Ernesto Balducci è morto vent’anni fa. Scomparso in seguito ad un incidente stradale l’anno di Maastricht e di Tangentopoli, ha appena fatto in tempo ad affacciarsi nei “roaring Nineties”, l’inizio del tormentato inizio del processo di globalizzazione, nel quale ancora siamo profondamente immersi. Sono solo vent’anni, ma al tempo stesso rappresentano un arco di tempo, che ci sembra infinitamente lungo per gli straordinari cambiamenti impressi dall’incedere del tempo.

Forse ha un po’ di sapore retorico, ma per quanti l’hanno seguito in vita e ancora ritrovano nei suoi scritti una bussola per l’incerto presente, viene spontaneo provare ad immaginarlo anticipatore, o meno, della novità globale. Senza attribuirgli capacità predittive, sta di fatto che un’operazione del genere, dall’esito per nulla scontato, ha il suo fascino. Quanto meno ci spinge a fermarci e riflettere sulla lontananza siderale che ci separa da quel mondo, operazione che comunque può risultare salutare. L’obiettivo ultimo, diciamo più modestamente, può risiedere semplicemente nel verificare l’attualità del suo pensiero come strumento analitico per la comprensione delle tumultuose trasformazioni, di cui siamo spettatori; ma si trasforma anche in un esercizio di riflessione e di consapevolezza per noi che questi venti anni li abbiamo vissuti. Tutto questo senza ricorrere a una specie di gioco del riconoscimento di quanto sopravvive nel suo pensiero. Di certo neppure Balducci era in grado di disegnare i caratteri inediti, tanto per mutuarne un aggettivo a lui caro, di una tale straordinaria accelerazione della storia, che in vent’anni ha fatto del dato economico un vincolo interpretativo della realtà assai più opprimente di quanto non fosse. Non poteva neppure leggere nelle nuove acquisizioni tecnologiche, già allora sconvolgenti, il mutamento del ruolo della tecnologia, da fornitrice di strumenti, atti a migliorare le nostre condizioni di vita e di lavoro, ad elemento capace di rimodellare le vite, offrendoci livelli inusitati di informazione e di interconnessione.

Ma quello che balza più prepotentemente agli occhi, leggendo specialmente i lavori dell’ultima fase della sua vita, cioè della cosiddetta svolta antropologica, è la perdurante contrapposizione fra l’uomo portatore del verbo e degli interessi capitalistico-occidentali e l’umanità sfruttata, approccio che oggi lascia il posto a nuove realtà, che stanno ormai travolgendo quella civiltà, con cui Balducci aveva costantemente dialogato. Pur continuando a riconoscerci nel costante richiamo alle ineguaglianze e alle sofferenze di quello che allora veniva chiamato Terzo Mondo, lettura metodologica che le vicende globali non hanno affatto reso obsoleta – le distorsioni prodotte dall’economia non sono inferiori rispetto a quelle di vent’anni fa –, fatichiamo però a riproporre quegli schemi per interpretare la realtà odierna. Quell’uomo che Balducci vedeva ergersi altezzosamente di fronte alle masse povere del mondo, oggi si trova sempre più messo nell’angolo e schiacciato “dalla globalizzazione degli altri”, cioè quelle centinaia di milioni di essere umani che, con la loro crescita tumultuosa, stanno portando a compimento una svolta epocale. Un esito del genere era meno che pensabile ancora vent’anni fa, quando Balducci percepiva la nuova dimensione che si stava imponendo, senza però intuirne fino in fondo gli sviluppi.

Ma una cosa importante Balducci l’aveva capita: che non stava scritto nella storia che la guida del mondo sarebbe rimasta necessariamente sempre nelle stesse mani, che non era un dato immutabile la prevalenza della nostra civiltà. Già allora ci spingeva a pensare questo con la sua parola. Del resto che la società occidentale stesse tramontando, Balducci l’aveva nitidamente dimostrato. Oggi tutto questo lo viviamo direttamente anche sotto il profilo del progressivo peggioramento delle nostre condizioni economiche e di fronte all’emergere di altri popoli, che in parte ripercorrono la stessa nostra strada e in parte affermano valori nuovi, che frequentemente stentiamo a comprendere e accettare. La lezione balducciana ci permette di dare un senso alla transizione storica e al cambiamento in corso, piuttosto che ridurli a mera contingenza comodamente superabile.

Ci svela il senso della nuova direzione, che ha preso repentinamente il mondo; ci troviamo, in definitiva, su quella parabola, che nei suoi scritti disegnava con nettezza. In lui sono rintracciabili i disagi e le incertezze, che la nuova epoca gli trasmetteva, rispetto ad un’interpretazione sempre più ardua del nuovo ordine mondiale e di come questo si calasse e prendesse forma nelle coscienze dei singoli. Senza cedere alla prospettiva etica antropologico-planetaria, Balducci ci consegnava la certezza che comunque il soggetto della storia resta l’umanità intera in perenne stato di cambiamento e di cui occorre saper leggere i fermenti. Anche grazie a lui possiamo guardare con criticità al fenomeno della globalizzazione, mantenendo ben ferme quelle coordinate che stanno dentro nel suo insegnamento.

Andrea Giuntini