggetti internazionali in un mondo senza confini e con molte fratture. Anzi, questo universo largo e confuso ha bisogno di crocevia di elezione più di ieri. Oggi, anche una piccola comunità di donne e di uomini può trovare un profilo internazionale e far molto per la pace, mentre diplomazie o organizzazioni internazionali affogano, come vediamo purtroppo dalle loro crisi.
Da un punto preciso della storia, una città, pochi uomini e donne uniti possono partire per incontrare l’altro, anche se ostile, cercando sempre l’uomo: “Questi ‘briganti’ – insegna il Professore – come Kruscev e Mao Tse Tung bisogna avvicinarli; bisogna guardarli con fede e sicurezza negli occhi; bisogna sentirli già vinti… E non bisogna aver paura di avvicinarli: di parlare con loro, di dialogare con loro, di fare, a visiera alzata, la scherma con loro…”. Il rapporto umano conta molto nel mondo globalizzato e ipertecnico. Questa è la storia di Giorgio La Pira, un uomo che qualificò Firenze e inventò, senza che nessuno glielo avesse chiesto, una politica di visione.
La storia è memoria e non lezione a nessuno. Mostra come, per una comunità unita a una visione appassionata del mondo, nonostante la debolezza materiale, è possibile interpretare le esigenze profonde del mondo, farsi crocevia delle genti, luogo simbolico e reale di pace e di civiltà a fronte dell’imbarbarimento. Il mondo ha bisogno di una Gerusalemme ideale. Quella reale è lacerata. La Pira parlava di una Firenze con funzione vicaria rispetto a Gerusalemme. E’ un modello e un paradigma che si ripropone a tante comunità umane.
Se si soffre per mancanza di visioni e di visioni condivise, non mancano in questo nostro tempo i tanti orgogli dei singoli e gli assordanti protagonismi del momento. La Pira, uomo antico (ma forse del futuro), lontano dall’orgoglio del protagonismo, ebbe l’audacia – non l’orgoglio – di mettere la sua comunità civica sul monte da cui vedeva il mondo.
Vorrei concludere con Luzi, dopo aver iniziato con la poesia di Wojtyla:
“Ricordate? Levò alti i pensieri
stellò forte la notte
inastò le sue bandiere
di pace e di amicizia
la città degli ardenti desideri
che fu Firenze allora…”.